Il pensiero del giorno

Il Peccato originale

di don Giovanni Poggiali OMME

 

1.Che cos’è il peccato?

Il peccato è essenzialmente il risultato di un’azione libera dell’uomo che tende a percorrere un itinerario di auto salvezza e che consiste nel rifiuto di riferirsi a Dio. Sant’Agostino (354-430) lo definisce come «dictum vel factum vel concupitum contra legem aeternam»[1].

Per l’Antico Testamento il peccato è l’azione negativa compiuta nei confronti di Dio quando si rompe il legame con la sua alleanza. Sono utilizzati svariati termini per indicare questa realtà e il vocabolario è molto ricco. Uno dei significati principali è «mancare il fine». Per l’ebraismo può essere un atto individuale o collettivo che si rivolge non solo a Dio, ma anche al prossimo. Il peccato suppone una previa relazione di amicizia, frutto dell’offerta libera della grazia e dell’amore che Dio fa al suo popolo e agli uomini in generale. Non è una mera trasgressione di una legge esteriore, ma il tradimento di un’amicizia. Il peccato viene a porre fine a una situazione di armonia nella quale il popolo di Israele — e l’umanità in quanto tale — si trova quando vive nella pace di Dio. In fondo, nella sua essenza, l’azione peccaminosa commessa dall’uomo va più in profondità: nasconde, cioè, l’intenzione dell’uomo di sostituirsi a Dio e di fare a meno di Lui.

Nel Nuovo Testamento è presente ampiamente il tema dell’uomo peccatore. Gesù non descrive la natura del peccato, ma la sua preoccupazione è incontrare gli uomini che hanno peccato e offrire loro la misericordia e il perdono di Dio, invitandoli a rivolgersi nuovamente al Padre. Il perdono che Gesù accorda al peccatore merita necessariamente un cambiamento nell’intimo del cuore: la conversione. L’indurimento del cuore e la mancanza di conversione sono i veri ostacoli alla salvezza dell’uomo e all’ingresso nel Regno di Dio annunciato da Gesù.

Dall’insegnamento biblico e dal Nuovo Testamento in particolare si deduce, quindi, che il peccato è la scelta di non orientare l’esistenza a Dio e di consegnare la propria vita agli idoli, producendo la morte, la quale è allontanamento da Dio, che è la Vita, e rinnegamento della condizione di creature. Si deduce anche l’esistenza nel mondo di una forza di peccato che proviene dall’accumulo delle trasgressioni di coloro che ci hanno preceduto e, più in particolare, dal peccato commesso all’inizio della storia, che domina l’esistenza dell’uomo e, in particolare, di coloro che non si sono incorporati a Cristo. Questa forza di peccato e di morte fa sì che tutti gli uomini siano «peccatori», non solo individualmente, ma anche in quanto membri di una umanità peccatrice (cfr. Rm 5,12).

2. Il significato di «peccato originale»

Il peccato commesso all’inizio della storia viene chiarito dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) nella parte di commento della Professione di fede e in particolare del primo articolo del Simbolo Apostolico («Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra»). Sono precisati i termini relativi al peccato delle origini riproponendo la dottrina classica dei Padri, in particolare di sant’Agostino d’Ippona e di san Tommaso d’Aquino. In che cosa è consistito questo peccato? «L’uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore [Cf Gen 3,1-11] e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell’uomo [Cf Rm 5,19]. In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà» (CCC, n. 397). La dottrina del peccato delle origini risulta essere «il rovescio» del Vangelo che è la lieta notizia della salvezza per tutti gli uomini (cfr. CCC, n. 389). Come Cristo è il centro del cosmo e tutto sussiste in Lui e da Lui tutto dipende (cfr. Col 1,17), così il male del peccato si diffonde nella storia sottomettendo a sé la volontà e la ragione dell’uomo. Fondamento biblico della caduta delle origini è il capitolo 3 del libro della Genesi, in cui, attraverso un linguaggio di immagini ma ancorate a un evento primordiale accaduto all’inizio della storia, viene narrata la colpa originale commessa liberamente dai nostri progenitori. La Rivelazione ci dà la certezza che tutta la storia è segnata da questo peccato (cfr. CCC, n. 390).

Cercando di approfondire queste asserzioni, possiamo dire che il peccato originale è il rifiuto dell’uomo a essere immagine di Dio. In Cristo tutto è stato creato e il Verbo incarnato è il fine della creazione (cfr. Col 1,16). Tutta l’umanità è predestinata alla salvezza grazie all’incarnazione del Verbo di Dio in Gesù Cristo. Il Logos incarnato è il mediatore, il primogenito delle creature. Cristo, per citare il card. Giacomo Biffi (1928-2015), è la «causa efficiente» dell’universo e ha una parte nella chiamata all’esistenza di tutte le cose. In Lui viene delineato il punto di partenza di ogni teologia e di ogni riflessione sistematica sulla Rivelazione di Dio nel suo Figlio. Questo progetto, però, ci dice anche che l’uomo può fare a meno di riferirsi a Dio tentando la via dell’auto-salvezza e dando così corpo a un tentativo di divinizzazione, che è lo scopo della creazione dell’uomo, esclusivamente basato sulle proprie forze e senza la grazia di Dio. La famosa frase che il serpente rivolge a Adamo ed Eva nel dialogo che intraprende con loro — nel caso mangiassero dell’albero che sta in mezzo al giardino —: «sareste come Dio conoscendo il bene e il male» (Gn 3,5), in realtà non è una menzogna perché questo è lo scopo dell’amore di Dio per il destino di ogni persona, ma Satana desidera che si realizzi senza la misericordia e gli aiuti di Dio, escludendolo dalla vita di relazione dell’uomo e organizzando così una storia di perdizione e non di salvezza. Il peccato che coinvolge storicamente l’uomo fin dall’origine è svelato proprio nel confronto con l’evento di grazia del Figlio di Dio che si è fatto carne. Nella luce di Cristo e alla luce della sua misericordia, infatti, ogni uomo può compiere il suo cammino di creatura obbedendo al progetto salvifico di Dio, invece, il suo rifiuto lo pone in una logica egoistica dove al posto di Dio trova se stesso e la propria rovina.

Questa possibile negazione della bellezza che Dio vuole per la sua creatura include anche il rifiuto del prossimo perché il peccato è negazione di sé e dell’amore fraterno. Nella Genesi, infatti, scopriamo come fin dalle origini i primi uomini perdono la loro intesa e si accusano (cfr. Gn 3,12). Il peccato diventa contagioso e i legami fraterni si spezzano (cfr. ibid., 4,8-9), fino a ferire ogni tipo di relazione. La colpa crea solitudine e morte e anche il creato ne viene intaccato, con una ricaduta sul contesto sociale come ha spiegato efficacemente san Giovanni Paolo (1978-2005) nell’Esortazione apostolica post-sinodale «Reconciliatio et paenitentia» (RC) del 2 dicembre 1984. Il Papa ricerca la causa profonda di quelle che lui, in altro luogo, chiama le “strutture di peccato” (cfr. Enciclica «Sollicitudo rei socialis», del 30 dicembre 1987, n. 36) e la ritrova nella ferita lacerante che segna in profondità il cuore dell’uomo: «Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un’eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà» (RC, n. 2). Bisogna sottolineare, infatti, come la rottura dell’amicizia originale fra l’uomo e il suo Creatore ha luogo con l’intervento della libertà umana: ogni peccato implica la libertà, anche il peccato di origine e non si tratta quindi per l’uomo di un destino fatale.

3. Lo sviluppo storico del «peccato originale»

Delineare lo sviluppo storico del concetto e della terminologia relativa al peccato di origine non è affatto semplice. Prima di Agostino d’Ippona sembra che il tema non sia oggetto d’ampia indagine. Nei Padri greci e latini si trova certamente la descrizione in cui versa l’umanità a causa della trasgressione di Adamo ma anche soprattutto a causa dei peccati personali. Lo stesso avviene nelle questioni legate al battesimo dei bambini trattate dai padri.

Sarà proprio sant’Agostino — a cominciare dal quale anche la dottrina della Chiesa è andata precisandosi, soprattutto nel V secolo, e poi nel XVI secolo in opposizione alla prima tappa della Rivoluzione, il Protestantesimo — che assumerà nei confronti del pelagianesimo (da Pelagio; 360-420) la posizione rimasta classica sulla colpa d’origine, almeno fino ad oggi, nella Chiesa cattolica. Così il Catechismo descrive questa fase: «Pelagio riteneva che l’uomo, con la forza naturale della sua libera volontà, senza l’aiuto necessario della grazia di Dio, potesse condurre una vita moralmente buona; in tal modo riduceva l’influenza della colpa di Adamo a quella di un cattivo esempio. Al contrario, i primi riformatori protestanti insegnavano che l’uomo era radicalmente pervertito e la sua libertà annullata dal peccato delle origini; identificavano il peccato ereditato da ogni uomo con l’inclinazione al male (“concupiscentia”), che sarebbe invincibile. La Chiesa si è pronunciata sul senso del dato rivelato concernente il peccato originale soprattutto nel II Concilio di Orange nel 529 e nel Concilio di Trento nel 1546» (CCC, n. 406).

Sarà, infatti, il Concilio di Trento che, nel Decreto sul peccato originale (quinta sessione: 24 maggio-7 giugno 1546), enuncerà i punti fondamentali per chiarire le questioni relative alla colpa d’origine: la sua esistenza, la provenienza e la trasmissione, la natura e i rimedi. Le proposizioni dottrinali di Trento, che si rifanno al precedente Concilio di Orange II (529) con degli elementi innovativi, costituiscono il vero e proprio dogma del peccato originale. È utile ed interessante leggere il primo canone del decreto che riassume, in pratica, l’essenziale dell’insegnamento in oggetto: «1. Se qualcuno non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso all’istante la santità e la giustizia nelle quali era stato stabilito e che, per questo peccato di prevaricazione, è incorso nell’ira e nell’indignazione di Dio, e perciò nella morte, che Dio gli aveva minacciato in precedenza, e, con la morte nella schiavitù di colui “che” poi “della morte ha il potere, cioè il diavolo” (Eb 2,14); e che tutto l’Adamo per quel peccato di prevaricazione fu mutato in peggio sia nell’anima che nel corpo: sia anatema»[2].

In pratica Trento insegna una peccaminosità universale che ha come causa il peccato di Adamo e si trasmette per il fatto di appartenere al genere umano. Il Catechismo del 1992, riguardo a tale trasmissione, afferma che essa rimane un mistero che non possiamo comprendere appieno e aggiunge: «Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto» (CCC, n. 404).

La teologia contemporanea ha messo in crisi la dottrina tradizionale del peccato originale a partire dall’impostazione della visione sulla persona umana, con i concetti di responsabilità e di soggettività e a partire dalle concezioni sulla stessa origine dell’umanità. La filosofia e diverse scienze sperimentali, con la loro rinnovata visione della persona umana, mettono in discussione una peccaminosità fin dall’origine che sia ereditaria, connessa con la trasmissione di una natura senza un atto di responsabilità personale. Sullo sfondo di queste nuove sollecitazioni culturali, i teologi cercano di cogliere e approfondire sempre di più la verità contenuta nel dogma cristiano e questo non è sempre semplice e lineare.

4. Una possibile sintesi

Memori dell’insegnamento teologico del card. Giacomo Biffi, che ha legato al concetto di «cristocentrismo» gli sforzi della sua riflessione teologica, oggi la teologia sistematica propone come punto di partenza per lo studio del peccato originale e dell’uomo in generale proprio la predestinazione/creazione in Cristo del genere umano, che esprime l’intenzione originaria di Dio della chiamata dell’uomo nel Verbo incarnato — come insegnano le Lettere paoline, in particolare Ef 1,1-14 e Col 1,13-20). La solidarietà di tutti gli uomini in Adamo si iscrive nella solidarietà originaria e antecedente degli uomini in Cristo. Questa solidarietà in Cristo è il senso compiuto del progetto di Dio ed esclude un’auto-salvezza a prescindere da Gesù Cristo. Quindi, secondo la rivelazione, la solidarietà in Adamo è in realtà una complicità nel peccato di Adamo e la predestinazione dell’uomo in Cristo si oppone alla solidarietà nel peccato di Adamo. Quest’ultima è la pretesa di salvarsi senza Cristo, e ciò conduce alla perdizione. Fra peccato di origine e peccati personali, inoltre, c’è uno stret­to legame: questi ultimi manifestano il senso del dramma che deriva dalla colpa d’origine e, nello stesso tempo, attualizzano e diffondono lo stesso peccato originale. Non si può addossare al solo peccato originale originante tutto il peso del male e della miseria nel mondo, perché anche i nostri peccati attuali contribuiscono alla sua diffusione. Non siamo certo agnelli innocenti e le conseguenze del peccato originale originato, di cui portiamo le conseguenze nell’anima a causa della prima trasgressione di Adamo — nostro padre nell’umanità —, vengono alimentate dai nostri peccati personali che incidono su di noi e anche sulle vite degli altri.

Resta, in ogni caso, determinante che il primato e il fine della creazione siano la grazia e la misericordia di Cristo: «Che significato ha la scelta di un Uomo-Dio, al quale tutta la creazione è ordinata? Pare evidente che lo specifico di questo disegno è la volontà di manifestare, prima e più di ogni altra perfezione divina, l’amore misericordioso capace di superare ogni ribellione e vincere ogni durezza»[3].

Si confrontano, così, due visioni teologiche all’interno della Rivelazione: la considerazione del peccato di Adamo trasmesso a tutte le generazioni, il Verbo eterno che si incarna per eliminare questa colpa d’origine e le opere del Diavolo — «amartiocentrismo», da «hamartìa», «prendere una strada sbagliata» nella lingua greca antica, che è tradotto oggi con «peccato» — oppure si considera il progetto divino a partire da Cristo, origine e scopo della creazione, al cui interno vi è la colpa di Adamo, che conduce alla perdita di Dio e che viene inglobata nel progetto più grande della Redenzione senza intaccarne la potenza di salvezza — che quindi non dipende nel suo costituirsi da una mancanza precedente —, che produce una grazia sovrabbondante diffusa nelle membra della Chiesa — «cristocentrismo».

Forse le due immagini non sono da contrapporre, secondo la nota regola cattolica dell’«et, et», ma da tenere insieme e certamente oggi la priorità viene data al cristocentrismo. Il peccato rimane, anche se drammaticamente, una realtà relativa, poiché sulla sua concretezza si erge in assoluto l’opera salvifica e redentiva di Gesù Cristo. Il vero senso del peccato originale è comprensibile solo nell’orizzonte del progetto di predestinazione di Dio alla salvezza in Cristo e alla sua misericordia. Questo non toglie, certamente, la gravità e il peso del peccato nella vicenda umana.

Maria, Madre della Chiesa, concepita senza peccato originale, «segno di sicura speranza e di consolazione»[4], ci guidi nel combattimento e nella lotta quotidiana contro il peccato: «[…] numerosi Padri e dottori della Chiesa vedono nella Donna annunziata nel “protovangelo” la Madre di Cristo, Maria, come “nuova Eva”. Ella è stata colei che, per prima e in una maniera unica, ha beneficiato della vittoria sul peccato riportata da Cristo: è stata preservata da ogni macchia del peccato originale [Cf Pio IX, Bolla Ineffabilis Deus: Denz.-Schönm., 2803] e, durante tutta la sua vita terrena, per una speciale grazia di Dio, non ha commesso alcun peccato» (CCC, n. 411).

Giovedì, 28 marzo 2024

Per approfondire

Luis F. Ladaria, Antropologia Teologica, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1995, pp. 226-306.

Giovanni Ancona, Antropologia Teologica. Temi fondamentali, Queriniana, Brescia 2014, pp. 221-257.

Giacomo Biffi, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, Jaca Book, Milano 20212.

Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, nn. 385-421.

San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, vol. XI, Vizi e peccati, I-II, qq. 71-89, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1995.


[1]  «Il peccato è una parola, un’azione o un desiderio contro la legge eterna», cit. in San Tommaso d’Aquino (1225-1274), Summa theologiae, Ia-IIae, q. 71, a.6, ar.1; cfr. altresì Sant’Agostino, Contra Faustum manichaeum, 22,27.

[2] Heinrich Joseph Denzinger (1819-1883), Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue sulla 43ª edizione, a cura di Peter Hünermann, EDB. Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2018, n. 1.511.

[3]  Giacomo Biffi, Approccio al cristocentrismo. Note storiche per un tema eterno, Jaca Book, Milano 20212, p. 48.

[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa «Lumen gentium», del 21 novembre 1964, n. 68.

2024: Anno della Preghiera

Il Papa dedica un anno alla preghiera in preparazione al Giubileo del 2025

di don Giovanni Poggiali

Il 21 gennaio scorso Papa Francesco, durante l’Angelus domenicale, ha annunciato l’indizione per il 2024 dell’Anno della preghiera per prepararsi al Giubileo del 2025: «I prossimi mesi ci condurranno all’apertura della Porta Santa, con cui daremo inizio al Giubileo. Vi chiedo di intensificare la preghiera per prepararci a vivere bene questo evento di grazia e sperimentarvi la forza della speranza di Dio. Per questo iniziamo oggi l’Anno della preghiera, cioè un anno dedicato a riscoprire il grande valore e l’assoluto bisogno della preghiera nella vita personale, nella vita della Chiesa e del mondo».

Come ha ribadito mons. Rino Fisichella nella conferenza stampa di presentazione dell’evento, il successivo 23 gennaio, «non si tratta di un Anno con particolari iniziative, piuttosto, di un momento privilegiato in cui riscoprire il valore della preghiera, l’esigenza della preghiera quotidiana nella vita cristiana; come pregare, e soprattutto come educare a pregare oggi, nell’epoca della cultura digitale, in modo che la preghiera possa essere efficace e feconda».

Certamente, l’aspetto della preghiera in una società secolarizzata e lontana da Dio come la nostra è una sfida per ciascuno di noi, perché possiamo trovare spazi e tempi giornalieri adeguati al rapporto con Dio, di cui la preghiera è segno principale e necessario. La preghiera, in fondo, rivela quanto ci interessa davvero Colui che diciamo di amare e in cui crediamo. L’amore, senza gesti e fatti concreti, senza il rivolgersi quotidianamente all’Amato del cuore in un dialogo che è innanzitutto ascolto, non regge e si inaridisce.

Gesù invita i suoi discepoli a pregare sempre senza stancarsi mai (cfr. Lc 18,1). Questa esigenza è talmente forte e radicata nel cuore del credente che ogni giorno, in moltissimi monasteri e comunità religiose nel mondo, si prega la Liturgia delle Ore proprio per non lasciare nessuna ora del giorno senza lode e ringraziamento a Dio. Non si può pensare sempre a Dio, come ricordava padre Rodolfo Plus (1882-1958) nell’aureo libretto Come pregare sempre, ma è possibile pensarci spesso e ricordarLo durante la giornata, sia con delle giaculatorie, sia con momenti di silenzio dedicati esclusivamente a Lui, sia offrendogli i momenti di lavoro e le sofferenze e le gioie della vita, sia con la preghiera di intercessione per gli altri, sia con la lettura della Parola di Dio e la lectio divina, o con altre devozioni e preghiere diffuse lungo tutta la giornata. Lo scopo è diventare, come insegna sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali, contemplativus in actione, “contemplativo nell’azione”, cioè sempre alla presenza di Dio anche se impegnati nelle più svariate attività quotidiane.

Fecondo, quindi, l’invito di Papa Francesco alla preghiera. Sarà un anno in cui potremo rivedere anche il nostro modo di pregare, i tempi da dedicare a questa attività primaria e i luoghi dove adorare il Signore e partecipare alla lode e alla liturgia della Chiesa. In questo modo prepareremo il nostro cuore a vivere il Giubileo del 2025, in analogia con i diversi terreni di cui parla Gesù nella parabola del seminatore (cfr. Mc 4), per accogliere il seme della Parola che Dio diffonde largamente e in abbondanza dentro le nostre vite, tenendo presente che c’è qualcuno che vuole rubarcelo affinché non produca frutto e venga disperso.

Il bisogno di spiritualità e di volgere lo sguardo e l’anima a Dio è oggi più che mai necessario, all’interno della cultura digitale e della confusione che regna a tutti i livelli della società civile, comunità ecclesiale compresa. 

Riprendiamo quindi, grazie all’Anno della preghiera, il nostro cammino di fedeli discepoli del Signore, cercando sempre di compiere la Sua volontà e di imitare Cristo soprattutto nell’atto della preghiera. Gesù pregava spesso il Padre in lunghi momenti di silenzio, anche notturni. La preghiera trasforma il cuore, accende in noi il fuoco dello Spirito, fa crescere il fervore e il desiderio di Dio, ci pone in relazione con l’Assoluto e in ascolto della sua Parola di vita. Ci pone in una giusta relazione con gli altri, convertendoci all’amore reciproco e alla mitezza. La Parola di Dio letta e meditata diventa così lampada ai nostri passi e luce sul nostro cammino (cfr. Sal 119,105). La preghiera è gioia del cuore e l’esercizio più autentico della nostra fede.

 

Storia della Cristianità occidentale: contributo di don Poggiali

Segnaliamo un libro di storia per le edizioni D’Ettoris di Crotone, intitolato Storia della Cristianità Occidentale, curato da Marco Invernizzi insieme a Paolo Martinucci e Michele Brambilla. Il libro raccoglie i testi dei video realizzati su YouTube nel tempo di lockdown durante la pandemia da Covid-19 dal 2020 da parte di diversi cultori delle materie storiche che spaziano dall’autenticità e storicità dei Vangeli fino all’epoca medievale, giungendo al pontificato di Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Si incontrano i periodi delle persecuzioni dei primi secoli della Chiesa, l’Oriente Cristiano, il Sacro romano impero e le crociate, quindi la riforma protestante, l’illuminismo, l’800, il concilio Vaticano I e II e molto altro. Tanti sono i temi storici trattati. Alcuni contributi sono stati scritti dal nostro Don Giovanni Poggiali. Vi proponiamo quello intitolato La divisione della Cristianità: Lutero e Calvino (pp. 197-204).

 

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La divisione della Cristianità: Lutero e Calvino

            Il nome di Lutero (1483-1546) è legato ad uno dei punti della storia moderna più gravidi di conseguenze. Nel XVI° secolo si è avviato il processo conosciuto come Riforma e che ha segnato in profondità fino ad oggi la Chiesa d’Occidente. Ogni discussione intorno alla Riforma protestante, infatti, conduce alla più sensibile incrinatura nella fede avvenuta nella cristianità occidentale e porta, nello stesso tempo, ad una disputa intorno alla persona e all’opera di Lutero. I motivi della Riforma sono molti e complessi. La ricerca della verità, in ambito religioso e storico, deve muovere sempre ogni tipo di studio e di analisi. Verranno meno giudizi affrettati e poco equilibrati che variano dalla condizione di pazzia di Lutero alla considerazione di lui come un “terzo Elia”, un “angelo”, un “apostolo”. Occorrono, credo, categorie più obiettive per la formazione di un giudizio storico. Proporremo in questa sede una breve disamina dei punti salienti della Riforma più che trattare i meri fatti storici.

            Brevi cenni biografici

            Martin Lutero nasce a Eisleben in Turingia (oggi Lutherstadt Eisleben) il 10 novembre del 1483. Entrò nel convento degli eremiti agostiniani il 17 luglio 1505 e fu ordinato sacerdote nel 1507. Nel 1512 consegue la licenza e il dottorato in teologia. Nel 1513 ebbe la famosa esperienza della torre, una illuminazione sulla dottrina della giustificazione leggendo la Lettera ai Romani 1,17; il 31 ottobre del 1517, andando contro l’autorità di Papa Leone X (1513-1521), affisse sulla porta della chiesa di Wittenberg le 95 tesi.

            Il concetto di riforma

            Analizziamo anzitutto il concetto di riforma. Nell’antichità la parola riforma era applicata soprattutto a livello antropologico: l’uomo doveva ri-formarsi, riconfigurarsi alla somiglianza con Dio. Sia i Padri che la liturgia attestano questo utilizzo derivante dalla Sacra Scrittura. Dall’XI° secolo compare un uso nuovo o una nuova applicazione dell’uso antico: si applica il termine reformatio alle realtà sociali e alle istituzioni, in primo luogo alla Chiesa. È nota la Riforma gregoriana. Si tratta di ricondurre la Chiesa alla sua forma primitiva: riformare, nel medio evo, significa formare di nuovo una cosa già esistente, ma deformata, significa ricondurre a una forma primitiva, supposta eccellente e vigorosa, una istituzione indebolita dal tempo, minata e corrotta dagli abusi. Questo comportava operare delle riforme a livello di vita della Chiesa e non delle strutture. Si limitavano gli abusi e si riformavano i costumi, ma non si toccava la dottrina trasmessa mediante la tradizione.

            Ora con Lutero e i riformatori del XVI° secolo c’è la spinta di riforma fino alla struttura stessa della Chiesa, dove per struttura si intende la costituzione fondamentale della Chiesa e ciò che è formalmente dogmatizzato nella sua tradizione cultuale e dottrinale. Lutero e gli altri riformatori intrapresero una riforma per motivi pastorali e per correggere degli abusi soprattutto in campo pastorale più che morale: nell’esercizio delle attività ecclesiastiche si trovava probabilmente poco sentimento e poca dedizione e ci si preoccupava eccessivamente degli aspetti temporali e del profitto personale. Queste cose corrompevano la predicazione. Si trattava allora di cambiare certe pratiche generalizzate che concernevano le indulgenze, la confessione, le reliquie, la celebrazione delle messe ecc. Almeno all’inizio Lutero disse che non contestava i principi stessi di tali pratiche ma il modo con cui si praticavano. Nell’intenzione dei riformatori c’era dunque un motivo eminentemente pastorale. Tuttavia non si sono fermati lì, infatti Lutero, in realtà, aveva osservato ben presto tre cose: in primo luogo, che i veri abusi implicavano, a suo modo di vedere, una falsa dottrina, distruttrice del vero rapporto religioso e dunque del Vangelo; si era infatti sostituito il vero rapporto religioso, che è interiore all’uomo, e il Vangelo, che è l’annuncio della salvezza accordata per grazia in Gesù Cristo, sulla base della fede, con delle pratiche con le quali si pretendeva guadagnare il cielo. In secondo luogo, e di conseguenza, che ciò che era malato nella Chiesa, era la dottrina, l’insegnamento e la predicazione, e che ogni riforma doveva cominciare con un rinnovamento del ministero della parola nel quale consisteva, sempre secondo lui, l’attività pastorale. In terzo luogo, che si trattava di cambiare non soltanto qualche punto di attuazione pratica, ma tutto un sistema. In fondo queste tre cose confluiscono verso questa conclusione: il vero punto da riformare era il sistema dottrinale. La Parola di Dio appariva a Lutero come soffocata da tutto un sistema umano, ecclesiastico, che consisteva in decretali, obblighi canonici, teologia dialettica e filosofia scolastica. In tal modo Lutero ha spostato la riforma dal piano dei costumi e della vita vissuta al piano della fede e della struttura stessa della Chiesa.

            Giustificazione

            Un altro punto caratteristico di Lutero è il concetto di giustificazione. Meditando su un testo di san Paolo tratto dalla lettera ai Romani, Lutero trovò la liberazione dalle sue angosce derivanti dal pensiero che Dio era un giudice severo che non concedeva la sua misericordia all’uomo: come ci si poteva salvare ottenendo la grazia di questo Dio? In Rm 1,17 trovò la risposta illuminante: “E’ in esso (il Vangelo) che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede”; “…scoperse che la giustizia di Dio di cui parla l’apostolo non era quella retributiva, che porta necessariamente alla condanna del peccatore, ma la giustizia misericordiosa di Dio, che rende giusto il peccatore. La salvezza non stava nello sforzo volitivo per disporsi alla grazia, ma nell’abbandonarsi a questa fiduciosamente. L’uomo non era salvato per le sue opere, ma per la grazia mediante la fede. Tale dottrina della giustificazione per fede divenne il cuore pulsante di tutto il messaggio luterano”.   Il concetto di giustizia quindi è importante: l’uomo è giustificato per la grazia di Dio, per la sua misericordia: la giustizia è lo stesso Cristo che è la mia salvezza. Attraverso la fede in Gesù sono giusto. Il riformatore si è preoccupato di fare una teologia salvifica più che ontologica, una teologia fondata sulla Parola di Dio la quale però arriva a coincidere con il testo scritto della Bibbia. Se è vera la ripresa della Scrittura e la valorizzazione fatta dai riformatori è altrettanto vero che il testo sacro è lettera morta se non è trasmesso da una comunità vivente, da un organismo dinamico nel quale può vivere e “crescere” in quanto comprensione e vita: è il concetto di Tradizione. Infatti il Concilio Vaticano II (1962-1965) ha affermato: “La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla chiesa”. La Scrittura non può essere in totale autonomia dalla Chiesa perché è la Chiesa stessa che ne definisce il canone ed è la Chiesa stessa l’alveo in cui la Scrittura ha avuto origine. Lutero, in pratica, cambierà tutto il suo sistema filosofico e teologico per accedere alla Bibbia, ai Padri e agli autori spirituali a lui cari.

            Lutero desiderava un linguaggio e un contenuto nuovo della teologia, più conforme al Vangelo e che non lo tradisse con un insegnamento e una predicazione umani. Ma l’indole fortemente soggettiva di Lutero lo indusse a cercare nella Bibbia non la fede della Chiesa ma la soluzione dei propri dubbi. La sua teologia, da un lato è violentemente polemica e distruttrice nei riguardi della vecchia Chiesa, dall’altro desidera nutrirsi di una viva spiritualità che alimenti il cristianesimo luterano. Sulla croce si acquisisce la vera conoscenza di Dio in quanto Dio nascosto; l’unico modo di accoglierlo in noi è la fede. La conoscenza di Dio, per Lutero, si ha nella debolezza e nella stoltezza umane e non nell’epifania della sua gloria che è riservata agli ultimi tempi.

            La Chiesa

            Vediamo il concetto di Chiesa in Martin Lutero. Secondo il riformatore agostiniano è la Parola che rende cristiani, che ci fa entrare nella Chiesa e ci costituisce Chiesa. Lutero attribuisce tutta la funzione della Chiesa e del ministero alla predicazione della parola e considera la fede come l’unica realtà della nostra incorporazione a Cristo. Fino al 1517 il riformatore ebbe una nozione tradizionale di Corpo mistico il quale conservava i due aspetti di organismo di salvezza come corpo visibile e di comunione di tutti coloro che per grazia hanno parte alla vita di Cristo. La Chiesa sarà per Lutero una comunità spirituale (evita anche l’utilizzo del vocabolo chiesa), cristiana e santa, di uomini: la comunità che non si forma sulla base della nascita o della potenza, come le comunità temporali, ma su quella della fede in Cristo. Questa concezione si basava su un elemento caratteristico dell’ecclesiologia riformata: l’opposizione tra interiore ed esteriore, cioè tra fede e ragione, tra Spirito e potenza, tra mondo di Cristo e questo mondo. La Chiesa è il regno spirituale ed invisibile, nella fede, del Cristo spirituale ed invisibile. In questo senso Lutero parla di Chiesa invisibile. La forma visibile della Chiesa nell’istituzione e nelle strutture, appesantita dalle “cose” esteriori eccessivamente sviluppate a danno della realtà religiosa insita nel cuore dell’uomo, doveva lasciar spazio all’ordine interiore della vocazione, della parola e della fede. Lutero paragonerà il Corpo mistico ad un’anima e considererà qualsiasi forma esteriore come carnale compreso quindi il primato papale. Tale concezione di Chiesa in Lutero, comunque, si manifesta visibilmente attraverso dei segni: il battesimo, il sacramento dell’altare e il Vangelo. Tali elementi visibili non sono però dei mezzi efficaci per il dono della grazia ma dei segni che accompagnano l’opera di Dio che è conosciuta per la sola fede la quale, unica, ha valore. Viene così negata la dottrina cattolica misconoscendo l’elemento umano della Chiesa stessa e la sua mediazione necessaria per l’ottenimento della grazia di Cristo e quindi della salvezza.

            L’azione riformatrice passava allora dal piano della vita a quello della sua struttura. Lo affermavano gli stessi protestanti della seconda generazione: lo scopo cui in realtà tendeva la riforma era di cambiare la fede della Chiesa, correggere il suo culto e abbattere l’autorità del Papa. Un esempio molto chiaro di questo era la concezione della Messa secondo Lutero: era un abuso di Roma considerare la Messa come rinnovazione del sacrificio di Cristo offerto al Padre insieme con le preghiere dei cristiani. Per lui era soltanto la commemorazione dell’ultima Cena del Signore.

            Giovanni Calvino

            Non era pensabile che i riformatori potessero dar vita a un movimento unitario, proprio in forza dell’affermazione che ogni cristiano che legga la Sacra Scrittura riceve direttamente dallo Spirito Santo la regola della fede. Dopo Hulrich Zwingli (1484-1531) che affermava che solo il Vangelo è fondamento della fede, che il papato non è di diritto divino e che diffuse il movimento evangelico da Zurigo in gran parte della Svizzera, nacque a Noyon in Francia Giovanni Calvino (1509-1564). La sua conversione alla Riforma non si è originata come in Lutero, dalla lotta angosciosa per la propria salvezza. Per Calvino veniva prima la riforma della Chiesa a cui non poteva sottrarvisi. Nel 1536 appare la prima stampa dell’opera principale di Calvino Institutio Christianae Religionis che nel 1559-60 divenne un vasto trattato di dogmatica in 4 libri. Dopo una prima attività a Ginevra nel 1536-38, pubblicò nel 1537 gli Articoli concernenti l’organizzazione della Chiesa: Calvino proponeva di restaurare la società secondo la legge di Cristo e per fare questo i cristiani dovevano accostarsi alla Cena del Signore escludendo però gli indegni. La conseguenza era un rigoroso ordinamento civile della società, retto da magistrati fermi e incorruttibili, per individuare i viziosi e i devianti, se possibile correggerli o escluderli dalla città. Fece redigere la Confessione di fede obbligatoria per i cittadini di Ginevra, chi rifiutava la professione di fede doveva andarsene. Nella Riforma calvinista, il fatto nuovo è che il tribunale per le cause religiose era in mano alle autorità civili e la Chiesa dipendeva totalmente dal potere secolare. Giunse a Basilea e quindi a Strasburgo dove portò a termine la seconda edizione dell’Institutio e dove acquisì gli aspetti pratici dell’organizzazione di una comunità liturgica e della cura d’anime. Tornò a Ginevra nel 1541 definitivamente e da Strasburgo Calvino riportò l’assetto definitivo della sua chiesa fondato sui quattro uffici di pastore, dottore, anziano e diacono. I pastori devono annunciare la parola di Dio e amministrare i sacramenti. I dottori sono i maestri di AT e NT, devono insegnare lingue bibliche e cultura generale e vengono nominati, come i pastori, dal consiglio cittadino. Gli anziani, in numero di 12, devono vigilare sul comportamento dei fedeli, con i pastori formano il concistoro, l’organo direttivo della chiesa. Infine i diaconi erano addetti alla cura dei poveri e amministravano i beni della chiesa. Gli oppositori di Calvino, che instaurò un regime duro, fino alla pena di morte, furono chiamati da lui libertini perché sostenevano una maggiore libertà per vivere. Calvino fondò poi l’Accademia, un antico suo progetto per formare i riformatori che poi si diffusero in Olanda, Scozia, Francia, Ungheria, Polonia e Russia. A livello teologico, nel calvinismo troviamo la doppia predestinazione: alcuni uomini sono destinati alla salvezza eterna altri alla dannazione. La Scrittura, come per i luterani, era l’unica norma di fede, il libero arbitrio dell’uomo veniva negato e la giustificazione del peccatore era solo per la fede senza le opere.

BIBLIOGRAFIA

  1. CONGAR, Lutero. La fede – La riforma, Morcelliana, Brescia 1984.
  2. CONGAR, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 19942.
  3. PUGLISI – S. TOBLER (a cura di), Testimoni della fede nelle chiese della riforma, Città Nuova, Roma 2010.

Articolo di don Giovanni Poggiali

Pubblichiamo un articolo di Don Giovanni Poggiali apparso sul numero 414 (marzo-aprile 2022) della rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica.
L’articolo affronta la pagina neotestamentaria dell’Inno alla Carità di san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi pensata in rapporto alle categorie del “mondo che muore” e del “mondo che nasce” dello scrittore cattolico svizzero Gonzague de Reynolds (1880-1970).
Il mondo che muore è la Cristianità Occidentale erosa da un lungo percorso storico di secolarizzazione e di perdita dei criteri essenziali della fede come impostazione della vita personale e sociale; il mondo che nasce è tutto da costruire ma certamente nascerà: dopo ogni morte, infatti, c’è la risurrezione, a cominciare dalla primizia che è Gesù Cristo. Buona lettura!

 

L’Inno alla Carità e l’apostolato di Alleanza Cattolica
tra un mondo che muore e un mondo che nasce

Un mondo che muore, un mondo che nasce

La storia della civiltà occidentale, in particolar modo la storia europea, si può descrivere come le cime di una cordigliera con vette e depressioni profonde, epoche fiorenti e periodi vuoti (1). Una civiltà ha momenti simili di nascita, sviluppo, declino e morte. A mano a mano che essa cresce, si concentra sempre di più sugli aspetti secondari piuttosto che sostanziali: è il peccato dell’uomo, il suo egoismo che decentra dal vero obiettivo e dal vero centro su cui quella civiltà è fondata. Oggi noi ci troviamo in fondo alla depressione brusca e profonda che ha caratterizzato la Cristianità Occidentale, in pratica un mondo che muore, arrivata al suo apogeo nel Medioevo e caduta progressivamente attraverso le tappe rivoluzionarie delineate dal pensiero della scuola cattolica contro-rivoluzionaria (2). La speranza di un mondo che nasce è quella di riorientare la vita degli uomini verso la relazione con Dio, verso un rapporto con il prossimo secondo il Vangelo, verso le cose sostanziali per rinnovare il fervore della fede. Papa Francesco, nell’ultima solennità dell’Epifania, ha parlato di rinnovare il desiderio: «La crisi della fede, nella nostra vita e nelle nostre società, ha anche a che fare con la scomparsa del desiderio di Dio» e ha aggiunto: «Solo se recuperiamo il gusto dell’adorazione, si rinnova il desiderio. Il desiderio ti porta all’adorazione e l’adorazione ti fa rinnovare il desiderio» (3).

Gonzague de Reynold, nel saggio citato, scrive che i periodi di transizione, che possono essere anche molto lunghi, «non si compiono mai nella pace e nell’ordine; si compiono sempre nel disordine, e li caratterizza la violenza. Sempre vi è una flessione della moralità, della stessa civiltà. I progressi che si preparano, che verranno riconosciuti, che verranno adottati dopo, iniziano sempre con eccessi, con esagerazioni» (4). Questo ci aiuta forse a comprendere la confusione e la divisione che viviamo quotidianamente a tutti i livelli. Lo studioso svizzero afferma anche, però, la necessità di accettare il tempo presente che stiamo vivendo, come tempo provvidenziale che ci è stato donato: «Signori, piaccia o non piaccia, dobbiamo accettare il nostro tempo, perché non abbiamo il potere di non esservi e perché la Provvidenza ci ha posto qui per compiervi la sua opera» (5).

Oggi, il mondo che muore ci lascia come eredità l’ateismo teorico e pratico, l’emarginazione di Dio da tutti gli ambiti della vita, la dittatura del relativismo, il pensiero unico, la sfida della cultura di morte, l’inverno demografico ma non può morire la speranza del mondo che nasce, perché un mondo nuovo sta nascendo, come sempre avviene nella storia, maestra di vita, dopo una decadenza. Questo concetto va inserito anche nel quadro ancora più grande della lotta simboleggiata da sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali con la contemplazione dei Due Stendardi o Bandiere (6): la lotta di Satana contro l’Uomo-Dio Gesù Cristo, stirpe della Donna, che è la Beata Vergine Maria. Secondo una certa interpretazione di teologia della storia, Satana sarebbe sciolto dalle catene (cfr. Ap 20,1-7) e avrebbe sferrato il suo più feroce attacco all’umanità per impadronirsi delle anime. Le apparizioni di Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina (7), sarebbero direttamente legate a questa lotta essendo la Vergine Maria apparsa per contrastare quest’azione demoniaca che, soprattutto in questi ultimi quarant’anni (durata attuale delle apparizioni), ha causato un decadimento impressionante della fede in Occidente fino alla profonda crisi religiosa in gran parte della popolazione occidentale, anche a causa della pandemia del virus Covid-19.

Come vivere bene il tempo “vuoto” tra il mondo che muore e il mondo che nasce?

La «via più sublime» (8)

Se diventa necessario riorientare la nostra vita verso valori assoluti, verso Dio con la conversione, non può mancare il volgersi verso il centro del messaggio evangelico, la carità, la capacità di amare e di donarsi. L’amore evangelico, per utilizzare un linguaggio prettamente ignaziano, è come il Principio e fondamento di tutta la nostra azione per il bene della Chiesa. Senza amore di Dio non c’è vita, non c’è vera fede, non c’è vero apostolato. I doni spirituali ricevuti da Dio, i carismi di cui parla san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 12), prima del famoso capitolo 13 dell’Inno alla carità, non servono per edificare noi stessi. Spesso mettiamo in contrapposizione il dono personale ricevuto da Dio all’utilità comune. Certamente il singolo carisma è importante, grazie ai doni dello Spirito Santo ciascuno di noi diventa nella propria epoca memoria vivente di Cristo, alter Christus, secondo le proprie capacità e i carismi ricevuti. Le membra sono tutte necessarie nel corpo ecclesiale. Le originalità dei singoli cristiani sono una ricchezza, pensiamo alla diversità e peculiarità dei santi. Ma per consentire agli uomini di ogni epoca d’incontrare Cristo risorto, che è l’unico vero fondamento della Chiesa, sono indispensabili tutte le membra del suo organismo ecclesiale animate dalla carità che è la «via più sublime» da percorrere, come indicata da san Paolo (cfr. 1 Cor 12,31). Le membra sono indispensabili tutte insieme, come una squadra sportiva che ha bisogno di tutti i suoi elementi e non solo del singolo campione.

Ecco un primo importante insegnamento: il dono serve l’unità, non il contrario e l’unità non si può sacrificare al singolo dono. Nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco afferma: «Il Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa e città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte» (9).

Quindi, la sinfonia è più importante del singolo strumento. Noi spesso possiamo dire e fare le cose giuste senza la logica dell’insieme, senza essere parte di un tutto. Diamo cioè troppa importanza a ciò che facciamo e non consideriamo che è parte del tutto. Non ha senso avere dei doni e non avere l’orientamento dell’unità e dell’insieme. In una parola, forse oggi troppo abusata, la comunione. Agire in comunione tra di noi è la prima pietra per edificare il mondo nuovo.

Il carisma è un dono anche associativo. Sono le qualità della Provvidenza affidate a ciascuna persona o a un gruppo in particolare. San Paolo dice che «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12,7). Ma il vero carisma, il più grande di tutti, è l’amore (Cfr. 1 Cor 13,13). Noi stiamo costruendo il Corpo di Cristo nella storia e per risolvere le nostre emergenze occorre l’amore. Se però io non sono stato amato non sarò capace di amare, se nessuno mi ha usato pazienza io non la potrò conoscere. Se non credo all’amore di Dio per me non sperimenterò ciò che significa vero amore.

Comunione e individualismo

Uno dei più grandi nemici dell’uomo è l’individualismo che minaccia la comunione. Ne parla Gonzague de Reynold in uno dei suoi saggi: «La rivoluzione moderna è, al suo punto di partenza, individualista, al suo punto d’arrivo collettivista e comunista» (10). Possiamo, cioè, avere dei doni ma viverli individualmente e non avere la carità. Ciò che conta veramente non è avere o non avere capacità ma se amiamo davvero. Il nostro avversario è il delirio autonomo, il sogno di essere autosufficienti. Fare le cose per le cose senza entrare veramente in relazione con gli altri. Se siamo noi stessi la fine e l’inizio di ciò che facciamo, senza il fine, siamo perduti. Il fine, lo scopo dell’amore, infatti, è l’altro da me. Occorre passare dal nostro isolamento alla comunione, alla relazione. Essa è necessaria per vivere, perché «Dio è amore» (1 Gv 4,16); senza amore non si può crescere e perfezionarsi. Se ho dei doni meravigliosi ma la carità si spegne nel mio cuore perdo i doni di Dio. L’efficienza senza amore, diventa vuota, inconsistente. È l’esperienza che facciamo, a volte, di aver trascorso una giornata nell’agitazione e nell’efficientismo e avere la sensazione di giungere a sera completamente svuotati. Abbiamo necessità di stare nell’amore perché non si vive senza la prospettiva della carità. Non si può vivere senza relazioni e senza il volto dell’altro. Così è infatti la Trinità, una relazione d’amore.

Esso non è soltanto uno stato di spontaneismo, di sentimento. L’amore è una relazione. L’altro è il fine del mio atto e quindi l’amore non può ridursi al mio stato d’animo che vuole determinare l’azione. L’amore implica il sentimento ma non deve avere la propria fonte nel sentimento. Due genitori stanchi che non dormono di notte da giorni perché il loro bambino piccolo si sveglia non hanno nessuna voglia, nessun sentimento, nessun desiderio di spontaneismo. L’amore coinvolge la volontà di voler amare; ma non è soltanto un atto di volontà, è un atto che implica volontà, sentimento, desiderio, fedeltà, libertà, tutto. La carità è frutto dello Spirito, è un tesoro di cui uno si svuota per arricchire l’altro, è centrata sull’altro. L’amore è un tesoro da dare perché l’abbiamo ricevuto per primi da Dio. Oggi la parola “amore” è sulla bocca di tutti ma il suo vero significato lo può indicare solo la fonte divina da cui proviene. Chi non ha percepito, riconosciuto l’amore di Dio, non può comprenderlo. L’amore parte da Dio e ha relazione con lo Spirito che ci dà la gioia, la pienezza e il riconoscimento della comprensione che noi siamo amati per primi.

L’elogio della carità

Dopo questa premessa sui carismi, sulla comunione che contrasta l’individualismo, e sul concetto e significato dell’amore, entriamo più direttamente nella Prima Lettera ai Corinzi. San Paolo, per estirpare dalla comunità cristiana greca ogni complesso d’inferiorità che produceva scoraggiamento, individualismo e disimpegno ma soprattutto ogni complesso di superiorità che portava alla superbia e al disprezzo degli altri, rammenta con fermezza che la vita nella Chiesa deve essere animata dalla carità. I doni concessi dallo Spirito Santo a ogni cristiano non produrrebbero frutti di salvezza se non fossero alimentati come i tralci della vite dalla linfa, anch’essa spirituale, dell’amore. 

La carità, per san Paolo, non è primariamente l’amore dei cristiani per Cristo o il loro amore per il prossimo. Originariamente è l’amore generoso e incondizionato di Cristo per gli uomini, che diventa la sorgente del loro amore per il prossimo. Infatti, nelle lettere paoline il sostantivo ἀγάπη (agape), e quindi il verbo ἀγαπἀω (agapào), non indica mai l’amore dei cristiani per Cristo. Nel cuore dell’elogio al capitolo 13, Paolo fa una specie di identikit della carità. Ne descrive i pregi con quindici tratti essenziali, sette in positivo e otto in negativo, partendo da ciò che suscita nelle persone in relazione con gli altri.

a. magnanima e benevola

Anzitutto è «magnanima» e «benevola» (1 Cor 13,4). Magnanima (μακροθυμεῖ, macrotiméi) era tradotta con “paziente” nella versione biblica del 1974 ad opera della CEI (Conferenza Episcopale Italiana. L’attuale traduzione, utilizzata nella liturgia, è del 2008). È la grandezza d’animo, lo spazio interiore che va ampliato, dilatato, accresciuto. Avere carità implica il non reagire con velocità e non essere tendenti a prendere la prima reazione che ci sorge da dentro. Il contrario di magnanimo è “pusillanime”, animo piccolo. Non ci si perde nelle cose piccole, si guarda alle cose grandi. La carità è paziente, cioè ha qualcosa di più alto a cuore rispetto alle cose piccole e banali. È centrata sugli scopi nobili della vita. Il termine “magnanimo”, nell’Antico Testamento (AT), è analogo alle parole «lento all’ira» utilizzate per esempio nel Salmo 86,15: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». Dio guarda la salvezza dell’uomo, non perde mai di vista le cose veramente importanti. La grandezza di cui parliamo è lo scopo donato da Dio, è il contrario della presunzione e della pusillanimità. La magnanimità è il non perdersi in cose piccole ma volgersi alla grandezza di Dio. Quindi, il primo attributo dell’amore è la grandezza d’animo, alzare lo sguardo verso ciò che è grande, ciò che davvero conta. 

Il secondo attributo della carità è l’essere benevola (χρηστεύεται, krestéuetai). La parola greca ha la radice nel termine “utile”, “valido”, “adatto”. È distinta da ἀγαθὸς (agathòs), “buono”. L’amore è rendere abile la situazione al bene. Trova il modo di valorizzare tutto, è l’iniziativa di prendere una cosa e condurla alla sua realtà più bella. È imparare l’arte di trarre fuori il bene da ogni cosa, l’arte di crescere in tutto e trovare ciò che è buono: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rom 8,28). Il benevolo trova il modo di far stare bene in tutte le cose. Alcuni non stanno bene da nessuna parte: insoddisfazione, rabbia, infelicità, lamentela. Ci sono dei formatori che non sanno valorizzare gli allievi e sono costantemente insoddisfatti. Educatori che non sanno trarre fuori (educere) il meglio dai ragazzi loro affidati. I santi invece, non si scoraggiano mai, non si fanno smontare dalle difficoltà, trovano il bene in tutte le cose sempre e comunque. Tutto questo non è certamente una capacità umana ma è dono dello Spirito. L’amore valorizza, costruisce sempre, non si scoraggia. Edifica costantemente qualcosa di positivo e anche se così non fosse inizia almeno a costruire una relazione con Cristo. Il benevolo mira al risultato accettando qualunque punto di partenza. Non smette di credere al bene. Non dice mai: «per te è finita». L’onnipotenza di Dio ci dà altre intuizioni e anche se sembra che sia tutto finito Dio sa trarre un bene più grande. Egli è benevolenza, misericordia, provvidenza. Il benevolo ha saputo lasciarsi cambiare, ha scoperto che il proprio punto di vista non è l’unico. Il benevolo è colui che di fronte alla vita è sempre positivo. Di fronte all’errore più grande delle persone il magnanimo dice: c’è molto di più in te di questo tuo errore, e di fronte alle situazioni di crisi che sembrano insormontabili, il benevolo dice che si può trovare il bene su questa strada, è sempre costruttivo e mira a ciò che veramente conta.

b. senza invidia, senza vanità e senza orgoglio

Ci sono anche attributi in negativo della carità: «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Cor 13,4). Anzitutto ζηλοῖ (zeloi, tradotto dalla CEI con «invidia») non è interpretabile con il nostro «zelo». Il senso è l’orientamento verso qualcosa o qualcuno, una spinta che indica un tipo di rapporto rispetto ad un altro, in latino «non aemulator», quindi la carità non emula, non cerca di uguagliare o superare qualcuno, non è invidiosa. Quando ci si orienta verso una persona, nell’ambito delle relazioni, il confronto può diventare pericoloso perché potrebbe avere una piega possessiva che tende a vedere l’altro in funzione di se stessi, quindi può scattare l’invidia, la rivalità, l’emulazione, la voglia che l’altro sia dentro il nostro schema e non sia più di noi. Si diventa competitivi, fino ad odiare le differenze e le grazie altrui. Non si ama il prossimo in quanto se stesso, piuttosto l’altro diventa funzionale al nostro bisogno e al nostro desiderio di primeggiare e prevaricare affinché non ci venga tolta la nostra centralità. L’invidia ha una direzione sbagliata verso la crescita nel bene. Si parte dall’ammirazione dell’altro fino a volerlo possedere, catturare per superarlo, fino alla dinamica di dominio. Dopo l’ammirazione scatta la competizione, quindi sfocia in un’alterità negativa. C’è una tristezza di fronte alla gioia altrui e una gioia di fronte alla tristezza altrui. Non si riesce a trovare gioia nelle cose che facciamo perché non siamo contenti di noi stessi, cerchiamo nell’altro un compimento che diventa una frustrazione di possesso secondo la logica che il nostro prossimo ha sempre più di noi mentre la realtà dice l’opposto. Il prossimo diventa oggetto del nostro desiderio perché non siamo contenti di noi stessi. Si vive così frustrati avendo rabbia contro il nostro prossimo. Tutto questo è incompatibile con l’amore perché la carità valorizza l’altro, non è invidiosa, non fa confronti per diminuire o denigrare il prossimo ma per crescere nel bene ricavando i frutti da tutti gli aspetti in gioco.

La seconda caratteristica in negativo della carità è Περπερεύεται (perperèutai) tradotto con «(non) si vanta». Essa fa riferimento alla vanagloria, alla vanteria, alla ricerca della propria immagine, fare impressione a qualcuno. Ci poniamo di fronte al prossimo sbattendogli in faccia il nostro ego. Il vanitoso prende il vuoto e gli dà corpo. È l’arroganza, per cui ci si attribuisce un dono di Dio. Il bene è fatto per la propria immagine e non per il bene comune. L’uomo, in tal modo, coltiva progressivamente il proprio ego in tutto ciò che fa diventando vanagloria personificata. Ciò che conta, invece, è l’intenzione del cuore con cui noi scegliamo di fare o non fare una determinata cosa. Chi si vanta non si vanta di una cosa brutta ma si vanta del bene, soltanto che questo è collegato al proprio io, alla propria persona, vanificando così lo stesso bene compiuto. Invece, l’amore non si vanta, non ha bisogno del prezzo ma è gratuito. L’amore autentico remunera di suo. Quando uno ha bisogno di una remunerazione significa che pensa a sé stesso e non si è ancora staccato dalla propria immagine.

Infine, la terza caratteristica espressa con φυσιοῦται (fisioùtai), cioè «(non) si gonfia d’orgoglio». La parola orgoglio è aggiunta in traduzione, nell’originale è «non si gonfia». La carità non fa diventare le cose più grandi di quello che sono, non le gonfia, non le ingrandisce, soprattutto non accresce il proprio io. L’amore non si sovradimensiona, non è una esagerata concezione di sé. Dio crea col soffio della sua bocca e l’uomo diventa un essere vivente (cfr. Gen 2,7), mentre in questa circostanza soffia un altro spirito, ben interpretato con il termine arroganza, ad rogare, chiedere qualcosa per sé, pretendere accaparramento ed espansione, esigere “aria” per gonfiarsi (“darsi delle arie”). L’uomo, in tal modo, si attribuisce qualcosa che non gli spetta. San Paolo esprime bene questo concetto: «la conoscenza riempie d’orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Nella versione biblica del 1974 si leggeva: «la scienza gonfia, mentre l’amore edifica». È il vuoto che diventa apparenza, ci si gonfia d’aria e non di Spirito Santo, ci si arroga ciò che è nulla, il vuoto, e si falsifica la realtà.

Abbiamo esaminato, quindi, queste tre caratteristiche: la carità non è invidiosa, cioè non compete, non si confronta con l’altro [«non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rom 12,16)]; non si vanta cioè non cerca la propria immagine [«valutatevi in modo saggio e giusto» (Rom 12,3)]; non si gonfia cioè non aumenta la propria dimensione [«non valutatevi più di quanto conviene» (ibid.)]. C’è qualcosa di inconsistente, di infelice dentro la persona: l’essere ansiosi per la propria grandezza, essere contenti quando si è più di qualcuno, apparire più sapienti degli altri. Tutto questo allontana dal nostro cuore e dal nostro vero io. Essere stimati e diventare grandi. Non: “essere” ma “essere qualcuno”, gonfiati, vanagloriosi, vuoti, inconsistenti, tutta apparenza per essere importanti. In fondo si perde di vista chi si è veramente cioè la verità di noi stessi. È l’ansia di arrivare a possedere qualcosa, l’essere schiavi della superficialità, della epidermide delle cose, delle idealizzazioni, manca però la relazione vera e autentica con l’altro. Il vero sé, invece, si radica nella realtà, sfrutta i ridimensionamenti, accetta i propri limiti. Il vero sé non ha bisogno di essere più dell’altro ma si accontenta di essere piccolo, prende le cose semplici per ciò che sono. Non ha bisogno di essere diverso da quello che è, di avere ciò che non gli spetta. Questa dinamica spirituale può essere tradotta con l’evangelico: «beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei Cieli» (Mt 5,3).

c. non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse

Proseguendo nell’inno di san Paolo, incontriamo altre due peculiarità in negativo: la carità «non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse» (1 Cor 13,5). Anzitutto, la parola ἀσχημονεῖ (askemonéi), collegata con il verbo ἔχω (eko) “avere”: indica le prerogative, gli attributi della realtà, l’insieme di proprietà che costituiscono una persona. L’altro da me è fatto in una ben precisa maniera e chi non ama è colui che non tiene conto delle caratteristiche dell’altro non rispettandolo. Invece, l’amore non manca di rispetto. Esso tiene conto dell’altro e ne considera le prerogative. Purtroppo esistono anche relazioni senza rispetto, infatti non è amore. La mancanza di carità è violenza alle cose: infatti, a volte, in nome dell’amore si fa violenza sull’altro. L’amore accetta anche i dinieghi, non priva l’altro della propria dignità e non lo disonora, non lo disprezza. L’amore non è rude, è una dolce premura, si dona con tenerezza e anche con fermezza ma senza violenza. Esso non agisce impropriamente. Come l’amore di Gesù, che ci ha amato peccatori per il nostro bene concreto e non ci ha amato imponendo le sue categorie ma secondo le nostre necessità.

Una seconda caratteristica è che la carità «non cerca il proprio interesse». Nel testo originale la parola “interesse” non è presente. Il testo recita: non cerca il suo. Significa che la carità non cerca il proprio scopo con una strategia ben precisa per giungervi. Sembra qualcosa di generoso, di oblativo ma è la ricerca di un vantaggio per sé. In fondo è l’arte di manipolare, di chi cerca obiettivi autoreferenziali. È amare ma avendo a cuore il proprio vantaggio, un farsi tornare i conti. Nella spiritualità orientale potrebbe tradursi con ϕιλαυτία (philautìa), l’amor proprio. Pur facendo servizi, ministeri di carità, organizzazioni di gesti caritativi, alla fine il proprio ego deve essere foraggiato. C’è un sano rispetto per sé stessi ma succede che l’eccessivo amor proprio prenda il sopravvento. Esso va per gradi: il grado del piacere, cioè stare nelle cose per la gradevolezza, per appagamento, per la passione verso il corpo, un amor proprio che ha bisogno di essere soddisfatto. Il secondo grado è quello della propria volontà, un modo di occuparsi dell’altro ma senza rinunciare al proprio progetto, al proprio volere, ai propri desideri. Il terzo grado è la giustizia, cioè il tipo di amore che cerca sé stesso con più raffinatezza: viene fatta la carità ma per cercare il senso della propria giustizia, per apparire retti, moralmente ineccepibili, per sentirsi giusti e a posto con la coscienza. 

Manca in questi vari passaggi l’abnegazione, il distacco dal proprio ego. Chi è schiavo del proprio ego è incatenato a un risultato che sia il piacere, sia un progetto o sia la sua immagine morale ed etica è qualcuno che non può volare verso l’alto perché è legato ad una catena e deve avere un proprio tornaconto. In fondo, se vogliamo tradurre con una parola, la più adatta è solitudine. L’egocentrico è una persona sola, autoreferenziale. L’amore, il distacco da sé stessi, ti rende libero e autentico in tutte le relazioni che sono aperte e gioiose (11).

La carità è l’unica realtà che non viene mai meno, cioè non cade nel nulla [questo è il significato del verbo πίπτει (pìptei) in 1 Cor 13,8]. La carità sarà con noi risorti e trasfigurati in corpi spirituali, e tornerà alla sua fonte divina. Purificata da ogni scoria dal fuoco dell’amore divino, la carità rimarrà per sempre con Cristo in Dio. Se questo è il destino glorioso dell’amore umano è chiaro perché fin d’ora è la virtù più grande (cfr. 1 Cor 13,13). Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni di grazia, profuma fin d’ora d’eternità soltanto nella misura in cui è impregnata di carità. 

Benedetto XVI: punti fermi e motivi di speranza

L’inno alla carità non termina con le caratteristiche enunciate ma introduce altre prerogative dell’amore che non trattiamo in questa sede («non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,5-7). Vorrei però declinare le parole dell’Apostolo delle Genti e ricondurle per noi al momento storico che stiamo vivendo di fine di un mondo e di nascita di un mondo nuovo che è già in atto e che noi forse non vedremo nel suo sorgere e nel suo sviluppo (12).

In un recente testo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, vi sono affermazioni che possono essere prese come manifesto del “mondo che nasce”, parole semplici, senza grandi proclami programmatici ma che toccano il cuore e la mente, e ci offrono una prospettiva di apostolato su cui impegnarci (13).

Il Papa emerito afferma che i sistemi atei e materialistici dei due secoli precedenti al nostro hanno lasciato una catastrofe non tanto di natura economica ma che essa consiste nell’inaridimento delle anime e nella distruzione della coscienza morale. I sistemi comunisti e ideologici, terza tappa della Rivoluzione nel pensiero cattolico controrivoluzionario, sono naufragati soprattutto per il loro disprezzo dei diritti umani, per la subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro: «La problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle certezze primordiali dell’uomo su Dio, su sé stessi e sull’universo – la dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea» (14). Papa Benedetto si chiede dunque: a che punto siamo oggi? e delinea, dopo la dissoluzione della Cristianità e dell’Occidente che si è auto demolito, alcuni criteri valoriali con cui ripartire e rifondare il mondo che nasce:

– anzitutto afferma l’incondizionatezza con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico rinvia ultimamente al Creatore, solo Lui può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e sono intangibili (15).

– un secondo criterio è il matrimonio e la famiglia: l’Europa non sarebbe più tale se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata: «Se da una parte il loro (uomo e donna) stare assieme si distacca sempre più da forme giuridiche, se dall’altra l’unione omosessuale viene vista sempre più come dello stesso rango del matrimonio, siamo allora davanti ad una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi» (16). Persiste, anche attraverso queste attestazioni, un odio di sé dell’Occidente che è misterioso e che si può considerare solo come qualcosa di patologico (17).

L’Europa, dunque, per sopravvivere ha bisogno di una nuova accettazione di sé. In pratica, non ama più sé stessa. Il mondo che muore, e probabilmente è già morto, implica che un nuovo mondo debba nascere. La dinamica per il cristiano è sempre di morte e resurrezione. Per qualcosa che muore non c’è mai la fine di tutto ma la possibilità di un nuovo inizio. È la stessa dinamica della croce: sembra la fine di ogni cosa, il Messia appare sconfitto nel combattimento contro le forze del male e invece è l’inizio della nuova creazione in Cristo risorto. Questo nuovo mondo lo possiamo agognare anche attraverso i motivi di fiducia e di speranza indicati dallo stesso Papa emerito: «Il primo motivo di speranza consiste nel fatto che il desiderio di Dio, la ricerca di Dio è profondamente scritta in ogni anima umana e non può scomparire. Certamente, per un certo tempo, si può dimenticare Dio, accantonarlo, occuparsi di altre cose, ma Dio non scompare mai […]. È la speranza che l’uomo sempre di nuovo, anche oggi, si ponga in cammino verso questo Dio» (18).

Il secondo motivo di speranza consiste nel fatto che «il Vangelo di Gesù Cristo, la fede in Cristo è semplicemente vera. E la verità non invecchia. Anch’essa si può dimenticare per un certo tempo, si possono trovare altre cose, la si può accantonare, ma la verità come tale non scompare. Le ideologie hanno un tempo contato. Sembrano forti, irresistibili, ma dopo un certo periodo si consumano, non hanno più forza in loro, perché manca loro una verità profonda […]. Invece il Vangelo è vero, e perciò non si consuma mai […] sono convinto che ci sia anche una nuova primavera del cristianesimo» (19).

Un terzo motivo di speranza, il Papa lo riscontra nei giovani. Il vuoto, l’inquietudine che lavora dentro di loro, li conduce a cogliere l’insufficienza di senso e l’inconsistenza delle proposte mondane: «I giovani hanno visto tante cose – le offerte delle ideologie e del consumismo –, ma colgono il vuoto in tutto questo, la sua insufficienza. L’uomo è creato per l’infinito […]. Quindi, mi sembra che l’antropologia come tale ci indichi che ci saranno sempre nuovi risvegli del cristianesimo e i fatti lo confermano con una parola: fondamento profondo. È il cristianesimo. È vero, e la verità ha sempre un futuro» (20).

Conclusione

La verità della fede cristiana va continuamente desiderata e diffusa perché rimane il fondamento reale e intrinseco della vita di ogni uomo, anche se lontano da Dio. La verità di Cristo è inseparabile dal suo amore (21). Questo amore è il fondamento dell’azione di evangelizzazione nel mondo, opera che avrà un ruolo decisivo per l’edificazione della Cristianità futura. Per questo, il mondo che nasce, sarà un mondo bello, a misura d’uomo e secondo il piano di Dio, perché la promessa della Madonna a Fatima è nel tempo del suo compimento: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà» (22).

 

 

Note:

1) Cfr.: Ignazio Cantoni, Fra un mondo che muore e un mondo che nasce, in Cristianità, anno XLIX, n. 408, marzo-aprile 2021, pp. 57-73 (63). Cantoni, richiama un’immagine dello scrittore svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) che descrive i processi di ascesa e declino della civiltà in una determinata epoca storica: «Utilizzerò un’immagine per rendere concreto quanto vi è di astratto, e animare quanto vi è di schematico in questa descrizione. Confronterò lo sviluppo per epoche e periodi vuoti della storia europea con una catena di montagne, una catena intervallata da depressioni brusche e profonde. Ogni segmento di questa cordigliera si inserisce tra due di queste depressioni. Risale lentamente da una per cadere rapidamente nell’altra. Una vetta la domina, abbagliante come un ghiacciaio al sole. Rappresenta l’apogeo di un’epoca e della sua civiltà; ma vi è poco spazio sulla vetta, e non vi si può rimanere a lungo»: Gonzague de Reynold, L’Europa impossibile e necessaria, in Id., La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad.it. presentazione e cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 257-258.
2) Cfr. Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it. a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.

3) Francesco, Omelia della Santa Messa nella solennità dell’Epifania del Signore, del 6-1-2022.

4) Gonzague de Reynold, Dove siamo; il mondo che muore, il mondo che nasce, in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 173.

5) Ibid., p. 172.

6) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, nn. 137-147, in ID., Gli scritti, a cura dei gesuiti della Provincia d’Italia, Edizioni AdP, Roma 2007, pp. 238-242.

7) Sulle apparizioni della Madonna a Medjugorje cfr. il mio: Medjugorje, il «fenomeno» mariano contemporaneo, in Cristianità, anno XLVI, n. 394, novembre-dicembre 2018, pp. 49-58; vedi anche la recensione a: Dossier Medjugorje, con introduzione e commento di Saverio Gaeta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2020, pp. 174, in Cristianità, anno XLVIII, n. 402, marzo-aprile 2020, pp. 67-72.

8) Sono debitore, per questa parte dell’articolo, ad un sacerdote della Diocesi di Roma e alla sua catechesi sull’Inno alla carità nella Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo Apostolo, cfr.: Don Fabio Rosini, L’amore senza fine, reperibile nel sito web: https://www.youtube.com/watch?v=XxbWwchw5tc, visitato il 28-2-2022.

9) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 237.

10) Gonzague de Reynold, L’Europa tragica. «Fra il mondo che muore e il mondo che nasce», in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 236.

11) Per un confronto fruttuoso con tutti questi temi è molto utile il lavoro di: Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, AdP, Roma 2008.

12) Occorre precisare che in altre zone del mondo, aldilà dell’Occidente, la Cristianità è viva: pensiamo alle chiese giovani dell’Africa o anche ad alcune parti dell’Asia.

13) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, Introduzione di Sua Santità Papa Francesco, Cantagalli, Siena 2021.

14) Ibid., pp. 230-231.

15) Ibid., p. 231.

16) Ibid., p. 233.

17) Cfr. Papa Francesco, Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, del 10-1-2022: «Non di rado il baricentro d’interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive […] con l’esito di agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali dell’umanità e le radici culturali che costituiscono l’identità di molti popoli. Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche. In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi». Cfr.: eugenio Capozzi, L’autodistruzione dell’Occidente. Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo, Historica / Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2021.

18) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 257.

19) Ibid., pp. 257-258. Nel mondo, infatti, il cristianesimo è in crescita: alla fine del 2019, secondo l’Annuario Pontificio 2021, la popolazione cattolica era 1.345.000.000 di persone, circa il 18% della popolazione mondiale, con 16.000.000 di cattolici in più rispetto al 2017, cfr.: Tiziana Campisi, Crescono nel mondo i cattolici: sono 1 miliardo e 345 milioni, reperibile nel sito web: https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2021-03/aumentano-cattolici-statistiche-chiesa-annuario-pontificio.html, visitato il 5-3-2022. D’altro canto, il Rapporto sulla libertà religiosa 2021 dell’associazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, segnala numerose discriminazioni e persecuzioni religiose in diverse parti del mondo, in particolare tra i cristiani, cfr.: Aiuto alla Chiesa che soffre, Rapporto sulla libertà religiosa 2021, reperibile nel sito web: https://acs-italia.org/rapportolr, visitato il 5-3-2022.

20) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 258.

21) Cfr. Benedetto XVI, Lettera Enciclica «Caritas in Veritate» sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n.9: «L’amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà».

22) Antonio Augusto Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fatima, in Cristianità anno IV, nn. 17-18, maggio-agosto 1976, pp. 15-25; cfr. anche: Congregazione per la Dottrina della Fede, Il messaggio di Fatima, reperibile nel sito web: https://alleanzacattolica.org/il-messaggio-di-fatima/, visitato il 5-3-2022.

 

 

Il Natale secondo sant’Ignazio

Di Filippo Rizzi

da Avvenire del 30/12/2021

Contemplare il mistero del Natale ponendo il proprio sguardo verso Betlemme e immaginando quasi noi stessi di fronte alla mangiatoia per metterci così al servizio e in “colloquio interiore” con Maria, Giuseppe e il Bambino Gesù. È l’immagine suggestiva con cui Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali (paragrafi 111-117) esorta a riscoprire il senso della Natività. Si tratta di un invito, quello del santo basco, volto a sperimentare in un’autentica «composizione di luogo» la stessa meraviglia provata dai pastori di fronte alla visione della capanna dove nacque Gesù più di duemila anni fa.

Recentemente su questo argomento si è soffermato sulla rivista della Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica il gesuita Enrico Cattaneo, che ha affrontato il tema: Il Natale con Ignazio di Loyola, lettore della “Vita Christi”. Il saggio del religioso ignaziano, già docente di patrologia alla Pontificia Facoltà dell’Italia Meridionale (sezione San Luigi) di Napoli e al Pontificio Istituto Orientale di Roma, è stato pensato anche alla luce di un importante giubileo: i 500 anni dalla conversione di Ignazio dopo la ferita a Pamplona, avvenuta il 20 maggio 1521. L’Anno Ignaziano apertosi il 20 maggio scorso a Pamplona si chiuderà il 31 luglio prossimo a Roma, nella memoria liturgica dedicata al fondatore dei gesuiti.

Cuore delle riflessione di padre Cattaneo non sono solo le fonti ignaziane sul Natale ma anche l’opera Vita Christi del grande scrittore ascetico il domenicano e poi certosino Ludolfo di Sassonia (1295-1377). «Molto di quello che Ignazio sperimentò negli Esercizi e nei suoi colloqui interiori con il Signore – dice ad Avvenire lo studioso – trova il suo debito negli scritti di Ludolfo». E annota: «Nella sua Autobiografia, Ignazio stesso spiega come sia arrivato a leggere i tre grossi volumi della Vita Christi di Ludolfo di Sassonia. Costretto a letto per una frattura alla gamba, si annoiava a stare senza far niente. Allora chiese dei libri da leggere, possibilmente libri di avventure cavalleresche (Ignazio era ancora un uomo di mondo), ma nella casa di suo fratello c’erano solo dei libri religiosi, una Vita di Cristo e delle Vite di santi. Egli li lesse più per ammazzare il tempo che per vero interesse, ma proprio da quella lettura venne la sua conversione». Un invito dunque quello suggerito dai due grandi scrittori ascetici Ignazio e Ludolfo a entrare nel mistero della Natività quasi con gli occhi di un bambino che scruta la “magia del presepe”. «La Vita Christi di Ludolfo di Sassonia è una specie di “Summa” di vita cristiana a partire dai Vangeli. In effetti gli Esercizi hanno come traccia i Vangeli, dalla Natività alla Risurrezione. Da Ludolfo Iñigo impara soprattutto quella che viene chiamata la “composizione di luogo”, cioè immaginare la scena che sto meditando – in questo caso viene da pensare al nostro Natale – in tutti i particolari, in modo da farmi partecipe dell’avvenimento». Padre Cattaneo accenna a un altro aspetto: l’intimo significato del Natale che disvela già dentro di sé il mistero del «patibolo della Croce». Ma non solo che l’annuncio della nascita del Figlio dell’uomo è stato indirizzato prima di tutto ai poveri e ai semplici. «Ludolfo e di riflesso Ignazio vedono nella nascita di Gesù il Signore dei Signori, il Re dei re, i segni dell’umiltà di Dio, perché i pastori non avessero timore di accostarsi a Lui. Questo vale per tutti, anche per noi. È quanto continua a ripeterci papa Francesco con il suo magistero: non abbiate timore di avvicinarvi al Signore, che non vi caccerà via, perché è venuto a salvarvi. Basti pensare al canto degli angeli: “Gloria a Dio e pace gli uomini”. Forse dobbiamo anzitutto fare pace con Dio, che abbiamo messo sotto accusa in questo difficile momento anche a causa del Covid-19».

Contemplare il Natale con occhi diversi attraverso il “colloquio interiore”

Un altro suggerimento che arriva da questi testi è imparare a contemplare il Natale con occhi diversi. «Ludolfo, per esempio, esorta idealmente a entrare nella mangiatoia, a mettersi ai piedi del Bambino e a “pregare la Madonna che te lo porga e che ti permetta di prenderlo in braccio e baciarlo con rispetto…”». Un’altra esortazione infine, dopo la contemplazione, è quella di imparare a pregare. «Sant’Ignazio ha preso certamente da qui il suggerimento di terminare ogni Esercizio con un “colloquio”, ora con la Madonna, perché interceda presso il Figlio suo, ora con il Signore, stesso, perché interceda presso il Padre. Lo chiama “colloquio” perché deve essere “come un amico che parla con un amico”, “ora chiedendo qualche grazia, ora chiedendo perdono, ora comunicando le proprie cose e chiedendo consigli su di esse”. E per il Natale, la richiesta è quella “che rinasca in me la santità di una vita nuova”».