La Messa – II parte: Liturgia della Parola

Catechesi liturgiche sulla Messa

II parte – Liturgia della Parola

Filetto, 23 febbraio 2014

 

di Emanuele Borserini

Introduzione

Lo spirito con cui vorremmo introdurci a parlare della liturgia della Parola è quello a cui ci invita San Filippo secondo la meravigliosa descrizione che troviamo nella testimonianza rilasciata da Pompeo Pateri al suo processo di canonizzazione: “il beato padre voleva che li suoi alunni si avvezzassero a tal modo di parlare la parola di Dio che ferissero più li cuori degli uditori che le orecchie”. E la tradizione oratoriana ha proseguito in questo stile perché, come dice il Tarugi, “il dovere del nostro istituto è di parlare al cuore”. E sarà infine sintetizzata dal motto cardinalizio del grande cardinale ora beato John Henry Newman: cor ad cor loquitur. Il Signore parla sempre al nostro cuore ma in modo particolare lo fa nella liturgia. Il nostro desiderio deve essere quello di ascoltarlo al meglio per poi “aiutarlo” a parlare al cuore dei nostri fratelli.

Cos’è la liturgia della Parola della Messa?

Per collocare la liturgia della Parola nel contesto della Messa facciamo una piccola lectio divina sul vangelo dei discepoli di Emmaus che troviamo al capitolo 24 del di Luca dal versetto 13 al 35.

Il racconto inizia proprio di domenica, “quello stesso giorno” è infatti la sera di Pasqua. Ciò che succede somiglia molto alla nostra Messa e da subito siamo invitati a cogliere questo parallelo dal giorno stesso in cui l’episodio è collocato. Se poi osserviamo la narrazione ci rendiamo conto che la sua struttura è divisa in due parti: i versetti 13-29 in cui un uomo spiega le Scritture ai due discepoli e i versetti 30-35 che raccontano di una cena in cui viene spezzato del pane ed essi riconoscono che quell’uomo è Gesù in persona. La terminologia stessa ci fa pensare immediatamente alla struttura della Messa la cui prima parte è dedicata all’ascolto e alla spiegazione della Parola di Dio mentre la seconda allo spezzare del pane, l’Eucarestia. Questa struttura deriva, dal punto di vista storico dalla liturgia ebraica che conosceva due luoghi separati per questi due tipi di celebrazione: la sinagoga in cui i maestri studiavano la Scrittura e la spiegavano agli altri e il grande tempio di Gerusalemme in cui il culto era incentrato sui sacrifici offerti a Dio. In realtà però è la vita stessa di Gesù ad essere strutturata in questo modo: la parte preponderante dei racconti evangelici ci parla di Gesù che predica, parla del Padre e del suo Regno, mostrando come tutti i profeti parlavano di lui; l’ultima parte racconta invece della passione, morte e risurrezione di Gesù. Eppure non si tratta due momenti separati e, come dice l’Imitazione di Cristo, tota vita Christi crux fuit et martyrium (tutta la vita di Cristo fu croce e martirio). Perché tutta la sua vita è un portare la croce e quando questo avviene anche fisicamente non è che la verifica di tutto ciò che egli ha detto è vero.

Ecco che mentre discutono Gesù stesso li avvicina (v. 15): noi pensiamo di andare a Messa per nostra benevola iniziativa e invece è Gesù stesso che ci si fa vicino, è lui che ci cerca sempre. Avviene ciò che abbiamo detto per l’atto penitenziale, il quale non è una semplice introspezione ma la risposta al Padre misericordioso ci aspetta guardando all’orizzonte come quello della parabola. Gesù si è incarnato, è sceso dal seno del Padre ed è venuto sulla terra a cercarci là dove eravamo. E noi come ci andiamo? Raccontano i versetti 16 e 21 che i loro occhi sono impediti a vederlo e addirittura che dicono tra loro “noi speravamo che fosse lui …”. Spesso anche noi ci rechiamo stancamente in chiesa affaticati da una settimana in cui ci sembra di aver visto poco la presenza di Dio: la liturgia della Parola è il momento in cui Gesù ci dice “stolti e lenti di cuore” (v. 25). È come se ci dicesse: ora ve lo spiego io dov’era Dio nella vostra settimana, non l’avete visto perché lui ha i suoi tempi e i suoi modi di mostrarsi, ma c’era. Così, ancora una volta ci fa vedere le grandi opere di Dio nell’Antico Testamento per trovarlo anche nella nostra vita. E Dio non è presente in astratto ma proprio in mezzo a “queste sofferenze” (v. 26). La salvezza che il Signore ci propone non è una fuga dalle difficoltà di ogni giorno ma la certezza che queste difficoltà portate con lui assumono un senso. Vediamo che al versetto 27: Gesù stesso spiega loro cosa dicono le Scritture di lui. Sembra ciò che ci attesta la Sascrosanctum Concilium al numero 7: “è lui che parla quando nella Chiesa si leggono le sacre scritture”. La prima certezza è questa: quando ascoltiamo le Scritture nella Chiesa, quindi prima di tutto nella liturgia, è Dio stesso che ci parla. Ma osserviamo l’importante inciso “nella Chiesa”: vuol dire che, perché ciò avvenga, esse vanno lette secondo il cuore della Chiesa, secondo ciò che la Chiesa con il suo Magistero ci assicura che vogliano dire. Se le leggiamo da soli possiamo indovinare ma anche sbagliare di grosso, mentre nella Chiesa abbiamo la certezza che è Dio che parla. Il linguaggio della Bibbia preso alla lettera a volte ci può lasciare sconvolti, un’interpretazione è necessaria. Ma chi la può fare con autorità? La Chiesa con il Magistero proclamato da chi ne ha il dovere, il papa e i vescovi, ma anche nella sua vita ordinaria. Non esistono solo definizioni scritte, c’è tutta una sapienza della Chiesa che ci aiuta a capire le Scritture, tutto un ambiente in cui il loro significato si rende comprensibile. Proprio come in casa i genitori insegnano non solo quando mettono in castigo ma in tutto il loro volerci bene anche nelle cose più piccole. Ma perché lo può fare solo la Chiesa? Perché è la stessa che ci consegna la Scrittura. Il canone, cioè l’elenco dei libri sacri, l’ha fissato la Chiesa. Dio non ha calato un foglio dal cielo con l’elenco dei libri ispirati ma ha rivelato quali fossero attraverso la Chiesa. E precisamente nella liturgia perché quando si è trovata a riflettere su questo, la Chiesa ha guardato anzitutto a quei libri che da sempre si leggevano nella liturgia. La liturgia ha dunque un rapporto strettissimo con la parola di Dio.

Al versetto 29 sembra che siano i due discepoli a fare un gesto di cortesia dicendo al viandante di non proseguire il suo cammino al buio, pensano probabilmente di essere loro ad offrirgli qualcosa ma ben presto sarà lui ad offrire loro il pane spezzato del suo stesso corpo. Questo è ciò che avviene durante l’offertorio della Messa: diamo sì qualcosa di nostro ma poi il suo dono è incomparabilmente più grande. Lo stesso versetto dice che Gesù entra per rimanere con loro, entra per recitare la benedizione e spezzare il pane (v. 30) quindi per fare l’Eucarestia. C’è un legame strettissimo tra le parole stesse “rimanere con loro” e il significato del suo nome rivelato dall’angelo a San Giuseppe, Emmanuele che significa Dio con noi. Nell’Eucarestia il Signore entra per rimanere con noi per sempre e il suo nome si verifica in modo definitivo tanto che rimane con  noi addirittura fuori dalla celebrazione e infatti facciamo l’adorazione eucaristica.

Finalmente al versetto 31 lo riconoscono. Nella liturgia della Parola il Signore li educa in modo sublime ma ancora non lo possono riconoscere. La Scrittura è importante perché senza la Parola il gesto rimarrebbe senza senso perché non avremmo gli strumenti per comprenderlo, ma dove veramente si riconosce il Signore è lì, nell’Eucarestia. Non basta leggere la Bibbia per riconoscerlo ma dobbiamo entrare in lui stesso. La liturgia della Parola è intrinsecamente ordinata al sacrificio. Diversamente potremmo ricadere nell’errore dei giudei che davanti a Pilato dissero “abbiamo una Legge e per questa Legge deve morire” (Gv 19,7). L’abominio che compiono è quello di condannare il Verbo di Dio incarnato con il verbo di Dio scritto, la legge a cui fanno riferimento è infatti il Pentateuco. Ecco che solo allora i due discepoli capiscono che anche nel momento dell’ascolto c’era già la presenza del Signore tanto da far ardere il loro cuore ma solo nell’Eucarestia quella presenza assume la sua vera portata. Il cristianesimo è un rapporto con una persona non una serie di regole come molti oggi vogliono farci credere.

Infine, leggiamo nel versetto 35 che i discepoli sono talmente infiammati dalla Parola e dall’Eucarestia che tornano nella Chiesa da cui si erano allontanati a causa dei loro dubbi. E tornano proprio ad annunciare a quella Chiesa di aver incontrato il Signore. Così anche noi usciti dalla Messa non possiamo essere gli stessi di prima, usciamo diversi e caricati dalla forza e dal desiderio di annunciare la gioia di aver incontrato il Signore, come ci ricorda continuamente papa Francesco.

Cosa significa l’espressione “liturgia della Parola”?

Se intendiamo il termine “parola” come soggetto dell’espressione, la liturgia della Paola è un momento liturgico in cui si proclama la Parola di Dio all’interno della Messa oppure degli altri sacramenti oppure ancora in un qualsiasi momento di preghiera. Tuttavia, letta in questo modo non sarebbe che la descrizione di ciò che si fa, ma nulla più.

Se invece prendiamo “parola” come oggetto dell’espressione, essa assume i tratti di un rito che celebra propriamente la parola. Ma quale parola? Certamente quella di Dio. Ma per noi, poiché il Verbo di Dio si è incarnato cioè ha parlato le nostre stesse parole, significa celebrare anche la parola dell’uomo proprio lì dove esse si uniscono perfettamente in Gesù. È infatti lui il protagonista unico della liturgia e noi partecipiamo alla sua liturgia di adorazione verso il Padre. Gesù è la Parola di Dio ma è anche parola dell’uomo perché Dio si è veramente incarnato. Celebriamo dunque anche qualcosa di noi. La partecipazione alla liturgia di Gesù non è qualcosa di esterno ma ci coinvolge profondamente. Questo ci fa capire anche quanto è importante il nostro parlare: spesso usiamo la parola per dire cose inutili o addirittura cattive ma quella stessa bocca è stata usata da Dio per dire la sua parola più importante che è Gesù. Se ci pensiamo bene, comprendiamo di avere una grande responsabilità. Se dunque si trattasse di celebrare solo la Parola di Dio, per quanto meravigliosa resterebbe un oggetto ancora troppo esterno a noi, potremmo pensare che basti incensarla un po’ e poi tornare alle nostre occupazioni. E invece questo rito ci riguarda davvero da vicino.

Questa nuova prospettiva ci consegna anche alcuni atteggiamenti con cui avvicinarci alla liturgia della Parola. Anzitutto dobbiamo farlo con la consapevolezza che si tratta di una parola sicura, chiara, perfetta, vera. È una parola talmente potente che vince tutte le chiacchiere del mondo perché non è una serie di parole, fossero anche quelle di Dio, ma la seconda Persona della Trinità, il Verbo eterno di Dio, Gesù stesso Salvatore del mondo. Egli lo salva anche dalla chiacchiera che lo sta portando alla rovina. In molte chiese ci sono decorazioni floreali alle pareti, non è solo un riempitivo ma è un simbolo della verità che quello è il luogo in cui si torna a parlare con Dio come nel giardino dell’Eden dove, racconta la Genesi, alla brezza della sera Dio scendeva a intrattenersi in conversazione con Adamo.

Questa Parola è parola viva e operante, sta all’apice dei sacramentali cioè del modo di operare di Dio nel mondo. Nella Parola di Dio scritta troviamo la presenza di Dio nel modo più forte possibile appena prima di entrare nel mondo dei sacramenti. Dice san Girolamo che il demonio ha paura anche solo del luogo dove la si tiene in casa. E il sacerdote dovrebbe dire dopo la proclamazione del vangelo: Per evangelica dicta deleantur nostra delicta (per le parole del Vangelo siano cancellati i nostri peccati). Certo non è la confessione sacramentale ma l’ascolto delle parole di Gesù ci introduce nel migliore dei modi ad essa e cancella i peccati veniali.

Frequentando la Parola di Dio, possiamo entrare nella dinamica con cui essa è giunta fino a noi: nessuno in teoria impedirebbe a Dio di mettercela direttamente in testa e invece lui ha preferito un’altra strada. L’ha detta ad alcune persone reali e concrete che l’hanno sentita, alcuni di essi l’hanno anche ascoltata e l’hanno detta ad altri che l’hanno detta ad altri fino a noi. Questa trasmissione ci fa capire quanto è importante il nostro essere inseriti nella Chiesa. Nemmeno la parola con cui Dio ci arriva per una intuizione diretta ma anch’essa è sempre affidata ad una comunità. Non esiste essere cristiani da soli.

Noi vediamo che la liturgia della Parola non è sempre uguale, per esempio nella Messa feriale è più breve … qual è la sua struttura precisa?

Il modello a cui riferirci è sempre quello della Messa domenicale, centro di tutte le altre liturgie che si celebrano e nelle quali si riflette questo modello di liturgia della Parola. Partiamo però dalla dinamica fondamentale che sta sotto alla composizione di ogni liturgia della Parola: si parte dall’ascolto di un brano dell’Antico Testamento a cui segue la risposta fatta con le stesse parole di Dio per approdare gioiosamente alla lettura del Vangelo che realizza tutte le cose annunciate in precedenza. Gradatamente Dio ci fa entrare nella sua logica raccontandoci come ha agito nella storia della salvezza fino a farci vedere che ci ama tanto da venire lui stesso a verificare quanto aveva rivelato.

La prima lettura, di domenica viene sempre dall’Antico Testamento ed è direttamente collegata al tema del Vangelo. Nella liturgia feriale invece avviene il contrario: la prima lettura può essere del Nuovo o dell’Antico Testamento perché si legge un libro in modo continuato e il Vangelo è scelto in riferimento ad esso.

Segue il salmo detto “responsoriale” perché non si tratta più di ascoltare soltanto ma siamo già chiamati a dire anche noi qualcosa perché è fondamentale fare nostre le parole che ascoltiamo, capirle e ripeterle per vedere se abbiamo capito, un po’ come quando si studia. Il rito del salmo responsoriale è proprio, come diceva san Filippo, un “parlare la parola di Dio”. Peraltro, la ripetizione di un ritornello non è l’unica forma possibile per pregarlo, lo stesso ritornello proposto potrebbe essere usato come antifona all’inizio e alla fine oppure può essere ripetuto più volte e anche cambiato. Bisognerebbe ogni volta trovare la modalità adatta a quel salmo specifico e questo sarebbe compito del lettore che così esprimerebbe il suo servizio attivo nella celebrazione. Un’altra cosa che purtroppo non si fa mai è cantarlo ma la natura dei salmi è proprio quella di essere dei canti; addirittura il primo versetto è sempre un’indicazione al maestro del coro su come eseguirlo e quali strumenti utilizzare. Cantarli ci aiuta anche a farli entrare nella testa e nel cuore. I salmi sono la preghiera liturgica della Bibbia, quando Gesù pregava usava i salmi. E nei salmi c’è di tutto: dalla lode più pura alla nera disperazione, esortazioni al bello e minacce orribili di morte. Ebbene sì, nella preghiera entra tutto l’uomo. Non pensiamo mai di portarvi solo il meglio di noi e lasciare alla porta della chiesa le innumerevoli nostre piccole grandi magagne. Dio ci conosce meglio di noi stessi e almeno con lui non c’è bisogno i fare alcuna finta. Egli vuole salvare tutto l’uomo. Non è venuto per chi è bravo ma viene a cercarci proprio lì dove diciamo “speravamo che fosse lui”. I salmi ci aiutano a fare lo stesso esercizio dell’atto penitenziale: siamo i discepoli di Gesù quindi della Verità. Il salmo è sempre esercizio di verità.

La domenica c’è anche una seconda lettura che è presa da una lettera di un apostolo. Questa lettura ci fa entrare in quella dimensione comunitaria di cui si è parlato sopra. Quando ascoltiamo la Parola di Dio lo facciamo in modo personale perché ciò che dice lo dice a me e non a quello del primo banco, ma non è un modo singolare e autonomo, c’è sempre una comunità che media questa Parola. Le lettere erano proprio il modo degli apostoli per mantenere la comunione con le comunità che avevano fondato. Risentire queste parole ci fa sentire più Chiesa. La seconda lettura è spesso sganciata dal tema delle altre due perché viene letta in modo continuato una lettera.

Segue il canto al Vangelo. “Alleluia” è il canto di Pasqua, della risurrezione e ci aiuta a vedere quella che andiamo ad ascoltare come una parola viva perché la parola del risorto. Egli è vivo, non come quelli che aveva risuscitati e che sono morti di nuovo. Gesù è risorto una volta per sempre ed è sempre vivo e operante e lo incontriamo soprattutto nella sua Chiesa. È un canto, si chiama appunto “canto al Vangelo”. In Quaresima al posto dell’Alleluia si esegue un altro canto al Vangelo per sentire la privazione dello sposo di cui Gesù stesso parla nel Vangelo a proposito del digiuno e sentire tutto il desiderio di esplodere finalmente nel suo canto a Pasqua. Tuttavia, questa espressione quaresimale ha lo stesso significato.

Anche il Vangelo si legge in modo continuato: ogni anno viene letto uno dei tre vangeli sinottici più o meno completamente. Vangelo significa letteralmente “buon messaggio”: qual è questo messaggio che ci viene rivolto? Gesù stesso. Quando egli parla, parla di sé stesso perché quando viene è il Regno di Dio già presente in mezzo a noi: incontrando e ascoltando Gesù ci siamo già dentro con un piede. Importantissimo è il segno di croce, detto “minore”, che si fa mentre diciamo la risposta “Gloria a te, o Signore”. Sono tre segni di croce tracciati con il pollice sulla fronte, sulla bocca e sul cuore. Questo segno di croce è molto più antico rispetto a quello che facciamo su tutto il corpo; lo troviamo addirittura nella Scrittura: c’è già nel libro del profeta Ezechiele e nell’Apocalisse dove compare il comando di segnare gli eletti con un “tau”, la lettera greca scritta come una croce. Il senso è che quella parola viva ci entri in testa: anzitutto perché se non entra fisicamente attraverso le orecchie siamo già fermi ma soprattutto perché vi entri come rinnovamento della mentalità. Poi che sia sulla bocca: il nostro parlare è stato consacrato perché Dio si è rivelato prima attraverso parole umane e poi attraverso la sua Parola definitiva incarnata; la consacrazione della bocca attraverso questo segno è anche l’impegno che ci assumiamo di andare a dirla agli altri. Infine, che l’ascolto non sia solo con la testa ma soprattutto col cuore. Cor ad cor loquitur: il cuore di Dio che è Gesù vuole parlare al nostro cuore e con questo piccolo segno lo rendiamo disponibile ad ascoltarlo.

L’omelia è un dovere del sacerdote non è un di più. Egli facendola si connette direttamente all’azione di Gesù che abbiamo letto nel versetto 27: “spiegò loro”. Può non essere particolarmente interessante o forbita ma durante la liturgia Gesù che è Dio onnipotente ed eterno viene sull’altare sotto due forme semplicissime, il pane e il vino, così lo Spirito Santo può venire e cambiarci il cuore attraverso anche le parole semplicissime del predicatore. Se uno si rende disponibile come i discepoli di Emmaus, questo succede certamente, magari attraverso parole non eccelse perché Dio ha scelto ciò che nel mondo era debole per confondere i forti (1Cor 1,27). Questa è esattamente la dinamica liturgica.

Il Credo è posto dopo la liturgia della Parola perché, dice San Paolo, fides ex auditu (Rm 10,17). La fede viene dall’ascolto e noi proclamiamo il Simbolo della nostra fede dopo aver ascoltato la Parola di Dio. Inoltre, Gesù chiedeva sempre la professione di fede prima di compiere i miracoli, così noi professiamo la fede prima del grande miracolo dell’Eucarestia. È un rito di passaggio come il Kyrie che si pone tra l’atto penitenziale e l’inno di lode perché è sì richiesta di perdono ma soprattutto riconoscimento della signoria di Dio. Così il Credo è sì nella liturgia della Parola ma è già un offrire qualcosa a Dio: la nostra obbedienza di fede. Nel rito ambrosiano è addirittura collocato nei riti di offertorio. Si dovrebbe fare un inchino alle parole “E per opera dello Spirito Santo si è incarnati nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo”. Certamente è una riverenza per il mistero dell’incarnazione con cui Dio è venuto a salvarci ma è anche e una “autocatechesi liturgica” perché facciamo esperienza di cosa sia stata questa salvezza: un abbassamento. Dio dalla sua perfetta beatitudine è sceso verso di noi facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Nella Messa di solito diciamo il Simbolo “nicenocostantinopolitano” formulato nei concili di Nicea e Costantinopoli nei primi secoli della Chiesa, si può usare anche il più breve Simbolo apostolico perché entrambi esprimono la medesima fede.

C’è poi la preghiera dei fedeli che non è una pausa pubblicitaria a metà della Messa come purtroppo è da molti interpretata. Essa è anzitutto è la concretizzazione e attualizzazione di quello che abbiamo sentito nella liturgia della Parola: chiediamo le cose concrete che ciò che abbiamo sentito ci suggerisce. Non si chiede un vago aiuto ad essere buoni ma è la richiesta a Dio di essere come lui nelle cose più concrete. Ecco perché si chiama preghiera “dei fedeli” e non “del foglietto”. Siamo inseriti nella Chiesa universale, quindi dobbiamo pregare per le necessità di tutta la Chiesa ma dobbiamo pensare anche alla realtà di coloro che sono lì presenti fisicamente e del contesto a cui appartengono. Lo schema proposto dal messale è quello preghiera universale della liturgia del Venerdì santo quando il cuore di Gesù viene squarciato dalla lancia del centurione e con esso si squarcia il cuore di Dio. È il momento in cui nasce la possibilità di tutto il nostro chiedere qualcosa a Dio perché viene aperto il suo cuore per darci tutte le grazie, se ovviamente gliele chiediamo. È anche immagine della sovrabbondanza di queste grazie: Gesù era già morto, ci aveva già dato tutto, anche la vita, ma la sua bontà va al di là anche del tutto, ancora vuole far uscire qualcosa dal suo amabile cuore. Dovremmo essere noi dunque a proporla in modo che sia significativa e concreta, è un altro compito attivo del lettore. Se pensassimo all’evento drammatico da cui questa preghiera trae origine non potremmo nemmeno pensare di leggere certe fredde formule prefabbricate e faremmo a gara per renderla il più possibile sincera e aderente alla Parola di Dio squarciata. Del resto, al di fuori della domenica non è nemmeno obbligatoria e piuttosto che dire certe stupidaggini è meglio non farla.

A seconda delle parti ci si alza e ci si siede: perché?

Il motivo è lo stesso di tutti i gesti che si compiono nella Messa: per aiutarci anche con il nostro corpo a fare le cose nel migliore dei modi.

Si sta seduti semplicemente perché si ascolta meglio. Ma questa posizione evoca alcuni passi del Vangelo in cui assume un senso profondo: Gesù stesso tra i dottori (Lc 2,46) non solo conversava con loro ma il Vangelo ci tiene ad aggiungere che lo faceva stando seduto. Sempre Gesù quando parlava pubblicamente faceva sedere la numerosa folla sull’erba. Ma l’immagine più bella è quella di Maria di Betania (Lc 10,39) che stava seduta ai piedi di Gesù ed egli la conferma dicendole che si scelse la parte migliore.

Quella in piedi è invece la posizione che ci differenzia dagli animali permettendoci di guardare in alto cioè verso Dio e di aprirci a lui anche con il cuore. È anzitutto la posizione del risorto, colui che appunto ri-sorge cioè torna in piedi. Stando in piedi diciamo al Signore che siamo pronti a ricevere i suoi comandi e ad eseguirli senza doverci ancora alzare e sistemare. Sono tutti segni che la parola che si ascolta è viva e in questa direzione va anche l’uso delle candele durante la proclamazione del Vangelo e il canto del’Alleluia che lo precede.

Questo riguarda chi ascolta ma cosa deve fare chi va a leggere le letture?

Per prima cosa deve prepararsi adeguatamente prima perché prestare la voce a Dio è un servizio importante a Dio e a tutta la comunità. Il termine corretto infatti non è “leggere” ma “proclamare”. La parola di Dio non si legge, si proclama. Questo verbo deriva dal latino e significa “gridare davanti”. Gridiamo davanti a tutti le parole rivelate da Dio. Da esso deriva anche il verbo chiamare, infatti ciò che facciamo non è solo gridare nel vuoto ma un vero servizio di evangelizzazione: chiamiamo a Gesù i fratelli che abbiamo davanti. In quel momento annunciamo il Signore. Non è come leggere per gli altri a scuola ma ciò che si fa è consegnare una Parola viva che chiama i fratelli a Dio. Dunque anche salire all’ambone decorosamente, cosa che non è purtroppo scontata; anche questo spostamento dettato dalla necessità fisico è un atto liturgico. Nella liturgia andiamo alla guerra, l’abbiamo visto la volta scorsa, non si può andarvi trotterellando. Mentre ci si reca al’ambone si fa un inchino verso l’altare se ci si passa davanti e va fatto in modo virile cioè da persona umana, inoltre non c’è bisogno di rifare un segno di croce. Andiamo a proclamare una parola che cambia la storia. Il sevizio è liturgico cioè deve far vedere ciò che si sta facendo e quello che si sta facendo è combattere al fianco di Dio. Bisogna far vedere che è una cosa seria.

Non si deve assolutamente dire “è parola di Dio” ma sempre “parola di Dio”. Si sta leggendo, quindi bisogna leggere quello che è scritto, non inventare. Anche il prete ha davanti il messale pur sapendo quasi certamente la Messa a memoria, così chi va a leggere ha davanti il lezionario e quello deve leggere. Non deve impossessarsene perché è parola di Dio, non nostra. Se in futuro la Chiesa dovesse per qualche motivo cambiare espressione, lo diremo volentieri ma per ora dobbiamo dire così perché la Chiesa ci dona la parola di Dio ed è lei a stabilire come va proclamata.

Si deve inoltre leggere dal lezionario e non dal foglietto perché è difficile far vedere che è una parola stabile, roccia che non muta con un foglietto volante. Il librone fa vedere che non è la parola dei giornali ma una parola che è Dio, il Verbo di Dio.

Il luogo di tutto ciò è l’ambone e per noi che ci stiamo avvicinando alla spiritualità di san Filippo Neri il luogo da cui si parla di Dio è sempre fondamentale, qualsiasi esso sia. Diceva padre Giuliano Giustiniani che “un prete di Congregazione deve morire su uno di questi tre legni: la predella dell’altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti”. Ma questo vale per il sacerdote ma anche per il lettore che parla la Parola di Dio per gli altri. Il senso della liturgia della Parola è parlare ai cuori come Dio, non solo perché la sua Parola rimanga chiusa nel cuore, che già sarebbe molto, ma anche perché essa infiammi il cuore come quello di San Filippo e farci dire come i due discepoli: ci ardeva il cuore e non ce ne siamo accorti, ma ora lo sentiamo: grazie Signore! San Filippo aveva il cuore infiammato e ingrossato anche fisicamente dall’amore di Dio tanto da spaccargli due costole. Ma a questo grande dono egli si è preparato sin da quando leggeva i salmi con la sorella a Firenze. Questo vi auguro di sentire durante la liturgia della Parola: che vi si infiammi il cuore come san Filippo.

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