Lineamenti essenziali di demonologia

di Don Pietro Cantoni

 

1. La negazione del demonio e della sua azione nella teologia contemporanea


Partiamo dalla data che, almeno nella Chiesa cattolica, ha rappresentato il punto di partenza emblematico della crisi. La data è il 1969 con la pubblicazione di un libretto da parte di un esegeta veterotestamentarista tedesco, Herbert Haag, intitolato Abschied vom Teufel, cioè «Commiato dal diavolo», tradotto subito l’anno successivo in italiano dalle edizioni Queriniana di Brescia. Un dettaglio significativo: alla traduzione italiana è stato aggiunto un punto interrogativo nel titolo, per cui diventa «Liquidazione del diavolo?», anche se nella versione tedesca originale questo punto interrogativo non c’è.

La tesi di Haag è semplice: il demonio non esiste, è soltanto un simbolo, il simbolo della malvagità nel mondo. Quali gli argomenti? Si riassumono tutti in questa frase: «Tutto quanto si afferma su Satana nel Nuovo Testamento non appartiene al messaggio vincolante della Rivelazione, ma solo a quell’immagine del mondo caratteristica degli scrittori biblici ossia della mentalità della loro epoca»[1]. Questa concezione non è più compatibile con l’immagine che oggi ci facciamo del mondo e perciò non possiamo più accettarla. Questa credenza in un mondo di spiriti intermediari fra Dio e l’uomo – angeli e demoni, spiriti buoni e spiriti cattivi – fa parte di quella  concezione del mondo che noi oggi, alla luce del progresso scientifico e tecnico, non siamo più autorizzati ad ammettere.

Per «concezione del mondo» qui si intende in modo indifferenziato non soltanto un certo modo di interpretare scientificamente i fenomeni della natura, ma anche un determinato modo di concepire Dio, l’al di là e i suoi rapporti con l’al di qua. Questa concezione del mondo era condivisa da tutti a quell’epoca e Haag non ha difficoltà ad ammettere che era condivisa anche da Gesù e da tutti i personaggi del Nuovo Testamento. Ci rendiamo conto, già da questo punto di vista, come l’impostazione sia molto debole, perché, in fondo, essa fa assurgere il modo con cui l’uomo interpreta scientificamente il mondo, con tutta la sua intrinseca incertezza e mutevolezza, a criterio ultimo di giudizio per l’interpretazione dei contenuti della fede. Le idee dell’uomo cambiano spesso… Oggi per es. assistiamo a una netta inversione di tendenza, per cui, con gli stessi criteri dovremmo prepararci ad ammettere nella teologia le cose più favolose e incredibili.

Il personaggio più significativo, ed il primo – per quanto abbia potuto indagare io – che ha ragionato così è David Friedrich Strauß (1808-1874), noto soprattutto per i suoi studi sul Vangelo e sulla vita di Gesù, il quale afferma: «mediante la concezione copernicana è stato tolto il luogo in cui l’antichità giudaica e cristiana pensava posto il trono di Dio»[2], per cui, tolto il trono, bisogna togliere anche la corte, e non abbiamo più motivo di credere ad angeli e demoni. Una cosa va però sottolineata: questa posizione non è mai stata una posizione di maggioranza anche nell’ambito della teologia protestante liberale. La posizione più frequente è quella che si trova incarnata in un altro teologo importante, Friedrich Schleiermacher (1768-1834): una posizione agnostica o di disinteresse. Gli angeli (e i demóni) si possono lasciare alla pietà popolare, ma il teologo che si rispetti non li deve prendere in considerazione. Karl Barth (1886-1968) critica questa impostazione chiamandola «l’angelologia dell’alzata di spalle»[3]. Che ci possano essere angeli non è ragionevole negarlo, perché è una possibilità che certo non possiamo mettere in discussione, però il teologo se ne deve disinteressare, perché è un argomento indegno della sua considerazione; d’altra parte che ci siano gli angeli o che non ci siano, non cambia assolutamente nulla della vita cristiana, per cui lasciamo pure che la gente ci creda, lasciamo che l’angelologia e la demonologia siano ancora presunti, per esempio, nella liturgia e nella preghiera dei cristiani, però il teologo deve guardarsi bene dall’occuparsi di queste cose. Questa è una linea che ha avuto un certo seguito. Diciamo pure che ha influenzato parecchio anche la teologia cattolica. Molto spesso infatti più che una aperta negazione, si è diffusa una impostazione di questo genere: un’atteggiamento che si riassume plasticamente nell’espressione usata da Barth: gli angeli? una «spalluccia»… Se  proprio dobbiamo parlarne, sbrighiamo la cosa alla svelta così passiamo a cose più serie.

Soffermiamoci un momento sulla teologia cattolica. Qui una presa di posizione di Karl Rahner ha influenzato pesantemente negli anni passati più ancora che il contenuto della demonologia l’affettato disinteresse che l’ha colpita. «Non c’è alcun motivo, oggi, – scrive Rahner -, per collocare la dottrina del d. [demonio], compresa nell’annuncio, al primo piano della ‘gerarchia delle verità’, come in parte avvenne in tempi passati (ancora in Lutero, per esempio). Non perché non esista una enunciazione di fede, di valore permanente, sul d., ma perché quello che essa dice per il concreto compimento dell’esistenza cristiana, può essere detto, nel suo contenuto determinante, anche senza una tale dottrina esplicita sul d., o, quanto meno, l’accesso a questa dottrina è relativamente difficile per l’uomo d’oggi. Il discorso riguardante il d. non si trova infatti nelle grandi professioni di fede».[4]

Qui si può e – a mio avviso – si deve contestare che il messaggio di Cristo possa essere esistenzialmente trasmesso senza un riferimento all’opera del diavolo nella storia della salvezza e nella vita concreta del singolo. Se è vero che la verità sul demónio e gli angeli malvagi non si trova al vertice della gerarchia delle verità, non si può neppure affermare che si trovi in fondo… Certamente il demónio non c’è né nel credo apostolico né in quello niceno costantinopolitano. Lo troviamo però nel Padre Nostro. È infatti quanto meno assai probabile che la domanda rysai hemas apò tou ponerou debba essere correttamente tradotta liberaci dal Maligno[5]. È comunque presente con assoluta certezza nella professione di fede del concilio Lateranense IV, come vedremo più avanti.

Per tornare ad Haag: non possiamo leggere la Scrittura partendo da questo presupposto così fragile: la mentalità o la visione del mondo dell’uomo moderno, non è certamente questo il modo corretto di impostare il discorso. Qual’è il criterio determinante per fare discernimento, per  distinguere nella Scrittura quello che è soltanto un dato culturale, secondario e caduco, e quello che è invece l’elemento determinante dal punto di vista della fede? Non può essere che l’insegnamento della Chiesa, il suo magistero. Il Magistero si è pronunciato in molti modi, tra l’altro proprio a proposito del libro di Haag. Nel ’72 Paolo VI ha parlato dell’esistenza del demonio come essere personale, della sua azione, del suo influsso. È uscito anche nel 1975 un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, intitolato Fede cristiana e demonologia, dove viene affrontato in modo teologico, dottrinale, il tema della demonologia[6].

Riguardo all’esistenza degli angeli e dei demoni  il testo magisteriale più importante è costituito certamente dal capitolo Firmiter della professione di fede del Concilio Lateranense IV (1215 – papa Innocenzo III): «Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio. […] Con la sua forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uno e l’altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre, e poi l’uomo, quasi partecipe dell’uno e dell’altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo, infatti, e gli altri demoni da Dio sono stati creati buoni, ma da se stessi si sono trasformati in  malvagi. L’uomo poi ha peccato per suggestione del demonio» (DS 800).

Di questo testo conciliare così chiaro è stata messa in dubbio la portata di definizione dogmatica. L’argomento è più o meno questo: tutte le volte che la Chiesa definisce una verità, dobbiamo vedere quale è la sua intenzione e quale è l’errore che la Chiesa vuole scartare. Ora noi sappiamo che il Concilio Lateranense IV aveva in mente l’errore del manicheismo. Secondo il manicheismo il mondo è la creazione di un dio cattivo, per cui il male viene ad avere una sua consistenza ontologica. Ora qui la Chiesa  ha voluto dire solo che questo non è vero, che la creazione cioè è buona, ma non ha inteso affermare che Dio ha creato degli angeli e che alcuni di essi sono poi diventati cattivi.

Va però osservato che non tutti i testi del Magistero sono testi condannatori e l’obiezione da noi esposta ha senso solo a proposito di questo genere di testi. Per capire la portata di una condanna dobbiamo partire infatti da quell’errore che costituisce il suo oggetto ed evincere da lì e solo da lì la portata effettiva di quello che la Chiesa voleva dire.

Qui, invece, il genere è diverso, ci troviamo davanti ad una professione di fede, in cui la Chiesa semplicemente fa professione di quello che crede; davanti ad una professione di fede, tutto quello che viene esplicitamente detto fa parte del patrimonio di fede della Chiesa.[7] In più c’è anche un legame profondo tra le cose: non è un caso che questa affermazione della Chiesa salti fuori in corrispondenza dell’errore manicheo.

Facciamo qualche passo indietro.

Il problema del male accompagna l’uomo da che esiste. Ogni riflessione religiosa o filosofica è sempre in fondo stimolata da questo problema: da dove viene il male?

Anche nel racconto (o nei racconti) della creazione che apre il libro del Genesi l’interesse principale è quello di dare una risposta a questo quesito. Il testo ci dice che in principio Dio ha creato il cielo e la terra, poi descrive tutte le varie realtà che Dio ha creato e quasi a mo’ di ritornello ripete: «E Dio vide che ciò era buono». Se contate tutte le volte che questo è detto, vedete che corrisponde al numero sette, perché la Scrittura usa un linguaggio anche simbolico: il numero sette è un numero di perfezione, per sette volte viene detto «ciò è buono».

Poi dopo – solo dopo – si parla del peccato. Nel capitolo terzo fa capolino il male, ma il male fa capolino nel modo e sotto la forma di deviazione della libertà di uno spirito finito. Anche dalla forma letteraria di questi racconti, noi vediamo che l’autore sacro è quasi in polemica nei confronti di altre visioni dell’uomo che circolavano nell’ambiente, visioni in cui il problema del male veniva risolto in fondo in questo modo: nella natura delle cose c’è il bene e c’è il male. Il male fa parte integrante della natura delle cose. Le cosmologie dei popoli circostanti Israele interpretavano l’origine del mondo e del cosmo come una composizione fra elementi diversi tra cui c’è anche un elemento cattivo. Perché c’è il male? Perché fra le varie nature che ci sono, fra le varie cose che ci sono, c’è anche il male, quindi il male c’è strutturalmente. Il manicheismo non farà altro che portare alle estreme conseguenze questo concetto. Questo tipo di spiegazione prenderà altre forme, affermando come addirittura succede nella speculazione della Cabala ebraica, che il male è una qualità di Dio, o come avviene nell’idealismo di Hegel, che il negativo entra dentro la costituzione dell’assoluto, che l’assoluto ha bisogno del negativo per essere quello che è. Allora il male diventa qualche cosa di costitutivo nella natura delle cose e addirittura nella natura stessa di Dio.

No! sembra dire il testo sacro. Il male non è nella natura delle cose, ma è entrato nel mondo solo con un atto di libertà. Con il peccato dei progenitori. Il male non è né in Dio né nelle cose, ma il male è saltato fuori perché Dio ha creato degli esseri liberi, i quali hanno usato male questa loro libertà. Non solo, la Scrittura subito ci fa notare una cosa: cioè che l’uomo non è stato l’inventore del male, lo ha fatto con tutta la sua responsabilità, ma in qualche modo lo ha trovato, perché qualcuno glielo ha suggerito, e qui abbiamo quel personaggio misterioso che è il serpente, di cui non si dice inizialmente chi veramente sia.

Nell’Antico Testamento infatti del demonio si parla molto poco.

Abbiamo pochi passi in cui si parla di lui. In fondo questo serpente, viene interpretato come tale nell’Antico Testamento soltanto nel tardivo libro della Sapienza, dove si dice che la morte è entrata nel mondo a causa dell’invidia del diavolo (cfr. Sap 2,24), quindi si interpreta l’evento che ha per protagonista il serpente, come operato dal diavolo, si dice appunto che il serpente è il diavolo. L’identificazione viene ultimamente determinata dall’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse: «[…] il serpente antico, colui che è chiamato diavolo […]» (Ap 12,9).

Nel libro di Giobbe si dice che il demonio è uno degli angeli che sono presenti alla corte di Dio e da tutto il racconto si evince che il demonio fa comunque e sempre solo quello che Dio gli permette di fare.

Ecco che quadro nasce da questa spiegazione biblica: il male non è una cosa, non è una virtù, ma è strutturalmenteprivazione. Dire che il male è privazione non vuol dire che non sia niente. Dire che il male non esiste può sembrare una ingiusta banalizzazione del male e il male non va mai banalizzato; però si può dire che il male è sempre una mancanza di perfezione, il male è carenza di ciò che si dovrebbe avere e fare secondo la propria natura e la causa ultima del male si radica nell’uso cattivo, deviato di una libertà.

La Scrittura ci dice anche che non tutto il male che c’è è fatto dall’uomo, anzi, originariamente l’uomo ha sì fatto il male, ma lo ha fatto per una suggestione che veniva da lontano. Se noi leggiamo attentamente il racconto del Genesi, ci rendiamo conto che non autorizza nessuna deresponsabilizzazione, perché non dice che, dato che Adamo ed Eva sono stati tentati dal diavolo non erano responsabili… Si dice solo che la suggestione era molto forte e che c’è stata e c’è ancora una presenza del male che in qualche modo precede l’attività dell’uomo. Il male, potremmo dire, ha una sua dimensione metastorica che è appunto questa presenza degli spiriti cattivi che sono diventati tali per una deviazione della loro volontà. La cosa è allusa, per così dire, nella Scrittura sia per quello che riguarda la creazione degli angeli, sia per quello che riguarda la loro caduta. Nella Scrittura non abbiamo delle affermazioni così aperte o perlomeno così importanti come quelle riguardanti la creazione del mondo e dell’uomo, però troviamo delle allusioni che sono sufficientemente chiare. Nella prima lettera di san Giovanni si dice che «il diavolo è peccatore dal principio [ἀπ᾽ἀρχῆς]» (1Gv 3,8). Nella seconda lettera di san Pietro (2 Pt 2,4), nella lettera di san Giuda (Gd 6), troviamo dei passi abbastanza espliciti per quello che riguarda la caduta, mentre san Paolo, parlando di principati e potenze, dice che sono creature (Rm 8,38).

Che succede quando si nega l’esistenza del demonio dicendo che è il simbolo del male? Si finisce fatalmente per fare di questo male un qualcosa che ha una sua consistenza, cioè per ricadere nel manicheismo, proprio in quelle concezioni che la parola di Dio voleva confutare rivelando l’esistenza di spiriti celesti decaduti. Questo esito fatale lo troviamo per esempio in quei teologi che affermano che i demóni sono «strutture mentali». Che cosa significa? O che il male ha una sua consistenza oggettiva, oppure che il demonio è una inclinazione cattiva che è nel cuore dell’uomo. Una teoria molto antica che troviamo anche nel Talmud. Ma il problema è solo spostato: se nel cuore dell’uomo c’è, fin dalla nascita, una inclinazione cattiva allora questa inclinazione viene da Dio.

Molti di questi teologi affermano che «Gesù come tutti gli uomini del suo tempo condivideva la concezione dell’esistenza di demoni, angeli, ecc.». È una affermazione profondamente inesatta, perché anche al tempo di Gesù c’erano già delle correnti che negavano l’esistenza del diavolo e degli angeli: i Sadducei infatti negavano l’esistenza degli angeli (cfr. At 23,8). È invece chiaro dai Vangeli che il Signore molto spesso contraddice apertamente le convinzioni diffuse nel suo tempo, mostrando la sua piena indipendenza.

La ricerca più avveduta ha riscontrato che l’Apocalittica più che un “genere letterario” costituisce piuttosto una corrente teologica. L’essenziale dell’apocalittica non sarebbe quindi da ricercarsi in una questione di metodo, ma a livello di contenuti. Ora il contenuto centrale della teologia apocalittica è proprio il problema del male, dove il demonio non rappresenta più una cifra simbolica, ma proprio la sostanza della soluzione: il male non è un “qualcosa”, ma è in radice il frutto dell’uso sbagliato della libertà, quindi ha un fondamento personale. La lotta contro il male è dunque sì drammatica, ma, avendo per oggetto non incoercibili leggi della natura, ma potenze personali, può essere vinta e le foze del male depotenziate. Ecco tutta l’ambiguità e il paradosso dell’apocalittica: messaggio insieme di estrema drammaticità e di sfolgorante speranza.

«La figura del diavolo nei suoi molteplici aspetti non è frutto della fantasia […]. Il diavolo non rappresenta affatto il trionfo dell’estetica sulla logica, ma condensa su di sé esigenze razionalissime del pensiero umano di fronte al problema del male. Il diavolo è quella x che risolve una complessa equazione di non so quale grado, dove si tiene conto di molteplici fattori non facilmente fra loro conciliabili, quali l’esistenza di un Dio giusto, della libertà dell’uomo che si fa tale davanti ad una scelta fra bene e male, nella quale uno dei due termini, la Luce, viene fatto risalire a Dio, mentre l’altro, la Tenebra è impossibile riportarcelo, almeno direttamente. Nella figura del diavolo c’è anche l’intuizione del male come forza organizzata, in quanto ha uno scopo di distruzione che non colpisce soltanto questo o quello, ma è rivolta contro tutto e contro tutti e quindi non può essere opera di un semplice spirito maligno. Il diavolo è una forza che l’uomo avverte al tempo stesso come a lui esterna ed a lui interiore. Il diavolo del giudaismo non “è quella parte del tutto chiamata Tenebra” di Goethe, né la morte che va al suo posto come gli antichi miti cananaici; il diavolo spiega che il male c’è ed è sempre, per così dire, fuori posto, perché è quella forza che si oppone all’ordine e non si può, in nessun modo, farlo rientrare in nessuna rassicurante struttura dell’essere»[8]

Perché questa attenzione alla negazione dell’esistenza del demonio? Perché sono convinto che ha portato molta confusione. Ha distolto infatti la teologia e la catechesi da una riflessione attenta sul tema, favorendo così una situazione di vuoto. Ma il pensiero dell’uomo, come la natura, fugge il vuoto, così che lo spazio lasciato libero si è riempito in modo disordinato. Si è trascurato di coltivare un angolo del giardino, non ci si deve meravigliare che si sia riempito di erbacce…

 

2. Il problema della possessione diabolica e dell’azione demoniaca in generale

 

Riguardo all’azione che le forze demoniache esercitano nella vita dell’uomo dobbiamo stare attenti ad una polarizzazione eccessiva, esagerata, sul tema della possessione. Il peccato angelico ha avuto un influsso non solo sul mondo “umano”, ma su tutto il creato nel suo insieme. Tutto giace nelle doglie del parto a causa del peccato. La morte non faceva parte del primitivo piano di Dio e quindi neppure la malattia. Il disordine portato dal peccato è la causa delle malattie. Ciò non significa che ogni malattia sia causata dal peccato personale di chi ne è affetto: la Scrittura ci invita piuttosto a pensare il contrario. Rimane però vero che c’è un collegamento tra malattia e peccato. La vittoria sul peccato tuttavia non determina per ciò stesso la scomparsa della malattia che rimane come mezzo di espiazione e purificazione e anche come mezzo di elevazione. Con l’accettazione, nella fede e nell’amore, della sofferenza che la malattia comporta l’uomo può anzi partecipare alla redenzione di Cristo. È nel contesto della teologia della malattia che dobbiamo innanzitutto collocare la problematica della possessione.

In quest’ottica si deve dire che l’azione dei demóni è di duplice natura: indiretta e diretta[9]. L’azione indiretta è quella che si manifesta nella debolezza della carne che sfocia così spesso in malattia e ultimamente nella morte. Così come il disordine del cuore umano porta con sé un disordine della sua vita associata, il sorgere di strutture di peccato e ultimamente di quell’ambiente permeato dal peccato e che spinge ad esso che è il “mondo”. In questo senso il demonio è il “principe di questo mondo”. Accanto però a quest’azione indiretta c’è un’azione diretta degli spiriti malvagi che si manifesta soprattutto come “tentazione”, cioè come suggestione del male. L’azione è finalizzata a modificare l’orientamento della volontà dell’uomo, portandola a dis-orientarsi da Dio. Quest’opera di dis-orientamento, se ha il suo fulcro nel fondo dell’anima e nel “cuore” dell’uomo come centro delle sue decisioni personali e libere, si attua partendo – per così dire – dalla periferia, cioè dalle facoltà di cui l’uomo si serve per pensare e decidere, soprattutto la fantasia. L’azione del maligno non può essere diretta sulla libertà, ma è “diplomatica”, cioè avviene attraverso mediazioni che sono quelle delle potenze corporee di cui si serve l’uomo per attuare la sua moralità (è tutto l’ambito morale fondamentale degli atti imperati e delle passioni). La “possessione” quindi (in senso lato) va vista come un tentativo messo in atto da entità personali spirituali malvagie per prendere possesso dell’uomo in tutte le sue componenti al fine di assoggettarlo e spingerlo contro Dio. In questo si manifesta l’odio verso Dio che non potendo estrinsecarsi anche qui in forma diretta, si esprime attraverso il danneggiamento del creato e soprattutto del capolavoro del creato che è l’uomo[10]. Questo sforzo di assoggettamento può giungere in qualche caso fino a rendere tecnicamente “folle” l’uomo. Cioè fino al punto di fargli perdere il controllo delle sue facoltà compiendo atti di cui non è più responsabile, atti che hanno di norma una valenza autodistruttiva o aggressiva, sia verbale che fisica nei confronti di Dio, delle cose sacre e delle persone. Anche qui con un crescendo di intensità che di norma si esprime con due termini distinti: ossessionepossessione.

Per valutare bene questo discorso è importante rifarsi ad una antropologia corretta, cioè che non indulga – in modo più o meno consapevole – a precomprensioni di stampo cartesiano e meccanicistico. Occorre cioè avere ben chiaro che l’uomo è corpore et anima unus. Se è importante distinguere ciò che rileva della sfera dell’anime e del corpo, tutto però deve avvenire senza compromettere in nulla l’unità sostanziale del composto. Ogni distinzione deve ciò operarsi nell’unito. Non solo: è importante recuperare la visione biblica e tradizionale dell’uomo a tre dimensioni, cioè somaticapsichica epneumatica (cfr. 1Ts 5,23). Non si tratta affatto di ipotizzare tre componenti dell’uomo, ma modalità diverse di esprimersi della componente immateriale. L’anima, che è il principio vitale, non esprime tutta la sua capacità vitale nel dinamismo vegetativo e animale del corpo (dimensione psichica), ma dispone di operazioni che trascendono la materia – pur essendo ad essa sempre strettamente legata (dimensione pneumatica).

Sempre in una prospettiva di teologia della malattia si può allora elaborare questa classificazione eziologica: le malattie hanno una dimensione somatica e psichica (la malattia spirituale in senso vero e proprio è il peccato, che si annida nella volontà della persona). La malattia psichica, che è quella che qui ci interessa direttamente, può avere una causa somatica, demoniaca o spirituale. Può cioè ricollegarsi in modo più o meno evidente alla dimensione corporea, quindi materiale, dell’uomo; può essere invece frutto di un diretto intervento demoniaco; oppure ricollegarsi a una o più malvagie passioni umane (soprattutto la philautía, cioè lo smodato amore di sé, in particolare del proprio corpo[11]). Tutte queste considerazioni che meriterebbero certamente uno sviluppo più ampio, possono servire qui ad introdurci al difficile tema della diagnosi degli interventi malefici. Dovrebbe essere ormai chiaro che la questione è complessa e che una diagnosi corretta deve rifarsi ad una eziologia differenziata. Per esempio è evidente che l’azione malefica non esclude di per sé che il soggetto sia malato, anche psichicamente, per altra causa. Così come appare evidente che l’azione malefica sul soggetto induce di necessità un disordine nelle sue facoltà, quindi una malattia, la quale di norma presenta sintomi che possono essere letti anche solo in chiave somatica. Questo naturalmente se non immaginiamo l’uomo come non è, cioè la somma giustapposta di anima e corpo. Il fatto che un disturbo sia di origine endogena od esogena non modifica ordinariamente più di quel tanto il suo immediato proporsi fenomenico.

In che cosa consiste dunque la possessione?

Si intende per possessione una aggressione da parte di forze demoniache di un soggetto umano per cui questo si trova limitato o del tutto inibito nel disporre delle sue proprie funzioni psichiche.

Questa è la possessione in senso stretto, cioè la possessione accompagnata da follia, perché la possessione senza particolari e veri e propri disturbi psichici è un fatto più ampio che può essere considerato coestensivo con tutta l’azione dei demóni quando si manifesta in interiore homine.

«È spesso difficile dire perché questo tipo di possessione accompagnato da follia sovente agitata tocca certi individui piuttosto che altri, così come è difficile spiegare per quale ragione la malattia, a parità di condizioni, tocca quel tale piuttosto che il tal altro. Il diavolo sceglie di manifestarsi in questa forma in certi individui per delle ragioni che non sono sempre chiare. Non si potrebbe sempre invocare uno stato peccaminoso più grande in colui che è vittima, perché altri sono risparmiati da questa forma di possessione quando il loro stato spirituale sembra pur tuttavia equivalente. Se a volte l’intervento demoniaco fa seguito a un peccato personale, questo ne è piuttosto – propriamente parlando – l’occasione che la causa. Ciò che determina la scelta particolare dei demóni appare tuttavia nel caso in cui l’uomo si è volontariamente e coscientemente abbandonato al potere di Satana (qui il prototipo è Giuda), nel caso ugualmente in cui la possessione e la follia che ne risulta sono stati indotti da pratiche di stregoneria e magia, come nel caso infine in cui si può vedere nella possessione/follia una prova permessa da Dio per permettere una purificazione e un progresso spirituale che, in certuni, non avrebbe potuto effettuarsi in altro modo»[12].

Il ministero dell’esorcismo era inizialmente qualcosa di molto diffuso nella comunità cristiana e il cui esercizio era abbastanza libero. Ben presto si è arrivati a determinare la funzione specifica dell’esorcistato e poi, successivamente il ministero è stato circoscritto ai presbiteri. In seguito si è stabilito (Benedetto XIV, 1 ottobre 1745) che il sacerdote può amministrare l’esorcismo solo se ha licenza da parte del suo vescovo, e questa è la norma che si è andata consolidando nella Chiesa cattolica.

Così il Codice di Diritto Canonico del 1917 diceva che nessuno poteva esorcizzare senza espressa licenza del vescovo, e la stessa cosa è stata ribadita nel codice del 1983.

Fino al 1998 era in vigore un rituale dell’esorcismo risalente al 1614. Esso è tuttora utilizzato ancora da molti esorcisti. La Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti ne concede l’uso ai vescovi che ne fanno richiesta per i loro esorcisti. Riporta una serie di regole iniziali sul modo di amministrare questo sacramentale e contiene anche delle norme di discernimento. Vi si dice prima di tutto che il sacerdote non deve credere facilmente che qualcuno sia posseduto dal demonio: «In primis, ne facile credat, aliquem a daemonio esse obsessum»[13]. Nel 1991 è stato concesso alla CEI e distribuito ai vescovi e ai sacerdoti da loro incaricati un Rito degli esorcismi ad interim in lingua italiana. Finalmente nel 1998 è arrivato il nuovo rito nell’edizione tipica latina con il titolo De exorcismis et supplicationibus quibusdam che revisiona e sostituisce il Titulus XII del Rituale romano del 1614. Il rituale aveva già subito alcune modifiche. La più significativa risale  a Pio XII: gli indizi di possessione vengono qualificati come indizi possibili, anziché come indizi sicuri. Evidentemente si trattava di sottolineare la necessità di un discernimento che poggiasse su un quadro diagnostico globale, dove il punto focale era costituito dall’avversione per il sacro. I criteri di discernimento – con questa precisazione – sono transitati senza modifiche nel nuovo rito.

È rimasta intatta la formula «ne facile credat». Se quindi l’esorcista messo davanti ad un caso di presunta possessione avanza delle esigenze di esame più dettagliato, questo non è indizio di incredulità, ma solo di obbedienza alle leggi della Chiesa. Bisogna fare discernimento, cioè non si deve procedere in modo spontaneo, quasi meccanico, a praticare un esorcismo.

L’esorcismo è una preghiera con cui «la Chiesa domanda pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, che una persona o un oggetto sia protetto contro l’influenza del Maligno e sottratto al suo dominio»[14]. L’esorcismo che può compiere solo il presbitero autorizzato dal vescovo è quello sulle persone e riguarda solo i casi di possessione[15]. Dunque sulle cose o sulle persone nei casi di vessazioni che non arrivano alla possessione qualunque sacerdote è competente. È un sacramentale e come tale la sua efficacia dipende dalla fede di chi lo amministra, dalla fede di chi lo riceve e dalla fede delle persone che sono presenti, per cui è chiaro che la presenza di curiosi, di persone che sono lì soltanto per godersi lo spettacolo danneggia la riuscita del sacramentale stesso.

L’elemento decisivo è sempre la fede per cui l’esorcista deve continuamente esortare la persona esorcizzata ad assecondare con la preghiera, con una vita di fede, con il suo impegno, l’azione che viene svolta.

Anche l’esorcista deve impegnarsi personalmente con una vita di preghiera, di fedeltà a Dio, di impegno, questo perché un sacerdote può celebrare validamente una Messa anche essendo – purtroppo – molto lontano da Dio, pur dubitando anche della verità di quello che sta dicendo. La Messa è pur sempre valida. Diverso è il caso del sacramentale. L’efficacia del sacramentale non è sempre garantita, perché chi lo amministra e chi lo riceve non danno tutto quello che potrebbero dare in termini di fede e di preghiera e anche naturalmente perché Dio può avere degli altri progetti…

 

Il tema del maleficio (fattura) è un argomento molto delicato. Anche su questo punto, esistono effettivamente diversità di opinioni nel campo della teologia.

Per esempio, ancora recentemente, un teologo brasiliano di origine tedesca, mons. Boaventura Kloppenburg, vescovo di Novo Hamburgo e membro della Commissione Teologica Internazionale (un organismo della Santa Sede), in un convegno di otto anni fa, a Lione, ha sostenuto che la cosiddetta magia nera è una illusione[16]. Il diavolo non agirebbe su commissione. Il che non vuol dire che il demonio non possa nuocere alle persone, solo che per farlo non si servirebbe di intermediari.

Bisogna però riconoscere che la patristica e la grande maggioranza dei teologi ha sempre ritenuto il maleficio possibile e reale[17].

Recentemente se ne è parlato anche in una nota pastorale della conferenza episcopale toscana intitolata A proposito di magia e demonologia[18]. Che io sappia è il primo documento episcopale che si occupa così distesamene di demonologia, affrontando anche questioni pratiche. In  tema di maleficio ci dice questo: «Alcuni fedeli si domandano: è vera la “fattura”? Ha effetti reali? Il demonio si può servire di persone cattive e quindi di gesti come la “fattura” o il “malocchio” per fare del male a qualcuno? La risposta è certamente difficile per i singoli casi, ma non si può escludere, in pratiche di questo genere, una qualche partecipazione del gesto malefico al mondo demoniaco, e viceversa. Per questa ragione la Chiesa ha sempre fermamente rifiutato e rifiuta il “maleficium” e qualunque azione ad esso affine»[19].

Una cosa è certissima: la persona che fa la fattura – posta le ovvie condizioni della piena avvertenza e del deliberato consenso – commette un peccato grave, gravissimo, perché vuole fare del male, odia e quindi è chiaro che si mette in sintonia con colui che è omicida fin dal principio, e questa sintonia non è solo un fatto psicologico, è qualcosa di più. Mettersi in sintonia vuol dire entrare in una certa sfera di influenza.

Non si può però neanche escludere che ci sia una partecipazione in senso rovesciato, cioè non solo del soggetto alla malvagità del demonio, ma anche del demonio al soggetto che compie l’azione malefica, così che questi partecipa in qualche modo della sua forza e la persona (o la cosa) oggetto del maleficio ne è colpita. Questo naturalmente solo per permissione di Dio e nei limiti di questa permissione.

Il tema è delicatissimo perché mai come in questo campo sono possibili le illusioni e lo scivolamento in forme maniacali di delirio di persecuzione. Al demonio interessa stare nascosto, però uno può occultare la sua vera esistenza sia perché non se ne parla mai, sia perché se ne parla troppo. Anche l’eccessiva e disordinata pubblicità è un modo di occultare la propria natura. Clive S. Lewis, che ci ha regalato una serie di gustosi ma anche profondi libretti sul diavolo, nota con arguzia: «Vi sono due errori, uguali ed opposti, nei quali la nostra razza può cadere nei riguardi dei Diavoli. Uno è di non credere alla loro esistenza. L’altro, di credervi, e di sentire per essi un interesse eccessivo e non sano. I Diavoli sono contenti d’ambedue gli errori e salutano con la stessa gioia il materialista e il mago»[20].

La caccia alle streghe, è un tema che deve far riflettere: noi oggi possiamo dire con certezza che non è vero che è stata la Chiesa a causare la caccia alle streghe, essa c’è stata per altre ragioni. Oggi siamo anche in grado di dire che l’intervento dell’Inquisizione fu un intervento che ha messo molta più moderazione di quanta non ce ne fosse nei tribunali civili[21]. Però – attenzione! –  perché effettivamente c’è stato un periodo storico in cui la gente si è lasciata prendere da una vera e propria mania che un grande demonologo, Egon von Petersdorff non esita a qualificare – nei suoi eccessi – essa stessa come diabolica…[22]

 

3. Criteri diagnostici

 

Come sempre succede la soluzione dei problemi è condizionata dalla loro corretta o scorretta impostazione. La delicata questione della diagnosi della possessione e del disturbo malefico in generale è anch’essa condizionata dalla generale impostazione della problematica. Le pagine che precedono hanno cercato di fornire un quadro di riferimento, certamente bisognoso di sviluppi e integrazioni, ma forse sufficiente all’impostazione del problema. Iniziamo col mettere in chiaro come il problema non va impostato. Dire che la ammissione di una diretta influenza demoniaca è condizionata dall’esclusione di ogni sia pur lontanamente plausibile spiegazione naturale porta di suo ad eliminare di fatto ogni possibile diagnosi in questo senso. Gli esorcisti che partono da questo presupposto sono molto spesso degli esorcisti “credenti” ma “non praticanti”. Il passo alla miscredenza è solo questione di tempo. Ma c’è anche l’ipotesi – tutt’altro che remota – di un passaggio alla credulità indiscriminata, perché così – sempre in concreto – molto spesso va l’uomo… Questo punto di partenza è viziato da un falsa precomprensione dei rapporti tra teologia e scienza e a monte tra soprannaturale e naturale. Il teologo non è condannato ad occupare gli spazi che gli sono concessi, bontà loro, dagli altri inquilini dell’edificio del sapere[23]. Di questo passo il dormire sotto i ponti è un destino ineludibile… In realtà si tratta di occupare tutto e di imparare a coabitare nel rispetto reciproco. Fuor di metafora: l’interpretazione teologica non procede a compartimenti stagni, perché tutto l’essere è suo oggetto proprio. La teologia si occupa di Dio e di ogni cosa in quanto ha (e di principio sempre lo ha) riferimento a Dio. Se si occupa dell’uomo se ne occupa in ogni sua dimensione. Lo stesso fanno le scienze umane, in cui rientrano anche la psicologia e la psichiatria. La differenza di oggetto formale non è riconducibile ad una differenza di oggetto materiale, appunto. Nella concreta prassi dell’interpretazione però occorre tenere nella dovuta considerazione i risultati scientificamente motivati che procedono da altri approcci, confrontarsi con essi nel rispetto del metodo scientifico che li ha generati e del metodo teologico proprio nella certezza che verità non può contraddire a verità. Il lavoro dell’interpretazione è sempre necessariamente olistico e tanto più convincente quanto più sa rispondere alle critiche che procedono da altri modelli, sa criticare modelli alternativi e sa integrare modelli complementari.

In quest’ottica è importante prendere in esame qualche critica di tipo “genealogico” che metterebbe in forse – se accolta – tutto l’impianto della nostra interpretazione. L’accettazione dell’ipotesi demonologica sarebbe dovuta soltanto al fatto che in una fase arretrata del progresso della scienza medica – della psichiatria in particolare – le malattie in generale e quelle psichiche in particolare erano sempre solo ricondotte a fenomeni di possessione o maleficio o comunque all’azione di spiriti malvagi. Questa impostazione in quanto legata ad una visione del mondo caduca e ormai superata deve essere decisamente abbandonata.

Qui bisogna rispondere che questa critica riposa su presupposti storici falsi. Come l’interpretazione della credenza di Gesù nell’esistenza degli spiriti malvagi come partecipazione ad una unanimemente condivisa visione del mondo degli uomini del suo tempo. Noi sappiamo infatti che questa visione condivisa non esisteva. I sadducei non credevano all’esistenza di spiriti buoni o cattivi che fossero. Anche la concezione dell’istinto malvagio (yetser ha-ra’), della sua natura e della sua origine (impersonale o personale esterna) all’interno della tradizione rabbinica, quindi farisaica, non è affatto univoca.[24] Così noi constatiamo che i racconti evangelici di esorcismo ci mettono davanti ad ogni pié sospinto a testimonianze di diagnosi differenziata. Malattie e possessioni non sono percepiti affatto come fungibili.

In primo luogo possessioni e malattie o infermità sono nettamente distinte in numerosi passi: «La sua fama si sparse per tutta la Siria e così condussero a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guariva» (Mt 4,24). «Venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati» (Mt 8,16). «Chiamati a sé i dodici discepoli, diede loro il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità. […] Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni» (10,1.8).[25]

Inoltre, la maggior parte delle malattie o infermità citate a proposito di miracoli compiuti da Cristo non appaiono affatto legate ad una possessione.[26]

In terzo luogo, in alcuni casi, la stessa persona risulta affetta simultaneamente da una possessione e da una malattia senza che la seconda sia legata alla prima. Abbiamo già visto per es. Mt 8,16, dove Gesù procede a due operazioni successive: l’una di esorcismo (scacciò gli spiriti), l’altra di guarigione (guarì tutti i malati). La prima però sarebbe bastata se la malattia si fosse identificata con la possessione o fosse stata causata da essa.

Non dobbiamo neppure pensare che – come spesso si dice – i cristiani antichi non sapessero distinguere tra malattia e possessione. «Si pensa spesso al giorno d’oggi che l’attribuzione di una causa demoniaca a certe forme di follia è dovuta al fatto che la medicina dell’epoca non sarebbe stata in grado di dare ad essa delle spiegazioni naturali. Questo vuol dire ignorare che la medicina contemporanea agli scritti patristici a cui facciamo riferimento vedevano le cose nella stessa prospettiva naturalista della psichiatria attuale e non lasciava, esattamente come questa, alcuno spazio nelle sue descrizioni alla demonologia».[27] Il celebre trattato ippocratico intitolato Del male sacro, attacca tutti quelli che vogliono attribuire l’epilessia e, in termini generali, qualunque malattia mentale, a un potere divino o demoniaco.[28]

Certo le diagnosi mediche del tempo di Gesù non sono le stesse di oggi, ma ciò non muta l’impostazione del problema. La diagnosi demonologica poi è di natura ultimamente carismatica[29]. Ciò che importa rilevare è che all’interno del progresso della scienza medica e – in una certa misura – anche della diagnostica teologica della possessione – rimane chiaro che i due fenomeni non coincidono.

Si può poi avanzare un “genealogia della genealogia”, cioè interpretare la negazione come espressione della volontà di potenza del razionalismo, del suo “delirio di interpretazione”, tale da non ammettere ambiti che possano trascendere il potere esplicante della ragione naturale, soprattutto quando questi ambiti si aprono su orizzonti inquietanti, che mettono paura. Qui molto spesso l’ironia assume i tratti di una specie di “esorcismo laico”. Ciò fra l’altro è autocontraddittorio perché contraddice l’agnosticismo che – normalmente – accompagna l’impostazione scientistica. Oggi i progressi dell’epistemologia generale e di quella psichiatrica in particolare concludono ragionevolmente a risultati ben più umili e aperti.

La crisi e gli sviluppi dell’epistemologia contemporanea, in particolare il frantumarsi del modello positivista, hanno avuto un inevitabile ricaduta in psichiatria: «Da parte di vari ricercatori si parla di crisi della ragione. Mentre affiora un insieme di ragioni, si fa strada la consapevolezza dell’impossibilità di ridurle alla Ragione di classica memoria illuminista. Si incrina: – il dogma della riduzione del complesso al semplice, – il postulato del poter descrivere ogni fatto noto di natura sotto la relativa legge, – la nozione di oggettività fondata sulla elaborazione sommativa dei dati osservati. La coscienza scientifica si propone sempre meno di pervenire a parametri totalizzanti in quanto si infrange nella crisi della Ragione e nel riaffiorare dell’indiscussa validità di paradigmi locali»[30].

Scilligo, a proposito della diagnosi di possessione, non teme di evocare la possibilità della coesistenza di interpretazioni diverse: «Di fronte a questi fenomeni lo scienziato mantiene una mente aperta e come minimo sospende il giudizio e spera in una risposta futura che avalli la sua convinzione di ridurre tutto a processi fisici. Lo scienziato può anche rischiare di più e abbassare il suo pregiudizio e pensare ad esempio che anche in questo campo potrebbe valere il concetto di complementarietà del fisico Bohr […]. Potremmo trovarci di fronte ad un fenomeno che per certi versi è spiegato bene dalla teoria delle scissioni e proiezioni e per certi versi dalla teoria delle possessioni spiritiche. I fatti concreti osservati potrebbero costringere anche lo scienziato ad accettare spiegazioni parallele, tutte e due plausibili, proprio come è accettata la spiegazione di un unico fenomeno, la luce, sulla base di due teorie».[31]

Oggi il famoso Manuale Diagnostico dell’American Psychiatric Association, nella sua IV ed., descrive la possessione in termini molto «neutrali» e  ammonisce che si può parlare di Disorder, cioè porre una diagnosi psichiatrica, solo se non si tratta di stati accettati dalla cultura dell’interessato come una parte normale di una pratica culturale o religiosa (cfr. DSM-IV, pp.486-487.490. 727-728). Questo può essere visto come una generica forma di tolleranza religiosa, ma credo debba essere interpretato soprattutto come prudenza scientifica nell’affrontare un fenomeno di difficile catalogazione.

Il vecchio rituale elencava i criteri di discernimento della possessione demoniaca in questo modo: parlare lingue sconosciute, non soltanto qualche parola, ma intrattenere un dialogo, una conversazione; manifestare fatti o cose nascosti e lontani; sviluppare una forza assolutamente sproporzionata rispetto all’età e alla complessione.

Questi sono i termini usati nel rituale edito da Paolo V nel 1614 e rivisto da Pio XII nel 1952. Nel De exorcismis et supplicationibus quibusdam si aggiunge giustamente un altro criterio che è l’avversione a Dio, a Maria, ai santi e in generale a tutto ciò che dice relazione con l’azione salvifica di Dio. Viene anche accentuata la necessità di un quadro diagnostico globale.

Vale la pena riportare il testo per intero:

«L’esorcista dunque non proceda alla celebrazione dell’esorcismo se non ha accertato, con certezza morale, che l’esorcizzando sia veramente posseduto dal demonio e – se possibile – con il suo consenso.

Secondo la prassi sperimentata, si considerano come segni di possessione diabolica: proferire molte parole in una lingua sconosciuta o capire chi la parla; manifestare cose lontane o occulte; dimostrare forze superiori alla natura dell’età o della condizione. Tali segni possono offrire un qualche indizio. Ma siccome tali segni non sono necessariamente da interpretare come provenienti da parte del diavolo, bisogna fare attenzione ad altri segni, soprattutto di ordine morale e spirituale, che manifestano diversamente l’intervento diabolico, come ad esempio una forte avversione nei confronti di Dio, del santissimo nome di Gesù, della Beata Vergine Maria e dei santi, della Chiesa, della parola di Dio, di cose, riti, soprattutto sacramentali, e immagini sacre. A volte si deve esaminare con molta cura il rapporto di tutti i segni con la fede e il combattimento spirituale nella vita cristiana, perché il Maligno è soprattutto nemico di Dio e di tutto ciò che i fedeli mettono in relazione con l’azione salvifica di Dio».[32]

 

Questi sintomi si presentano – anche presi uno per uno – come fenomeni spiegabili in maniera naturale. La personalità multipla (MPD Multiple Personality Disorder), per esempio, è un fenomeno che gli psichiatri conoscono e ritengono di poter ricondurre a un processo di scissione e proiezione[33]. Bisogna però subito aggiungere che – pur essendo stato accolto nel 1980 nel DSM-III (American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder) – si tratta di un criterio diagnostico molto discusso e contestato[34]. Il sintomo più sicuro – preso a sé stante – sembra essere il parlare lingue sconosciute[35]. Quando si tratta veramente di un discorso, di una conversazione in una lingua che il soggetto per certo non può conoscere, è qualche cosa che dal punto di vista naturale non si può spiegare in nessun modo.

Naturalmente tutte le volte che si parla di sintomi è chiaro che occorre una visione globale della situazione, bisogna cercare di vedere non tanto separatamente le manifestazioni, ma in tutto il contesto in cui si presentano e l’esorcista deve fare un esame dettagliato della persona e della sua situazione prima di procedere all’esorcismo.

C’è da dire però anche un’altra cosa: l’esorcismo solenne «sugli ossessi» non è l’unica forma di intervento nei confronti di disturbi di carattere malefico, così come d’altra parte, la possessione diabolica non è l’unica forma di manifestazione di carattere malefico. Ci possono essere fatti anche di altra natura: si può parlare, per esempio, di ossessione[36] nel senso di un disturbo che non arriva fino alla possessione in senso stretto, ma che si manifesta in vessazioni che toccano più o meno pesantemente la persona, nei confronti delle quali si può procedere con preghiere, con esorcismi in senso lato. Perinfestazione invece si intende in genere il disturbo che riguarda cose e luoghi.

 

L’elemento decisivo è sempre quello indicato nella prima lettera di san Pietro: «Siate temperati, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze di voi» (1Pt 5, 8-9). “In” in ebraico vuol dire sia “in” che “con”; in questo caso potremmo quindi tradurre: «resistetegli saldi con la fede», dove la fede rappresenta l’elemento determinante di qualsiasi lotta contro il demonio.

Prendiamo un altro passo importante che è quello del capitolo sesto della lettera agli Efesini: «Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio» (Ef. 6, 11-17).

Nel vangelo di Luca, il Signore, che ha scacciato il demonio da un indemoniato, ci dà così la spiegazione di quello che è successo: «Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino» (Lc 11, 20-22).

Chi è Gesù? È il più forte, in grado di schiacciare il forte, cioè il demonio. Se dovessi dire quale è l’atteggiamento che il cristiano deve avere nei confronti di questo mondo inquietante e tenebroso, direi che non è quello della paura, ma quello della vigilanza, anzi il cristiano in fondo se ha paura e nella paura si adagia, pecca, perché vuol dire che non crede! Se noi diamo un’occhiata alla storia della salvezza vediamo che a tutti i livelli c’è sempre una tensione, fra un “già” e un “non ancora”. Il Signore ci ha già salvati, però noi abbiamo ancora qualcosa da fare a questo mondo per accogliere questa salvezza. Così possiamo dire che il Signore ha già vinto il demonio e che però il demonio è ancora all’opera. Quindi la vigilanza la dobbiamo sempre avere senza mai perdere la consapevolezza della vittoria che il Signore ha riportato sul demonio. Il demonio in fondo è vinto e noi lo vinciamo nella misura in cui con la fede ci affidiamo interamente a quest’Uomo più forte di lui che è Gesù nostro Signore.

È significativo anche il confronto con altre culture non toccate dal cristianesimo. A volte ne ho trovato conferma in alcuni missionari che sono venuti a contatto con popolazioni in cui c’è un rapporto inquieto, teso, con il mondo degli spiriti, come una paura costante nei confronti di un mondo dal quale si teme sempre un attacco. Il cristianesimo allora porta serenità, perché porta la convinzione profonda che questo mondo è soggiogato, è tenuto lontano, è controllato.

«La cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demoni portata dal cristianesimo»[37]. L’ottimismo che pervade la nostra civiltà occidentale ha questa origine cristiana, ma può anche mantenersi solo conservando i suoi rapporti con il cristianesimo che lo giustifica (l’«uomo forte» non è da temere solo se qualcuno «più forte» di lui lo tiene legato): «se questa luce redentrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua sapienza e tutta la sua tecnologia il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione. Ci sono già segni di questo ritorno di forze oscure, mentre crescono nel mondo secolarizzato i culti satanici»[38].

 

Conclusione


J. R. R. Tolkien ci ha lasciato sul peccato degli angeli uno splendido brano di teologia narrativa. Dio (Ilúvatar) prima di creare il mondo lo fa cantare, in una sublime sinfonia di cui Lui è il direttore, dagli Ainur (gli angeli). Uno di loro, Melkor, tutto preso dalla bellezza del suo canto, tralascia di seguire docilmente la direzione e quindi di subordinarsi all’armonia dell’insieme.  La musica di Ilúvatar è disturbata dalla dissonanza di Melkor, a cui altri si uniscono. Disturbata ma non distrutta, perché Ilúvatar non cessa di promuovere la sua melodia, che si fa sempre più possente e finisce per assorbire anche le note sgraziate del ribelle piegandole a servire, nonostante loro, alla sua grazia ineffabile e invincibile. A un certo punto, con un accordo profondo e penetrante che si ripercuote nell’universo intero, Ilúvatar pone fine alla Musica e alla contesa e dichiara agli Ainur che le cose da loro cantate si realizzeranno e loro le vedranno e anche a Melkor dice «t’avvederai che nessun tema può essere eseguito, che non abbia la sua più remota fonte in me, e che nessuno può alterare la musica a mio dispetto. Perché colui che vi si provi non farà che comprovare di essere mio strumento nell’immaginare cose più meravigliose di quante egli abbia potuto immaginare»[39].

Quando Dio ha creato il mondo, ad ogni “tappa” – luce, terra e mare, vegetazione, sole e luna, pesci e uccelli, animali terrestri, uomo – si è soffermato a guardare la sua opera e ha detto che era buona. Arrivato all’uomo ha detto che era «molto buona» (Gen 1,31). Tutta la creazione infatti parla delle perfezioni di Dio (cfr. Rm 1,20), ma solo l’uomo è «a sua immagine» (Gen 1,27). Se però guardiamo con più attenzione alle opere della creazione, così come sono elencate nel primo racconto della Genesi, vediamo che all’appello ne manca una: il cielo (v. 8). Qui lo sguardo compiaciuto di Dio manca… Eppure non possiamo dubitare che anche il cielo è stato creato da Dio buono. Quando però il Creatore vi getta sopra l’occhio vede qualcosa che non va. Fin da “subito” infatti, in un momento che non appartiene ancora al tempo dell’uomo (che non c’è ancora), a quel tempo che è misurato dal movimento del sole e della luna (che non ci sono ancora), si produce qualcosa di cui il Signore non può essere soddisfatto. I cieli nel linguaggio delle Scritture non sono solo qualcosa di fisico, comprendono anche le “schiere celesti” (cfr. 2,1; Sal 148,1-2; ecc.). La Chiesa, seguendo la logica della Bibbia, ha sempre visto nei cieli della creazione anche la realtà del mondo invisibile, popolata da innumerevoli esseri spirituali. Essa ci fa dire infatti nella professione di fede che recitiamo tutte le domeniche a Messa: Credo in un solo Dio, […], creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili… Qui, in questo mondo, dopo la creazione dell’universo, ma prima ancora che a questo universo Dio desse compiutamente forma, è successo qualcosa di terribile: il primo peccato! «[…] da principio il diavolo è peccatore» (1Gv 3,8). Si è prodotto come un “buco nero” in un mondo pieno di luce, cioè di armonia, di ordine e di senso (la creazione della luce precede quella del cielo…). Alcuni degli esseri spirituali creati buoni da Dio, sono diventati, usando male la loro libertà, cattivi. Si sono ribellati al loro Creatore, hanno posto nel bel mezzo di una meravigliosa sinfonia una orribile “stecca”. Di questo Dio non ha nessuna colpa, perché chi è libero porta lui – e lui solo – la responsabilità di quello che fa. Dio non ne ha colpa («Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna­» 1Gv 1,5), anzi Dio prosegue imperterrito (e misericordioso…) nella sua opera e la porta a termine, nonostante tutto. Il primo peccato, per la natura di chi lo compie, cioè l’angelo, è irrimediabile, è “inferno eterno”. Il nostro lo può solo “diventare”, se non accogliamo nell’umiltà e nella fede il piano misericordioso di Dio. Fuggiamo il peccato! È in sé stesso, nonostante le apparenze, disarmonico, brutto, repellente. È l’unica cosa di cui Dio non può “dire bene”, cioè “benedire”. O meglio, Dio può benedire il peccato già fatto e così facendo lo perdona, cioè lo distrugge come peccato, se noi non lo vogliamo più e quindi proponiamo di non farlo più, ma non può benedire la volontà di peccare. Le stecche rimangono, ma sono ormai travolte dalla sinfonia di Dio, di cui tutte le belle musiche del mondo non sono che pallide immagini. Il prodigioso Direttore le utilizza per rendere ancora più bella la sua musica. E l’inferno? Anche l’inferno rimane, ma, inserito nella sinfonia, diventa espressione della giustizia di Dio, quindi parte integrante dell’armonia del creato e non turba più i buoni, cioè i musicisti obbedienti… Questo però non lo possiamo ancora capire fino in fondo. Lo capiremo quando ascolteremo la sinfonia completa, che Dio, alla fine dei tempi, ci farà ascoltare. Nel frattempo cerchiamo di suonare bene e, se ci capita di sbagliare, affidiamo subito tutto al divino e misericordioso Direttore nel sacramento della confessione.

 

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