L’unica Chiesa di Cristo… sussiste nella Chiesa cattolica (Lumen gentium 8)

di Don Pietro Cantoni

Il 22 dicembre 2005 Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso alla Curia Romana, ha messo in guardia in modo lucido e chiaro contro l’“ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che interpreta il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) come una sorta di rifondazione della Chiesa Cattolica (1). A un anno e mezzo di distanza dalla storica allocuzione, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblica un importante documento di chiarificazione sulla retta interpretazione del Concilio in alcuni punti cardine del suo insegnamento, datato 29 giugno 2007: Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus, Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa (2).

Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato certamente un concilio ecclesiologico. In un certo senso può essere anche concepito come una continuazione del Concilio Ecumenico Vaticano I (1869-1870) che, interrotto dall’invasione dello Stato Pontificio da parte delle truppe del Regno d’Italia, non poté portare a termine il progetto iniziale di riflessione su tutta quanta la dottrina della Chiesa, fermandosi alla definizione del primato pontificio e dell’infallibilità del Magistero del Papa. Anche se l’ecclesiologia non è l’unico tema, certamente la Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”, del 21 novembre 1964, ha — fra i sedici documenti costitutivi del corpus del Concilio Ecumenico Vaticano II — una posizione del tutto centrale. La risposta al quesito Ecclesia, quid dicis de te ipsa?, “Chiesa, che cosa dici di te stessa”, costituisce il principio architettonico dell’insegnamento conciliare. In particolare risulta fondamentale per cogliere nel loro senso proprio e corretto temi come quello dell’ecumenismo e quello del dialogo interreligioso. A esso — anche se in modo meno diretto — è collegato anche l’insegnamento della Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis humanæ”, del 7 dicembre 1965.

Il primo quesito, “Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha forse cambiato la precedente dottrina sulla Chiesa ?” (3), intende dissipare un dubbio che ha pervaso — e “avvelenato” — tutto il tempo postconciliare. Quante volte si è parlato di “nuova ecclesiologia” conciliare in modo ambiguo! Che cosa s’intende per “nuova”? Le accezioni fondamentali possono essere due: “rinnovata” o “diversa”. Nelle discussioni che hanno preceduto e fatto seguito al Motu Proprio “Summorum Pontificum” di Papa Benedetto XVI sulla forma straordinaria del Rito Romano (4), si è spesso insistito su questo concetto: la Messa antica, “preconciliare”, è espressione della vecchia ecclesiologia a cui il Concilio Ecumenico Vaticano II ha inteso mettere fine. La celebrazione di questa Messa è dunque da evitare perché il suo significato va ben al di là di un puro fatto liturgico, ma — mettendo in discussione il concetto “nuovo” di Chiesa — mette in discussione il Concilio stesso. La risposta al quesito è assolutamente formale e chiara: “Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina, ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente” (5). L’ambiguità è sciolta: “nuova ecclesiologia” non significa “tutt’altra ecclesiologia”, ma “ecclesiologia sviluppata”. Ora uno sviluppo presuppone che quanto è sviluppato sia già contenuto in nuce nella forma precedente. Il concetto precedente di Chiesa conserva dunque tutto il suo valore.

È bene insistere, anche se brevemente, su questi concetti — che pure dovrebbero essere di loro già abbastanza chiari — perché sul punto continuano ad aleggiare sospetti e incomprensioni. Di solito quando s’insiste sulla continuità dell’insegnamento conciliare, si è accusati di “fissismo”, “conservatorismo” e — soprattutto — di tradimento del grande rinnovamento portato dall’assise ecumenica. Se si riflette non si fatica invece a comprendere che è vero semplicemente il contrario. Non si dà autentico rinnovamento se quanto è nuovo non riguarda lo stesso e identico soggetto. Perché, se il soggetto è sostanzialmente cambiato, allora quello precedente è morto e — se qualcosa tuttavia rimane — non è propriamente qualcosa di nuovo, ma un “altro” soggetto che si è sostituito a quello precedente. Anche in questo caso constatiamo come la ragione serva alla fede.

Il luogo dove la permanenza — o la sostanziale mutazione e sostituzione — del soggetto Chiesa si esprime con la maggiore chiarezza è il famoso passaggio di Lumen gentium 8, che ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e può forse costituire il modello archetipo della “gigantomachia” attorno all’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II: “La santa Chiesa […] è stata voluta da Cristo unico mediatore come un organismo visibile sulla terra: egli lo sostenta incessantemente […].

“È questa l’unica Chiesa di Cristo che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, e che il nostro Salvatore ha dato da pascere a Pietro dopo la risurrezione (cf. Gv 21, 17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cf. Mt 28, 18ss); egli l’ha eretta per sempre come colonna e fondamento della verità (cf. 1 Tm 3, 15). Questa Chiesa, costituita e organizzata in questo mondo come società, sussiste nella [subsistit in] Chiesa Cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi che sono in comunione con lui, anche se numerosi elementi di santificazione e di verità si trovino anche fuori della sua compagine: elementi che, come doni propri della Chiesa di Cristo, sospingono verso l’unità cattolica” (6).

L’”ermeneutica della rottura”, che ha accomunato diverse correnti di pensiero — comunemente dette “progressiste”, “tradizionaliste” o “integriste”, senza soverchia precisione, né preoccupazione di precisione — ha interpretato l’espressione “sussiste nella” come se la Chiesa — l’unica Chiesa di Cristo — godesse nel mondo di diverse sussistenze, fra le quali dovesse essere annoverata anche la Chiesa Cattolica. Naturalmente le diverse correnti da questa unitaria interpretazione hanno tratto conclusioni svariate e anche opposte, ma senza nulla togliere al valore dell’interpretazione e al metodo a essa sotteso. Questa interpretazione è contraddetta già da un’attenta e serena lettura del testo in quanto tale. Vi si parla infatti di unica Chiesa di Cristo che, se fosse sussistente in compagini ecclesiali diverse e contraddittorie nella loro autocomprensione, unica non sarebbe più. Vi si parla non di una Chiesa invisibile e a-storica, ma di una comunità che Cristo “diede da pascere a Pietro”, la quale — come tale — non può “sussistere” che nella Chiesa Cattolica, in cui unicamente sussiste il primato petrino. Se poi si consultano gli Acta synodalia (7), che racchiudono i testi degli atti ufficiali che hanno accompagnato e motivato il consenso del Padri sinodali sui testi definitivi, ogni ragionevole dubbio dev’essere fugato. Ora anche i dubbi ormai irragionevoli trovano nei responsa della Congregazione una autorevole sanzione.

Perché subsistit in anziché il più ovvio e chiaro “è”? Perché questa espressione, che […] non cambia la dottrina sulla Chiesa” (8), “esprime più chiaramente come al di fuori della sua compagine si trovino “numerosi elementi di santificazione e di verità”, “che in quanto doni propri della Chiesa di Cristo spingono all’unità cattolica”” (9). E in ciò sta il vero e autentico principio cattolico dell’ecumenismo e anche — fatte le debite differenze — del dialogo interreligioso: la consapevolezza che — oltre all’appartenenza piena, che rimane quella a cui tendere con tutte le forze e le energie dell’evangelizzazione — si danno altre forme di ordinazione all’unica Chiesa di Cristo. Un ateo, un aderente a una religione non cristiana, un ebreo, un cristiano ortodosso e un cristiano evangelico non intrattengono con “l’unica Chiesa di Cristo” una identica relazione, ma si ordinano a essa con modalità non solo diverse, ma qualitativamente, cioè essenzialmente diverse. Si pensi solo alla differenza sostanziale — ontologica — che vi è fra un battezzato e un non battezzato. Posto l’ovvio principio che è la buona fede e non la mala fede a dover essere presunta, soprattutto quando si ha a che fare con soggetti che sono nati in una determinata tradizione religiosa, o irreligiosa.

L’unità della Chiesa non può essere concepita come il risultato da raggiungere al termine di uno sforzo di ricomposizione, come si può cercare di ricostruire un vaso rotto raccogliendo e facendo combaciare di nuovo i pezzi. Se così fosse, vano sarebbe parlare di “una, santa, cattolica e apostolica”. Se ne potrebbe parlare solo come di un ideale futuro e non come di una realtà ormai presente e percepibile nella storia, anche se ferita, combattuta e limitata nell’uso dei mezzi di salvezza di cui Dio l’ha dotata. Vana allora sarebbe la Chiesa e vana — di conseguenza — l’incarnazione del Verbo. Questo sforzo poi apparirebbe inevitabilmente come troppo umano e quindi irrimediabilmente viziato dalla presunzione dell’uomo. Il vero ecumenismo può essere solamente frutto di una conversione e coincidente nella sua intima essenza con la conversione che è, nella sua radice, dono di Dio.

Se poi l’unica Chiesa di Cristo non sussistesse nella storia appunto come “unica”, non si potrebbe neppure parlare in senso vero e proprio di “concilio ecumenico”. Esso andrebbe concepito solo — molto genericamente — come “concilio generale”. Il progetto di edizione critica degli atti dei concili a cura di Giuseppe Alberigo (1926-2007) si muove infatti — coerentemente con i presupposti — in questa direzione (10). E allora l’autorità del Concilio Ecumenico Vaticano II sarebbe veramente minata in radice.


Note

(1) Cfr. Benedetto XVI, Discorso ai Cardinali, agli Arcivescovi, ai Vescovi e ai Prelati della Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, del 22-12-2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, I, pp. 1018-1032; l’espressione si trova a p. 1024.
(2) Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Responsa ad quaestiones de aliquibus sententiis ad doctrinam de Ecclesia pertinentibus, Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa, del 29-6-2007, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 11-7-2007.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. Benedetto XVI, Litterae Apostolicae “Motu Proprio datae” “Summorum Pontificum”, del 7-7-2007, ibid., Città del Vaticano 8-7-2007; cfr. il mio Il “Motu Proprio” “Summorum Pontificum” di Papa Benedetto XVI e l’ermeneutica della continuità, in questo stesso numero di Cristianità, pp. 3-7.
(5) Congregazione per la Dottrina della Fede, doc. cit.
(6) Concilio Ecumenico Vaticano II.
(7) Cfr. Acta Synodalia Sacrosanti Concilii Oecumenici Vaticani II, 25 voll., Città del Vaticano 1970-1978.
(8) Congregazione per la Dottrina della Fede, doc. cit.
(9) Ibidem.
(10) Cfr. Conciliorum Œcumenicorum Generaliumque Decreta, vol. I, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna-Brepols, Turnhout 2006; cfr. in proposito L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 3-6-2007; monsignor Walter Brandmüller, Quando un concilio è davvero ecumenico?, ibid., 13-7-2007, e in Avvenire,17-7-2007; si vedano anche le opportune e ben fondate critiche alla cosiddetta “scuola di Bologna”, in monsignor Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005.

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