Venerdì 16 febbraio 2024

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno» (Matteo 9,14-15).
In questo brano emerge che il digiuno cristiano ha significato come segno di una mancanza e quindi di un desiderio. Il bisogno di fare digiuno è il segno della mancanza dello Sposo, come accadde ai discepoli quando Gesù fu arrestato e ucciso sulla croce: il digiuno cristiano è innanzitutto memoria di questo. Certo, dopo la Risurrezione egli ha detto loro «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Ma egli è presente e assente al contempo. Si cela perché ama essere cercato con tutte le forze. Abbiamo la compagnia del Signore nella sua Parola e nell’Eucaristia che è la sua presenza reale; abbiamo lo Spirito Santo. Tutte queste realtà sono sufficientemente forti da farci stare uniti al Signore e al tempo stesso possono essere abbastanza deboli da permetterci di sentirci lontani o di rimanere lontani da lui. La felicità umana perfetta sarà vedere il Signore faccia a faccia, ma finché viviamo su questa terra lo percepiamo soltanto in maniera velata. Il digiuno allora è distaccarsi dalle cose per ricordare e desiderare il Signore più intensamente. Questo forse è il significato profondo di tale pratica: il digiuno come preghiera. Esso mira a produrre nella persona un vuoto che l’aiuti a percepire la nostalgia del Signore e la disponga a lasciarsi riempire da lui. Un altro aspetto è il digiuno come carità verso il prossimo: il sapersi privare di qualcosa di nostro per essere concretamente solidali con chi è nel bisogno. Infatti, come sappiamo, il Signore si è identificato con i poveri (cf. Mt 25,31-46). Il terzo aspetto è quello del digiuno come penitenza, cioè come memoria della morte del Signore per i nostri peccati e come volontaria presa di distanza dal peccato attraverso la temporanea rinuncia a un bene essenziale qual è il cibo. Il peccato in effetti ci separa dal Signore, ci toglie lo Sposo. Se spesso sentiamo il Signore tanto lontano, nonostante egli abbia promesso di essere sempre con noi, è perché forse ci siamo allontanati da lui. Se è vero che la felicità perfetta non esiste su questa terra, però è anche vero che il peccato esaspera la nostra infelicità. In fondo il peccato è la ricerca disperata della felicità là dove non la si può trovare. Rinunciare temporaneamente alla gioia del cibo, che è un bene fondamentale, ci aiuta a considerare la fondamentale ambiguità di ogni bene materiale e a ricordare che solo nel Signore possiamo trovare la felicità vera e definitiva: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; cf. Dt 8,3).

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