La Messa – I parte: Dall’inizio alla Colletta

Catechesi liturgiche sulla Messa

I parte – Dall’inizio alla Colletta

Filetto, 26 gennaio 2014

 

di Emanuele Borserini

 

Introduzione

Qualche giorno fa abbiamo celebrato la memoria liturgica di San Francesco di Sales, Vescovo oratoriano. Oltre alla grande sapienza e spiritualità per cui è giustamente famoso, lo contraddistingue un grande amore per la liturgia. Trovandosi a rievangelizzare la diocesi di Ginevra caduta quasi totalmente in mano ai calvinisti, egli concentrò le sue energie anzitutto nella cura della liturgia per riconquistare le anime con la sua bellezza. Quello della predilezione per la liturgia è anche uno dei carismi dell’Oratorio di San Filippo Neri. Per farci un’idea di cosa essa significasse per San Filippo basta raccontare brevemente un episodio. Al termine dei lavori alla nuova chiesa di Santa Maria in Vallicella da lui stesso attentamente seguiti, vennero portate le reliquie dei martiri Papia e Mauro donate dal Papa per la dedicazione. Avvenne dunque che, durante la solennissima processione, egli si mise a tirare la barba alle guardie svizzere per non andare in estasi. Inoltre, durante tutti gli ultimi anni della sua vita era normale che la sola vista delle cose di Dio lo rapisse in Dio e quando ancora riusciva ad assistere alle celebrazioni pubbliche era costretto a coprirsi gli occhi per la maggior parte del tempo. Noi abbiamo di norma il problema opposto, ecco perché ci ritroviamo qui a riprendere le nostre catechesi liturgiche.

Perché dobbiamo partecipare alla Messa che spesso è noiosa?

Ascoltiamo il Salmo 29.

Date al Signore, figli di Dio,

date al Signore gloria e potenza.

Date al Signore la gloria del suo nome,

prostratevi al Signore nel suo atrio santo.

La voce del Signore è sopra le acque,

tuona il Dio della gloria,

il Signore sulle grandi acque.

La voce del Signore è forza,

la voce del Signore è potenza.

La voce del Signore schianta i cedri,

schianta il Signore i cedri del Libano.

Fa balzare come un vitello il Libano,

e il monte Sirion come un giovane bufalo.

La voce del Signore saetta fiamme di fuoco,

la voce del Signore scuote il deserto,

scuote il Signore il deserto di Kades.

La voce del Signore provoca le doglie alle cerve

e affretta il parto delle capre.

Nel suo tempio tutti dicono: «Gloria!».

Il Signore è seduto sull’oceano del cielo,

il Signore siede re per sempre.

Il Signore darà potenza al suo popolo,

il Signore benedirà il suo popolo con la pace.

Questo salmo descrive in un linguaggio tutto particolare ciò che avviene quando una liturgia viene celebrata. Esso inizia con un invito alla lode del Signore e siamo certi che si tratti di liturgia perché è nel tempio che il salmista invita ad innalzarla. I versetti centrali, poi, descrivono gli sconvolgimenti universali che avvengono durante la celebrazione. Perché san Filippo andava in estasi anche solo vedendo cose liturgiche? Perché lì il cielo scende sulla terra, è dunque normale che esso butti per aria tutto. Dopo queste descrizioni poetiche, c’è anche la risposta del popolo e, infine, la conclusione del salmo narra l’effetto della liturgia: la forza di partecipare a questi eventi che sono sproporzionatamente più grandi di noi. Davvero ci troviamo nel bel mezzo di una battaglia, è la buona battaglia della fede, per usare il linguaggio di San Paolo (2Tim 4,7) che combattiamo lungo tutta la vita cristiana. Tutta la storia della salvezza è come una guerra in cui si fronteggiano il bene e il male. Il Signore da una parte, gli angeli ribelli dall’altra e in mezzo ci siamo noi. La cosa bella è che la guerra è già stata vinta. Il giorno della vittoria è già avvenuto, ma fino alla fine ci sono altre battaglie ce si rendono necessarie affinché quella vittoria sia portata dappertutto. Ogni giorno scopriamo che il Signore ci vuole bene ma anche che il diavolo ci vuole sottrarre a lui, per questo è necessario che si combattano le nostre piccole grandi battaglie personali  e alla fine si scoprirà che anch’esse sono hanno contribuito alla proclamazione della vittoria del Signore. E non è solo un’illusione, ma davvero il Signore vuole vincere attraverso di noi, tanto che san Paolo ci avvisa che “il Signore sta per schiacciare Satana sotto i vostri piedi” (Rm 16,20): è lui che lo vince ma lo vuole fare attraverso di noi. Nella liturgia tutto questo si realizza in modo speciale, tanto che ogni volta che vengono celebrati i misteri del Signore l’inferno trema perché si affretta la sua sconfitta definitiva. Essa ci da anche la forza per combattere questa guerra: dice San Bonaventura che la Chiesa nei sacramenti trova l’apparecchio per la guerra. Con la liturgia smetto di essere da solo a combattere ed entro nel grande esercito di Dio. Davanti a tutto ciò, mi sovvengono le parole di Scott Hahn in un suo recente libro: “pochi riusciranno a scorgere il potente dramma soprannaturale in cui pure fanno ingresso ogni domenica”. Facciamo fatica, ma davvero dovremmo cercare di vedere, al di là del contesto che spesso non aiuta e del diavolo che fa di tutto per occultarlo ai nostri occhi, che nella liturgia il cielo che irrompe sulla terra e lo sconvolgimento che questo comporta, vedere il Signore che schianta i cedri, combatte e vuole vincere attraverso di noi.

A cosa serve quello che si fa nella Messa?

Per avere risposte soddisfacenti bisogna porre le domande giuste. È necessario dunque un cambio di prospettiva: non dobbiamo chiederci “a cosa serve?” ma “cosa significa?”. Perché la liturgia è il mondo del simbolo e tutto ciò che in essa si fa è perfettamente inutile dal punto di vista pratico. La modernità e post-modernità di cui siamo tutti inevitabilmente figli ha fatto dell’utile il suo idolo per cui ha valore solo ciò che si può contare. Dobbiamo invece riscoprire la bellezza delle cose inutili. Stare con un amico è bello anche se non si produce niente. Così, anche se non si vedono i risultati immediati, stare del tempo con il Signore è bello. All’inizio può sembrare tempo perso ma non è così. Lì entriamo in un ordine diverso rispetto alla quotidianità. Possiamo averne un’idea guardando alle teorie di santi delle chiese bizantine le cui figure sono rappresentate senza profondità. Forse perché non avevano studiato la prospettiva? Non è così, la conoscevano benissimo ma avevano la chiara coscienza che nelle chiese l’orizzonte è diverso rispetto a quello reale perché si esce dal quotidiano. Solo Dio ce lo può dare. C’è un esempio evidentissimo nella liturgia pontificale nella forma straordinaria durante il quale il Vescovo giunge in chiesa rivestito della cappa magna, l’abito corale delle solennità che ha un lungo strascico. Quando però egli sale all’altare per iniziare la Messa viene spogliato di quell’abito così sfarzoso alla cattedra o al faldistorio in modo che tutto il popolo lo possa vedere e solo dopo questo rito gli vengono portati i paramenti prendendoli uno per uno dall’altare. Tutto questo vuole significare che le grandezze del mondo non hanno valore davanti a Dio, la vera solennità la dà lui soltanto e quello che si vede in quel luogo è sì un fasto ma di altra natura. In molte chiese si trova la scritta: Hic domus Dei et porta coeli (Gen 28,17) che è ciò che dice Giacobbe dopo la sua lotta con l’angelo. Anche dove non c’è questa scritta ci sono molti santi e angeli rappresentati nelle chiese,, pensiamo ai meravigliosi soffitti barocchi. Davvero lì entriamo in un altro mondo. Però anche quando vado questi disegni sono polverosi, c’è poca luce, tutto sembra fuorché il paradiso … Cos’è che può aiutarci a entrare in questo ordine diverso? Staccarsi da ciò che ci portiamo dietro con un po’ di silenzio prima, dopo e durante. La preparazione e il ringraziamento non sono devozioni ma sono momenti necessari per staccarci dallo strascico e ricevere dall’altare un vestito diverso. Addirittura la vestizione del vescovo il cerimoniere la fa indossando già la sua cotta perché è già un momento liturgico non una necessità da espletare e basta. Con un’immagine si può dire che come la pausa è musica, il silenzio è rito.

Allora cosa fare?

Iniziamo da quando si entra in chiesa. Troviamo vicino alla porta la pila dell’acqua benedetta. Non solo fa sempre bene come sacramentale ma è un vero e proprio momento di auto catechesi liturgica perché entrando nella chiesa struttura fisica ricordo che io non sono lì come uno qualunque ma all’inizio della mia vita cristiana sono entrato nella chiesa popolo di Dio con quella stessa acqua il giorno del Battesimo. C’è differenza tra me e un turista. Anche noi vediamo quanto sia bella una chiesa ma e quella stessa bellezza ci aiuta molto nell’incontro con Dio, ma noi vi entriamo in un modo tutto particolare. Con quell’acqua dunque facciamo il segno di croce. Così, con un gesto del corpo inizio a mettermi davanti i due misteri fondamentali della fede: la Trinità e la croce. E anche il motivo per cui sono lì. Vado a incontrare la Trinità e a rivivere la croce, il centro della battaglia decisiva del mistero pasquale con cui il Signore ci ha aperto l’accesso alla Trinità perché quando sulla croce venne squarciato il cuore fisico di Gesù fu aperto anche il cuore di Dio. e tutto ciò lo riviviamo proprio nella liturgia. Ecco perché è importante non scacciare le mosche ma toccarsi la fronte con la mano per mettercelo bene in testa. Ma non basta nemmeno metterlo in testa perché vediamo come molti teologi lo hanno sì in testa ma non nel cuore. Ed ecco che quel gesto ci fa toccare bene anche il petto. Significativo è anche toccarsi le spalle perché il Signore davvero ha steso le braccia sulla croce, non sono solo buoni pensieri. È una grazia che le cose che non possiamo vedere con gli occhi attraverso gesti e parole le possiamo far entrare nel cuore. Se poi c’è il Signore nel tabernacolo si fa anche la genuflessione. Noi non ci inginocchiamo davanti a nessuno ma davanti a Dio sì.  È brutto vedere chi pur nona vendo difficoltà fisiche la fa male e in modo così poco virile: all’inizio di una battaglia, vedere i cavalieri che si muovo senza la gravità che la serietà del momento comporta è poco rassicurante. Andiamo finalmente nel banco per prendere posto e aspettare trepidanti che entri il padrone di casa che ci ha chiamato. Quando arriverà, starà passando il generale di quella guerra, non uno qualsiasi quindi dobbiamo avere il desiderio di vederlo. Allora si canta per accoglierlo. Si canta ma non per riempire giusto il tempo necessario perché il prete arrivi all’altare. L’introito o canto d’ingresso è il canto che ci introduce all’argomento della celebrazione. Ci sarà una conversazione e questo generale vorrà parlare con ognuno di noi. È diverso se celebriamo le glorie del Signore attraverso un santo o sua madre o una celebrazione penitenziale per chiedere perdono di quando non abbiamo combattuto coraggiosamente. Quando si va incontrare qualcuno di importante ci si prepara per non fare una figuraccia, così anche quando andiamo a parlare con la persona più importante di tutte. Infatti l’altare, che è simbolo di Cristo, viene incensato all’inizio della Messa. Spesso chiacchieriamo inutilmente mentre qui usiamo la voce nel modo migliore: per lodare il Signore. Ma non solo: dice il Salmo 150 di lodarlo in timpano et choro, cioè suonando il proprio strumento e suonandolo insieme agli altri. L’assemblea liturgica non è lì per caso, tutti e ognuno siamo chiamati e convocati dal Signore. Siamo ammessi a questo momento di sconvolgimenti universali perché il Signore vuole che proprio coloro che sono lì presenti lo siano. Non solo quelli del primo baco o il prete ma tutti noi. Nella persona del sacerdote, il Signore, che è il padrone di casa, saluta per primo guidandoci a rifare con lui quel segno di croce già fatto da soli appena entrati in chiesa. Anche il saluto liturgico che segue e che può assumere varie forme attesta che siamo convocati da Dio, la formula più semplice dice infatti: “Il Signore sia con voi”. Stare insieme in chiesa è un dono dello Spirito Santo perché il suo compito particolare è proprio quello di creare la comunione nella Chiesa. Vediamo che il segno di croce ha una dimensione verticale che rappresenta il rapporto personale tra il Signore e me. E una orizzontale che rappresenta la necessaria comunione con i fratelli. Tuttavia, il braccio orizzontale della croce non può stare su da solo ma deve essere retto da quello verticale, così la dimensione orizzontale dell’assemblea, il suo stare insieme tra fratelli, si basa su quella verticale e ha senso proprio in virtù di essa, cioè sul rapporto personale con Dio.

Ma io vedo il prete, non Gesù …

Qui si gioca la comprensione della struttura fondamentale della liturgia: il simbolo. Vediamo il prete ma colui che entra è il Signore. È necessario che io veda il segno sensibile perché possa accedere alla realtà invisibile. Mentre presiede la liturgia, il sacerdote agisce in persona Christi capitis cioè nella persona di Cristo capo: è il Signore stesso che per mezzo suo ci parla e agisce per noi. Ecco perché a presiedere è sempre uno soltanto, anche quando concelebrano molti sacerdoti. I nostri fratelli orientali hanno un modo molto bello di farlo vedere, infatti quando il sacerdote celebra si presenta vestito e pettinato esattamente come il Cristo delle icone. Non è lui che fa la liturgia ma è anch’egli servo di Colui che rappresenta in modo pur così forte. Infatti, una delle definizioni migliori del celebrante è ministro che significa servo, dal latino minister. Il sacerdote mette a servizio tutta la sua umanità per rendere presente Cristo. È necessario che ci sia il sacerdote altrimenti non avremmo la messa, ma che agisce è Gesù. I paramenti, tra le altre cose, servono proprio a nascondere la corporeità singolare del sacerdote. In particolare il velo omerale: le mani consacrate del prete fanno l’Eucarestia, quindi non serve certo per non toccare l’ostensorio ma proprio per nascondere la sua persona il più possibile. Ecco anche perché c’è il messale sull’altare e alla sede anche se il prete conosce la messa a memoria. Addirittura nelle celebrazioni solenni, il cerimoniere indica col dito dove leggere: non che il sacerdote se ne dimentichi proprio in quel momento ma anche questo è un segno che rende visibile la verità che anche lui dipende da un Mistero supera tutti. Questo diventa anche un’immagine per l’apostolato: è certamente necessario che io dica qualcosa del Signore agli altri, ma ciò che conta nell’evangelizzazione non sono io ma il Vangelo che trasmetto. Evangelizzando facciamo ciò che il prete fa per noi nella liturgia!

Cosa significano i paramenti che il sacerdote indossa?

Il modo più bello per capire cosa significano i paramenti è secondo me quello di seguire le preghiere di vestizione perché tutte fanno riferimento a immagini militari. Davvero nella liturgia ci si prepara per la battaglia della fede. L’amitto, che si appoggia al collo ed è più alto nella parte posteriore della testa, è come un elmo, l’elmo della salvezza secondo san Paolo (cfr. 1Tes 5, 8 e Ef 6, 17). Il camice è la veste bianca lavata dal sangue dell’agnello (cfr. Ap 7, 14) che è la nostra vera corazza contro i colpi del maligno. La vestizione della tunica fa anche riferimento al mondo romano in cui questo gesto segnava il passaggio all’età adulta; con esso il bambino diventato adulto assumeva i diritti e i doveri civili tra cui proprio quello del servizio militare. Il cingolo, come ogni cosa che cinge una parte del corpo, quindi anche il colletto e la fascia dell’abito talare che porto, rappresenta la purezza dell’ideale cavalleresco che si custodisce, tra gli altri modi, specialmente nella castità. Il manipolo è invece la ricompensa della fatica del ministero perché deriva dal fazzoletto che i romani usavano per detergere il sudore e le lacrime: “chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia” (Sal 126, 5). Il manipolo si porta al polso poiché, essendo state le tasche inventate solo nel “buio” Medioevo, i romani portavano questo fazzoletto legato al polso. La stola è la veste, che in latino si dice precisamente stola, dell’immortalità (cfr. 1Cor 15, 53), ciò che ogni guerriero desidera. Inoltre è il paramento identificativo del ministero ordinato per cui sbagliano profondamente i sacerdoti che giustificano il loro non usare la stola sotto la casula dicendo che non la si vede. La stola è il paramento che esprime il grande dono che il sacerdote ha ricevuto: tutto ciò che fa di grande lo fa perché il Signore lo ha scelto e la Chiesa lo ha ordinato, non per un suo merito. Egli è un simbolo di Gesù, può essere cattivo o peccatore ma quando lo vedo, vedo Gesù. San Francesco d’Assisi ha riformato tanti malcostumi della Chiesa ma davanti anche ai peggiori sacerdoti si inginocchiava. Un’immagine bella per descrivere la stola l’ha coniata mons. Antonio Bello in un suo libretto di qualche anno fa: “Stola e grembiule. I due lati dell’unico panno sacerdotale”. Essere ministro di Gesù è la vocazione precisa del sacerdote. Così, la presenza stessa della gerarchia nella Chiesa non è che un servizio. Non è comando ma servizio alla fede che ha il suo momento più visibile e la sua fonte proprio nel sevizio di presidenza della liturgia. Stola e grembiule: uno dà forza all’altro. La pianeta o la casula, che si equivalgono perfettamente, insistendo sul collo e sulle spalle sono come il giogo leggero di Gesù (cfr. Mt 11, 30). Le armi che abbiamo a disposizione sono quelle della luce (cfr. Rm 13, 12), la luce di Dio (cfr. Gv 1, 9), la luce della fede (cfr. Gv 12, 46). Davanti a questo guerriero così armato, poi, sventola il vessillo della croce, il vessillo è proprio la bandiera che segnala dove si trova il re sul campo di battaglia. Non dimentichiamo, infine, che accanto a noi abbiamo continuamente a disposizione un valoroso scudiero: l’angelo custode. Gli angeli servono continuamente Dio, sono i suoi messaggeri e mandatari; così per ognuno di noi è stabilito da Dio che ci sia un angelo che ci consigli sulla strategia bellica, ci aiuti a interpretare bene la volontà del generale e a pulire e mantenere in buono stato le armi. Per questo pregatelo spesso, chiedetegli consiglio, è lì apposta!

Finalmente, siamo arrivati all’altare … e poi?

La Domenica si può fare l’aspersione con l’acqua. È un rito che ha origine nell’antichissima liturgia d’alleanza di Es 24 su cui è perfettamente modellata l’aspersione domenicale nella forma straordinaria. Essa prevedeva l’aspersione prima dell’altare e poi dei fedeli in segno di alleanza (vv. 6 e 8) e così si faceva ogni domenica, giorno della nuova alleanza sancita dalla risurrezione di Cristo; unica differenza, là c’era il sangue della vittima animale sacrificata mentre per noi l’acqua del battesimo che sgorga dalla vittima per eccellenza, Cristo Signore (cfr. Gv 4, 14). La domenica è il dies dominica, il giorno del Signore a lui consacrato, per questo facciamo anzitutto memoria del motivo per cui noi siamo a lui consacrati e, come dicevo all’inizio, per cui siamo lì. Ciò che invece si fa sempre è invece l’atto penitenziale. “Confesso” è anzitutto il verbo della professione di fede, quindi prima ancora che un elenco di peccati è l’espressione della fede nel Signore che ce li perdona, così come il sacramento della confessione. Infatti i Santi chiamati confessori non sono quelli che esercitavano il ministero della riconciliazione ma coloro che con la loro vita hanno confessato cioè proclamato la fede: è il termine per distinguerli dai martiri, coloro che hanno avuto la grazia di farlo con una morte violenta, con il quale la Chiesa dice che non è da meno chi vive un martirio quotidiano per la sua fede. Celebrando i sacramenti si proclama prima di tutto la fede. Proprio perché credo posso anche riconoscermi peccatore senza andare in depressione. La vera differenza tra noi cattolici e i nostri fratelli protestanti ma anche tanti contemporanei sta proprio qui. Noi abbiamo il senso del peccato: sappiamo di avere peccato, anche orribilmente a volte, ma confessiamo cioè crediamo che Dio è Padre e ci vuole sempre perdonare per questo li possiamo e li dobbiamo dire a lui. Loro invece hanno il senso di colpa e non hanno questa apertura: poiché io ho fallito rispetto alla mia idea di me stesso, non ho altra possibilità. Coloro che non frequentano la liturgia non si danno questa possibilità. La Chiesa dura da 2000 anni certamente perché l’ha fondata Cristo e la vivifica lo Spirito Santo ed entrambi lo fanno per il Padre, ma il suo punto di forza è proprio questo. Soltanto il cristianesimo conosce il senso del peccato, cioè quel dolore per aver mancato che però spinge ad emendarsi e ricercare ancora una volta il perdono di Dio, esso non getta nella disperazione ma apre alla speranza in chi ci dà la forza per andare avanti. Il senso di colpa invece è la disperazione autoreferenziale, un cortocircuito che arresta la crescita e porta alla distruzione. Per questo tutte le società civili entro un certo limite di tempo finiscono. Lo possiamo constatare guardando alla nostra società europea che da quando ha abbandonato le sue radici cristiane e con esse il senso del peccato si è avviata in un processo di autodistruzione divorata dai sensi di colpa per gli errori che nella storia può ragionevolmente aver commesso. Gli omosessuali sarà pur vero che sono stati emarginati lungo la storia ma, siamo seri, non può una società implodere solo per questo pur grave errore. E invece è proprio ciò che sta avvenendo perché in nome dell’anti omofobia si stanno cancellando le minime basi della convivenza sociale e l’Europa sta andando in frantumi. Dice San Paolo che “dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia” (Rm 5, 20): noi andiamo a Messa carichi di peccati ma poco dopo tutto ciò è superato dal miracolo incomparabile  dell’Eucarestia. Spesso vediamo sulle pareti delle chiese un triangolo con un occhio dentro e a molti appare inquietante, in realtà è un’immagine molto eloquente del Padre che ci aspetta sempre e scruta l’orizzonte come il padre  misericordioso della parabola (Lc 15, 11-32) che aspetta il figliolo e quando lo vede non pensa ad altro ed è lui che, contrariamente a ciò che aspetteremmo, gli corre incontro. Questo però ci investe di una grande responsabilità perché un padre si aspetta dal figlio molto di più di ciò che un giudice si aspetta dal’imputato. Il nostro modo di dimostrargli amore è proprio quello di tornare a chiedergli perdono e combattere insieme con lui. Passiamo così alla seconda preghiera: il canto “Kyrie eleison”. Se egli ci perdona per ciò che nemmeno noi ci perdoneremmo è davvero il Signore Dio, Kyrie in greco significa proprio Signore. Per questo dal riconoscimento dei peccati possiamo schizzare immediatamente alla lode del Signore. infatti, nonostante venga tradotto semplicemente come “Signore pietà”, il Kyrie è un canto di lode ed è seguito dal Gloria che si chiama propriamente “Inno di lode”. Inoltre, nella forma straordinaria l’altare viene venerato incensandolo proprio durante il Kyrie.

Perché vi inchinate dicendo “Gesù Cristo” durante il Gloria?

Perché dice San Paolo che “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi” (Fil 2,9). Dopo che il Signore ha vinto la battaglia decisiva con la sua morte e risurrezione, addirittura chi lo ha rifiutato ed è all’inferno deve riconoscere che è lui il vincitore e deve adorarlo contro voglia. Quindi anche noi ogni volta che diciamo il suo nome facciamo un inchino per partecipare a questa liturgia cosmica. Inoltre, dice san Pietro che “non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato gli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (At 4, 12). Facciamo dunque memoria anche di come è avvenuta la salvezza che è nel nome di Gesù. Egli non è arrivato sulle nuvole a regolare i conti ma ha lasciato la bellezza e il risposo di Dio per venire sulla terra a prendere su di sé tutta la nostra sofferenza. È venuto a cercarci e a salvarci proprio là dove siamo. Dalla sua nascita siano alla croce è tutto un movimento di abbassamento di Dio verso di noi e lo vogliamo imprimere nel cuore proprio con questo piccolo gesto di abbassamento e ringraziarlo per questo. L’amore di Dio per noi di è manifestato sulla croce e non c’è amore senza croce. La croce c’è e non possiamo mai uscire dalla prospettiva della croce. Non possiamo combattere senza tenere un occhio fisso al vessillo che segnala dove è il nostro generale. Dice ancora San Paolo che quella liturgia cosmica avviene perché “per questo Dio l’ha esalato”: proprio perché Gesù si è umiliato accettando la volontà del Padre “fino alla morte e alla morte di croce”, il Padre lo ha esaltato cioè ha vinto in lui la battaglia decisiva contro le potenze del male. Se scegliamo la via dell’umiltà, cioè della verità, vinceremo la nostra battaglia! La liturgia lo ricorda ogni giorno anche con la recita del Magnificat durante i Vespri:  Maria non solo è umile ma sa che chi si umilia sarà esaltato pertanto non mostra alcuna falsa modestia nel riconoscere le grandezze che Dio opera in lei.

Ma la preghiera non è solo lode: se siamo lì è anche per chiedere qualcosa …

Ecco il momento in cui, dopo aver riconosciuto la gloria di Dio e la nostra miseria, proprio perché io sono niente e Dio è tutto, tutto lo chiedo a lui. Dopo l’invito del sacerdote: “Preghiamo” dovrebbe esserci qualche secondo di silenzio perché ognuno possa formulare le richieste che gli stanno più a cuore. Dunque, il sacerdote, interpreta i nostri desideri, le sofferenze, i ringraziamenti che abbiamo nel cuore con le parole della chiesa e proclama la preghiera Colletta. Questo nome significa proprio raccogliere. Ciò che vi auguro, al termine di questa catechesi, è di vedere davvero le vostre preghiere e i sentimenti del vostro cuore che escono, si uniscono a quelli dei fratelli e come un fiume passano nell’alveo delle mani allargate del sacerdote che in quel momento è Gesù stesso, unica via per arrivare al Padre, e così possono prendere il volo e salire verso Dio nella certezza che egli è il Dio fedele che ci ama e sempre ci ascolta.

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