Il pensiero del giorno

La Summa Theologiae

di don Giovanni Poggiali

Non è azzardato il paragone tra una Cattedrale gotica e un sistema intellettuale, filosofico e teologico, medievale. Nel suo bel libro intitolato Come la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Ed. Cantagalli, Siena 2007), Thomas E.Woods Jr. dice espressamente che “la forma mentis scolastica è stata spesso indicata come la fonte primaria della cattedrale gotica. Gli scolastici, di cui san Tommaso d’Aquino fu il più illustro rappresentante, furono costruttori di sistemi intellettuali. Cercarono non solo di rispondere a questa o quella questione, ma di costruire interi edifici di pensiero. Le loro summae, in cui cercarono di esplorare ogni questione significativa relativa al soggetto della loro indagine, erano sistemi coerenti, in cui ciascuna conclusione individuale si riferiva armoniosamente a tutte le altre, proprio come gli elementi che compongono la cattedrale gotica operavano insieme per creare una struttura di notevole coerenza interna” (p.131). Tali ingegni dell’uomo, la cattedrale e la summa, sono stati possibili grazie al dono dell’intelligenza e della creatività dati dal Creatore. Basta osservare la “cattedrale della natura”, il mondo plasmato da Dio, per rendersene conto.

La Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino (1225-1274) è una delle opere più significative del genio medievale e di tutta la storia umana. La Summa era un termine che indicava l’esposizione della materia in un dato ambito, sia come sintesi delle parti principali di una dottrina, sia come esposizione dettagliata e sistematica. San Tommaso, cerca di dare risposte a migliaia di domande filosofiche e teologiche, dalla domanda sull’esistenza di Dio a quella sulla giustezza della guerra. La scolastica, termine con cui si definisce il lavoro scientifico filosofico e teologico (allargato poi ad altri rami del sapere) nelle “scuole” o Università europee medievali, aveva dei criteri precisi di lavoro: la distinzione degli ambiti teologici e filosofici e l’uso della ragione al servizio della fede. M.D. Chenu nel suo libro Introduzione allo studio di S.Tommaso D’Aquino (Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1953), afferma infatti che il carattere proprio della teologia scolastica è “la fiducia della fede nelle risorse della ragione, dalla dialettica alla metafisica” (p. 61). Il Papa Benedetto XVI, nell’Angelus del 28 gennaio scorso festa liturgica del Dottore Angelico, ha riaffermato il tema del rapporto tra fede e ragione, unendosi alla linea tracciata dalla summa: “La fede suppone la ragione e la perfeziona, e la ragione, illuminata dalla fede, trova la forza per elevarsi alla conoscenza di Dio e delle realtà spirituali. La ragione umana non perde nulla aprendosi ai contenuti di fede, anzi, questi richiedono la sua libera e consapevole adesione”.

La Summa Theologiae fu scritta dal Dottor Angelico per aiutare i principianti (incipientes) nel comprendere la religione cristiana e per evitare la moltiplicazione di questioni e argomenti inutili con conseguenti ridondanze e confusioni. L’intento di Tommaso è di esporre chiaramente la Sacra Doctrina (Teologia), il cui fine è la “contemplazione della Verità prima in patria”, cioè la contemplazione faccia a faccia di Dio, la visione beatifica. Che cos’è, in fondo, la Teologia? E’ la riflessione sulla fede e sulle domande che essa fa alla ragione. E’ una scienza, un sapere che accresce la conoscenza di Dio, dell’uomo e del mondo. Tommaso mostra, con la sua riflessione limpida, la grande apertura intellettuale dei medievali, la loro passione per la Verità, la non preclusione verso fonti non cristiane (pensiamo ad Aristotele), la memoria gigantesca e la padronanza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa. Il Dottore Angelico dirà che da qualunque parte venga la verità, essa viene dallo Spirito Santo, cioè dall’amore di Dio. Comprendiamo allora come il famigerato “Medioevo” non sia assolutamente l’epoca buia che si studia nei libri di scuola, ma sia molto più luminoso di tante apparenti “luci” storiche, come per esempio la cosiddetta epoca dei Lumi (Illuminismo).

Qual è il metodo di San Tommaso e come è divisa la summa? Il metodo scolastico che andò affermandosi, fu quello per cui l’autore del trattato presentava una questione (per esempio An Deus sit: se Dio esista), poneva l’esame degli argomenti pro e contro tale questione, quindi esplicitava la propria opinione e la sua risposta alle obiezioni. Queste venivano esposte per prime, come a significare il grande rispetto per il pensiero altrui. Inoltre, la summa è divisa in tre parti: la prima pars tratta dell’essenza di Dio in se stesso (l’esistenza, le sue perfezioni, le sue qualità, i modi in cui viene chiamato ecc.), della Trinità delle Persone divine, della creazione e delle cose create, tra cui l’uomo. La seconda pars, divisa in due sezioni, tratta del movimento dell’uomo verso Dio suo fine ultimo (si parla del fine dell’uomo, che è la beatitudine, dei mezzi per raggiungerlo e degli ostacoli che lo impediscono). Infine la tertia pars, unita al supplemento, tratta di Cristo, il quale, in quanto uomo, è la via per andare a Dio (qui incontriamo tutto ciò che concerne la Persona di Gesù, la sua vita, ed inoltre il trattato sui Sacramenti e le questioni sulla vita dopo la morte). Lo schema si può ricondurre a due parole: exitus e reditus, cioè uscita del Verbo da Dio per la Redenzione del mondo e ritorno in Dio dopo aver compiuto la Volontà del Padre “che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). Il Proemio della III° parte, quella che tratta di Gesù Cristo, mostra il genio sintetico del santo Dottore che, in poche battute, delinea la storia della salvezza e il fine a cui siamo destinati: “Poiché il Signore, Gesù Cristo, Salvatore nostro, salvando, come attesta l’angelo, il suo popolo dai peccati, ci ha presentato in se stesso la via della verità, per la quale possiamo giungere, mediante la risurrezione, alla beatitudine della vita immortale, è necessario, per condurre a termine tutto il corso teologico, che alla considerazione dell’ultimo fine della vita umana, delle virtù e dei vizi, segua lo studio dello stesso Salvatore universale e dei benefici da lui apportati al genere umano”.

Ciò che colpisce e che attrae dell’opera di San Tommaso è la logica stringente, la consequenzialità delle argomentazioni, l’ordine della materia e la sapienza di cui è innervata. Egli dettava ai suoi scrivani più opere contemporaneamente, con una memoria simile ai nostri moderni computer. Le sue tesi sono state ripetute per secoli e la Chiesa ha abbondantemente ripetuto di rivolgersi a lui come a un modello.

Il 6 dicembre 1273, alla fine della vita, mentre celebrava la Santa Messa, Dio gli fece fare esperienza viva del divino, di tutto ciò che Tommaso aveva fino a quel momento contemplato, studiato e amato. Fu un’esperienza talmente forte che, di fronte alle insistenze di Reginaldo per farsi spiegare l’accaduto, disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”. Vengono in mente le parole di San Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1 Cor 2,9). Dio, il 6 dicembre 1273, le mostrò a Tommaso per l’amore con cui l’Angelico l’aveva amato.

La Storia del Santo Rosario

di don Giovanni Poggiali

“Chi propaga il Rosario è salvo!”. Così si esprimeva il beato Bartolo Longo, un vero apostolo del Rosario, citato dall’attuale pontefice Giovanni Paolo II nella recente Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae (16 ottobre 2002) dedicata alla preghiera del Santo Rosario, preghiera e devozione così profondamente radicata nel popolo cristiano. Il Santo Padre ha inoltre proclamato l’anno del Rosario (ottobre 2002 – ottobre 2003), e desidera che questa devozione venga recitata con fede da ogni cristiano e soprattutto all’interno delle famiglie, per ricercare l’unione e la concordia che solo dalla preghiera possono scaturire.

Come è nato e come si è sviluppato il Rosario che Pio XII descrisse come “sintesi di tutto il vangelo, meditazione dei misteri del Signore, corona di rose e inno di lode”?

La storia è complessa e alcuni passaggi non sono storicamente chiari. I monaci nei Monasteri, nelle varie ore del giorno, recitavano il Salterio (i 150 salmi della Bibbia) e la Liturgia delle Ore (più comunemente conosciuta come il “Breviario”) per obbedire all’invito del Signore Gesù che li richiamava alla preghiera costante: “Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi (Lc 18,1) e di s.Paolo: “State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie” (1 Ts 5, 16-18). Nell’VIII° secolo, per aiutare i monaci illetterati e quelli che non conoscevano il latino, si cominciò a dire: “Chi non è capace di salmodiare reciti dei Pater”. I salmi, così, vennero sostituiti da 150 Padre Nostro. I monaci cercavano il silenzio interiore, la pace del cuore attraverso la meditazione e allora vollero facilitare questo per tutti, mediante una preghiera continua, ripetuta e semplice.

Ad un certo punto, all’inizio del XII° secolo, si diffonde in occidente la recita della prima parte dell’Ave Maria la cui origine è di alcuni secoli prima. E’ l’istinto della fede che ha condotto i cristiani a comporre l’Ave Maria: quando è cominciata la salvezza? Nel momento in cui il Verbo di Dio si fece carne. Dal Vangelo di Luca ricavarono allora le parole che l’Angelo Gabriele e santa Elisabetta dissero alla Vergine (cf. Lc 1,28.42). Certamente, come accennato, il saluto angelico era conosciuto anche prima del XII° sec. (ricordiamo che il culto mariano è molto antico, infatti la famosa preghiera mariana Sub tuum praesidium risale al III° secolo e l’archeologia ha portato alla luce notevoli testimonianze del culto mariano fin dai primi secoli: cf “Il Timone” n. 23, pp. 64-66) ma la novità è la ripetizione della preghiera come una devota litania. Più tardi, alla fine del XV° secolo, si diffonderà l’uso della seconda parte dell’Ave Maria (Santa Maria Madre di Dio…: fu il Concilio di Efeso del 431 a definire la maternità divina di Maria) con l’aggiunta del Nome Gesù al centro delle due parti. Ci si chiese: perché non mettere il Nome di Colui che è dichiarato Benedetto? S.Paolo infatti, nella lettera ai Filippesi, afferma che il Nome di Gesù è al di sopra di ogni altro nome e dinanzi al Quale occorre prostrarsi (cf. Fil 2,10). Le Ave Maria sostituirono i Pater ed ecco quindi la trasformazione del Salterio biblico in un “salterio semplice”, o “salterio mariano”, recitabile da chiunque.

Nel XIV° secolo il certosino Enrico di Kalkar operò un’ulteriore suddivisione del “salterio mariano” dividendolo in 15 decine e inserendo, tra una decina e l’altra, il Padre Nostro. Inoltre in quell’epoca si diffuse la tradizione che il Rosario fu istituito da s.Domenico, fondatore dell’Ordine mendicante dei Domenicani, tradizione portata avanti da Alano de la Roche, domenicano anch’egli. Tale tradizione ha buoni motivi di veridicità in quanto il Rosario si diffuse dal Medioevo in poi grazie all’Ordine Domenicano che lo usava per la predicazione e per le missioni popolari. Nel XV° secolo, nell’ambiente certosino, nasce la proposta di recitare una forma di salterio mariano ridotta, con 50 Ave Maria, ma a ciascuna di esse era aggiunta una clausola o specificazione inerente la vita di Gesù. Si cominciò così a meditare sui misteri evangelici coniugando preghiera vocale e orazione mentale. Grazie all’ambiente certosino e ai domenicani la pratica si allargò grandemente anche a causa delle confraternite laiche mariane ormai numerose. Tra il popolo il Rosario ebbe grande favore e la formula si semplificò ulteriormente nel XVI° secolo quando il domenicano Alberto da Castello (gli storici però discutono su questa paternità) scelse 15 misteri tra i tanti ormai esistenti della vita di Gesù e Maria proponendoli alla meditazione e portando il Rosario alla forma moderna che conosciamo oggi. Un manoscritto del 1501 riportava, come una sintesi storica, queste parole: “Il Rosario ha avuto la sua origine principale dall’ordine di s.Benedetto (in particolare la riforma dei Cistercensi), si è rafforzato con i Certosini, ultimamente ha preso sviluppo dall’ordine dei Predicatori (Domenicani)“. Lo “strumento” della corona per pregare, invece, ha un’origine antica risalente ai Padri del Deserto del III° e IV° secolo dopo Cristo, che usavano cordicelle o stringhe per la preghiera ripetitiva.

Una tappa fondamentale per la diffusione della pratica mariana è sicuramente la battaglia di Lepanto (dentro i territori dell’Impero Ottomano, nell’attuale Grecia) tra la flotta cristiana e quella turca. Nel XVI° secolo i turchi sono fortissimi e avanzano all’interno della Cristianità quasi senza sconfitte avendo come obiettivo di innalzare la mezzaluna a Roma. Il papa S.Pio V, preoccupato per la situazione, riesce a riunire sotto le insegne della croce una flotta composta da galee pontificie, spagnole e della Repubblica veneta mentre i francesi erano presenti con alcuni cavalieri volontari. A capo della flotta cristiana viene chiamato Giovanni d’Austria. Individuata la flotta turca nelle acque di Lepanto i cristiani la raggiungono il 7 ottobre 1571 e così avviene la battaglia decisiva per la Cristianità contro l’Impero Ottomano. Intanto S.Pio V invita tutti alla preghiera del Rosario (che lui stesso consacrò nella forma sostanzialmente in uso al giorno d’oggi con la bolla Consueverunt romani Pontifices del 1569), a fare processioni pubbliche e penitenze, e quando ancora non poteva sapere della vittoria ne dà l’annuncio facendo suonare tutte le campane di Roma e decretando che la flotta cristiana ha vinto grazie all’intercessione della Madonna del Rosario. Il papa inserì nelle litanie l’invocazione di Maria come Auxilium Christianorum e decretò che il 7 ottobre fosse commemorata S.Maria della Vittoria. Fu poi papa Gregorio XIII che istituì il 7 ottobre come festa della Madonna del Rosario.

Un’altra decisiva tappa per la diffusione della preghiera mariana fu il 12 settembre 1683, quando il re polacco Giovanni Sobieski sconfisse a Vienna i Turchi e impedì definitivamente la conquista all’Islam dell’occidente Cristiano. In questa occasione il pontefice Innocenzo XI istituì la festa del Nome di Maria il 12 settembre.

Nell’epoca contemporanea non si può non fare riferimento alle grandi apparizioni mariane. A Lourdes, sui Pirenei nel sud della Francia, la Vergine appare nel febbraio del 1858 a s.Bernadetta Soubirous con la corona del Rosario in mano invitando tutti alla preghiera e alla penitenza, e a Fatima nel 1917 dove la Madonna fa un appello urgente, attraverso i tre veggenti Lucia Francesco e Giacinta (questi due ultimi beatificati da papa Giovanni Paolo II), alla preghiera del Santo Rosario meditato, alla penitenza, alla comunione riparatrice dei primi 5 sabati del mese e alla devozione al Cuore Immacolato di Maria. Il 13 luglio 1917 la Madonna apparendo disse: “Voglio che veniate qui il giorno 13 del mese prossimo, che continuiate a recitare tutti i giorni il rosario in onore della Madonna del Rosario, per ottenere la pace del mondo e la fine della guerra, perché soltanto lei ve la potrà meritare”. Queste parole, più che mai attuali, indicano come il Signore, attraverso Maria, è sempre stato premuroso verso i suoi figli che però, purtroppo, non vogliono ascoltare la sua voce e ne pagano conseguenze durissime.

È importante, inoltre, un accenno al magistero pontificio degli ultimi decenni. Numerosissimi sono i documenti papali che riguardano il Rosario e più di ogni altro fu Leone XIII, chiamato il Papa del Rosario, a diffondere tale pratica. Portano la sua firma 12 lettere encicliche dedicate alla preghiera mariana. Consacrò ad essa il mese di ottobre ed il suo impegno in questo senso fu per aiutare i cristiani a “superare l’avversione al sacrificio e alla sofferenza ponendo la propria fede e il proprio sguardo sulle sofferenze di Cristo; l’avversione alla vita umile e laboriosa si supera da parte del cristiano meditando sull’umiltà del Salvatore e di Maria; l’indifferenza verso i misteri della vita futura e l’attaccamento ai beni materiali si guariscono meditando e contemplando i misteri della gloria di Cristo, di Maria e dei santi” (cit. in Nuovo Dizionario di Mariologia, voce Rosario, p.1209). Pio XII scrisse l’enciclica Ingruentium malorum, del 15 settembre 1951, con l’invito a confidare nella Vergine soprattutto nei momenti più difficili e a recitare il Rosario per custodire la concordia in famiglia, per far crescere le virtù cristiane, per implorare la pace, il rispetto dei diritti della Chiesa e per ottenere conforto ai malati e ai diseredati. Il Beato Giovanni XIII fece del Rosario parte integrante della sua spiritualità, così come Paolo VI che, nella Marialis cultus (2 febbraio 1974), descrive gli elementi costitutivi del Rosario ripresi anche nella Rosarium Virginis Mariae da Giovanni Paolo II: il Rosario come compendio del Vangelo, come preghiera contemplativa e cristologica.

Concludo questa sintesi con una citazione dalla Rosarium Virginis Mariae dove il regnante pontefice, oltre a rinnovare la pratica integrando i misteri gaudiosi dolorosi e gloriosi con quelli della luce, riprende una frase dell’inizio del suo pontificato (1978) e manifesta in pienezza il suo cuore mariano: “Il Rosario è la mia preghiera prediletta. Preghiera meravigliosa! Meravigliosa nella sua semplicità e nella sua profondità” (n.2).

BIBLIOGRAFIA

Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, 16.10.2002.

F.M. Willam, Storia del Rosario, trad. it., Orbis catholicus, Roma 1957.

S. Orlandi, Libro del rosario della gloriosa Vergine Maria (studi e testi),:Centro internazionale domenicano del rosario, Roma 1965.

Stefano De Fiores e Salvatore Meo (a cura di), Nuovo Dizionario di Mariologia, voce Rosario, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1985.

Massimo Introvigne, La meravigliosa storia del Rosario, in Cristianità, 275-276 (1998).

La preghiera nella Chiesa

di don Giovanni Poggiali
“Il Timone” – Gennaio 2009

La Chiesa è il corpo di Cristo, come dice san Paolo: “Egli [Cristo] è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col 1,18). Pur essendo, come il corpo, costituita da molte membra la Chiesa è Una ed è unita inscindibilmente al suo Signore che è il Capo. Il primato di Cristo, questa signoria che è il suo Regno, Egli lo estende a tutto il mondo per mezzo della Chiesa, prefigurata nell’Antico Testamento, e in essa dilata la preghiera che è comunione con Lui e che diviene autentica preghiera cristiana perché trova in Lui la propria origine. La preghiera, che è il tratto più profondo e rivelativo del rapporto tra Gesù e il Padre, viene donata alla Chiesa la quale risponde all’amore del Signore mediante il proprio amore e il proprio desiderio, manifestando pienamente al mondo ciò che essa è, ciò che essa crede.

Attraverso la Tradizione, che è comunicazione e trasmissione vivente di Gesù Cristo e del suo insegnamento (si può dire che è la Chiesa la viva Tradizione), lo Spirito Santo insegna la preghiera nella Chiesa: lo Spirito di Cristo ci suggerisce come pregare e cosa domandare e ci dona la libertà di pronunciare: “Abbà, Padre” (cf. Rom 8,15; Gal 4,6) ponendoci, come figli adottivi, in relazione con Dio. Questa comunione avviene massimamente nella Liturgia, opera di Dio, in cui “Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’Eterno Padre” (Sacrosanctum Concilium, 7). La Liturgia, esercizio del culto divino, realizza e manifesta la Chiesa come segno visibile di tale comunione tra Dio e gli uomini.

Non si può, allora, cercare e trovare la fonte della preghiera nella Chiesa se non in Gesù Cristo: Egli prega il Padre, spesso nel silenzio della notte e prima di ogni decisione importante o scelta decisiva, e diviene per noi sorgente e modello di preghiera. Pensiamo alla Sua preghiera nel Battesimo (cf. Lc 3,21), prima della vita pubblica nei 40 giorni di deserto (cf. Lc 4), prima della scelta degli Apostoli (cf Lc 6,12-13), prima della sua Passione (cf Lc 22,39-46)… Così, in Cristo, Dio manifesta il proprio volto: l’uomo si comprende ed è compreso solo nella relazione personale con Dio e tale relazione ha il suo luogo principale nella preghiera, la quale diventa un ascoltare e un parlare con Dio che rivela l’uomo a sé stesso. Pregando, l’uomo compie un atto “divino”, perché entra in comunicazione con Dio, si abbandona a Lui e si lascia amare da Dio per amare i fratelli. Quale povertà la mancanza di preghiera nell’uomo! Quale aridità l’assenza di una vita spirituale: Gesù ci insegna infatti che occorre pregare sempre senza stancarci (cf. Lc 18,1).

Un giorno, mentre Gesù era in preghiera e dopo che ebbe finito, uno dei discepoli gli chiese di insegnare loro a pregare. Gesù pronunciò la preghiera del Padre Nostro, la sintesi di tutto il Vangelo come la chiamerà Tertulliano (De oratione, 1). Questa preghiera, scaturita dallo stesso Figlio di Dio – dal suo cuore e dalle sue labbra -, indica che l’autentica preghiera cristiana è personale ma ha anche una dimensione comunitaria (Padre nostro): “Nell’atto del pregare, l’aspetto esclusivamente personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi” (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, 158). Anche quando l’uomo prega nel segreto della sua camera, ossia nell’intimo del proprio cuore, è preghiera della Chiesa, perché la nostra vita non può mai essere dissociata dai nostri fratelli, essendo figli dello stesso Padre ed essendo rigenerati dallo stesso Sangue del Verbo incarnato. Chi prega, lo fa anche per chi non prega. Non dobbiamo desiderare la salvezza solo per noi.

Tale preghiera comunitaria si manifesta in varie forme nella Chiesa: la preghiera di benedizione esprime l’incontro tra Dio, fonte di ogni benedizione, e l’uomo che risponde nel suo cuore: bene-dicere, dire bene. Dio fa questo con la Sua presenza e provvidenza. Egli ci benedice nei cieli in Cristo (cf. Ef 1,3) e invita noi a bene-dire (di) Lui che ci ama (qui si comprende la gravità della bestemmia). La preghiera di adorazione esprime la nostra creaturalità, la nostra dipendenza da Dio, l’Unico che si deve adorare esaltandone la grandezza, la misericordia, l’onnipotenza, bandendo gli idoli dal nostro cuore. Ma esprime e manifesta anche l’intimità stessa di Dio che è Trinità, un Dio in cui il Figlio è rivolto sempre verso il Padre e la cui esistenza filiale può essere intesa come una grande preghiera offerta al Padre nello Spirito Santo. La domanda esprime la forma più comune e abituale di preghiera per l’uomo che entra in relazione con Dio. Gesù stesso invitava a domandare insistentemente: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Mt 7,7-8). Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che “in Cristo risorto, la domanda della Chiesa è sostenuta dalla speranza” (2630). Noi chiediamo aiuto a Dio, per noi e per i fratelli, perché speriamo nel suo perdono e perché desideriamo che venga il suo Regno. Esiste una gerarchia nella domanda, che non si riduce solo alla richiesta di “cose” materiali, pur importanti, ma implora anzitutto lo Spirito Santo, vita stessa di Dio e respiro del Suo amore. La preghiera di intercessione ci rende conformi a Cristo, intercessore per noi peccatori presso il Padre. Colui che intercede si preoccupa delle necessità di un altro: è un grande atto di misericordia, una delle più belle beatitudini – Beati i misericordiosi (Mt 5,7) – e ci avvicina ai Patriarchi (pensiamo all’intercessione di Abramo e di Mosè). Ci rende simili anche al cuore di Maria, la Madre di Gesù, che intercede sempre per noi suoi figli. La preghiera di ringraziamento è il primo movimento che scaturisce da un cuore grato e riconoscente per tutti i doni di Dio: “Tutto proviene da Dio” (1 Cor 11,12), dice san Paolo che aggiunge: “Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto?” (1 Cor 4,7). Ogni dono ci giunge dall’amore di Dio ed è per questo che è frutto di umiltà rendere grazie in ogni cosa (cf. 1 Ts 5,18). Infine, la preghiera di lode. Lodare Dio significa riconoscerlo per ciò che Egli è, lodare è lo stupore per le Sue meraviglie: “Siate ricolmi dello Spirito intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore”. Ecco la lode a Dio!

Tutte queste forme di preghiera nella Chiesa sono realizzate ed espresse dalla Liturgia, in particolare dall’Eucaristia, nella quale rendiamo grazie al Padre per il sacrificio del Figlio che viene offerto e si offre in espiazione per salvarci dai nostri peccati. Nella Liturgia noi adoriamo Dio, lo ringraziamo, lo lodiamo, impetriamo e benediciamo Colui dal Quale siamo amati e benedetti. La preghiera liturgica, rivolta al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo, è comunione con la Trinità Santa, mistero d’amore rivelato a noi da Gesù e comunicato alla Chiesa per l’evangelizzazione del mondo. La preghiera nella Chiesa e della Chiesa ci pone in relazione con tutto questo e ci guida verso l’intimità con Cristo, sorgente e culmine della vita cristiana. Parlando di Origene (vissuto tra il II e il III secolo) e dei suoi scritti sulla preghiera, papa Benedetto XVI ha detto: “A suo parere, infatti, l’intelligenza delle Scritture richiede, più ancora che lo studio, l’intimità con Cristo e la preghiera. Egli è convinto che la via privilegiata per conoscere Dio è l’amore, e che non si dia un’autentica scientia Christi senza innamorarsi di Lui” (Udienza generale, 2 maggio 2007). Questo è il termine e lo scopo dell’azione della Chiesa: innamorarsi di Cristo per fare innamorare di Cristo.

Chi più dei santi ha vissuto questa esaltante esperienza? Nella comunione dei santi, la Chiesa pellegrina sulla terra è unita a quella del Cielo dove i nostri fratelli glorificati intercedono per noi e ci fanno da guida. Questa “nube di testimoni”, come la chiama il Catechismo, ha combattuto il buon combattimento della preghiera e della fede, a cominciare dai giusti dell’Antico Testamento e da Maria Madre di Gesù. Le grandi e diverse spiritualità scaturite dall’esperienza spirituale dei santi, contribuiscono a formare la grande Tradizione della Chiesa e ci indicano una via. Proverbiale fu l’esperienza di santa Teresa d’Avila che disse: “L’orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” (Libro della mia vita, 8). La preghiera deve superare tante difficoltà – tentazioni, pigrizia, accidia, distrazioni, aridità – ma, alla fine, è una questione di desiderio, di amore, di volontà. Sant’Alfonso Maria de Liguori, a questo riguardo, dirà che “chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna” (Del gran mezzo della preghiera)….

I santi ci insegnano ciò che più è importante nella nostra vita e anche nella vita della Chiesa: il rapporto con Dio, il desiderare un’intimità profonda con Lui, il cercarlo con ferma fiducia. Questa è la via alla santità cristiana, cioè alla perfezione dell’amore, al vivere straordinariamente bene le cose ordinarie. Questo procura la vera gioia. Gesù stesso ce lo ha insegnato con la Sua vita. Infatti, “si prega come si vive, perché si vive come si prega”…(CCC 2752).

Infine, è la Chiesa stessa che ci offre tutti quei mezzi che ci conducono alla santità e all’incontro con il Signore: la celebrazione della Santa Messa, l’adorazione eucaristica, la devozione alla Madonna – soprattutto la recita del Rosario –, la lettura quotidiana della Sacra Scrittura, la confessione frequente e l’esperienza dei Santi. Così, noi membra della Chiesa, possiamo giungere a contemplare quel Dio che desidera unirsi con noi per farci partecipare al banchetto di nozze dell’Agnello (cf. Ap 19,9) dove Dio stesso, dono inaudito, passerà a servirci (cf. Lc 12,37).

BIBLIOGRAFIA

Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp. 157-201.

Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), dal n. 2559 al n. 2758.

La Chiesa offre il perdono di Dio

di don Giovanni Poggiali

Già Pio XII (1939-1958) diceva che “il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato” (citato da Giovanni Paolo II [1978-2005] nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Reconciliatio et Paenitentia [RP] del 1984, n.18). La perdita del senso morale, l’attenuarsi della capacità di distinguere il bene dal male, l’oscuramento della coscienza, sembrano essere una caratteristica dominante del nostro tempo che giunge ad accettare nella mentalità comune, nel costume e nelle leggi, addirittura il rifiuto del fondamentale diritto alla vita della persona.

Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Evangelium vitae (EV) sul valore e inviolabilità della vita umana, scrisse queste significative parole rivolgendosi alle donne, dopo aver ribadito la gravità morale dell’aborto procurato che appare in tutta la sua verità se si riconosce che si tratta di un vero e proprio omicidio (cf. EV 57): “Un pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso all’aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s’è trattato d’una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro animo non s’è ancora rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non l’avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della Riconciliazione. Allo stesso Padre e alla sua misericordia potete affidare con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l’accoglienza e l’attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell’uomo” (EV 99).

In questo intervento magisteriale del 1995, la Chiesa mostrava la sua costante maternità, la sua tenerezza e la sua comprensione per l’umana fragilità, per il peccato, ma manifestava anche la verità delle cose indicando l’aborto come “l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita” (EV 58). Il Papa, nel suo accorato intervento, voleva certamente unire il riconoscimento della estrema gravità del peccato di aborto (al quale, non dimentichiamolo, è associata la scomunica latae sententiae, cioè immediata, cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2272), con la manifestazione della misericordia del Padre verso qualsiasi colpa, anche grave, colpa che rimane sempre più piccola rispetto alla grandezza del Cuore di Dio. E certamente, lo si evince dalle sue parole, Giovanni Paolo II aveva presente quella grande sofferenza che colpisce le donne che hanno abortito, la sindrome post-aborto, dopo l’eliminazione del bambino dal loro grembo, sindrome che comporta stress prolungati, sensi di colpa, angoscia, solitudine, addirittura in qualche caso istinto suicida, con un bisogno di riparazione verso quel bambino che non c’è più, per aver distrutto il legame affettivo e fisico, unico in natura, tra la madre ed il figlio. Queste donne, per paura della condanna, si allontanano dalla Chiesa e dalla fede, cambiano abitudini sociali ed affettive, e manifestano problemi di relazionalità. Ma, come scrive Maria Luisa Di Pietro – co-presidente dell’associazione Scienza e Vita – “l’impegno dei medici e della società non deve essere quello di rendere l’aborto più facile, quanto piuttosto di offrire alla donna valide alternative ad una scelta così dolorosa per lei e causa di morte di tante vite umane” (Aborto, Edizioni Viverein, Roma-Monopoli 2009, p.73).

Quale è allora il compito della Chiesa verso la donna che ha abortito? Il mandato ricevuto da Cristo, che è uno degli stessi compiti primari della Chiesa, è “la riconciliazione dell’uomo: con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato” (cf. RP 8). Attraverso la Chiesa, la donna che ha sbagliato può ottenere la misericordia di Dio convertendosi con un autentico pentimento. Questo cambiamento del cuore, che investe tutta la persona – pensieri, parole, azioni –, deve trasformarsi in veri gesti d’amore, che mostrino il desiderio di riparare il male compiuto. Solo in questo modo, con il dono della grazia del perdono e dell’infinita misericordia di Dio, la donna (e qualsiasi persona che abbia commesso un peccato grave) può riconciliarsi con il Signore e con se stessa, ristabilendo un rapporto personale d’amicizia con Dio, senza il quale non c’è vera ed autentica vita, recuperando l’autostima e il rapporto di piena identità e integrità con se stessa. È necessario, quindi, chiedere il perdono di Dio. Ancora, nella Reconciliatio et Paenitentia, Giovanni Paolo II scriveva che “la riconciliazione (…) per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue più profonde radici” (4). L’unico modo per allontanarsi dal peccato è la conversione, il pentimento, l’autentica contrizione: “La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano” (idem). La riconciliazione con Dio, con se stessi, con i fratelli e con tutto il creato non è possibile senza una conversione personale profonda del cuore, e questo è sempre un dono di Dio che deve incontrare la libera volontà dell’essere umano: “Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,18-19). Ecco il compito della Chiesa.

Purtroppo, in molta parte dell’opinione pubblica, la Chiesa è vista come nemica delle donne e sembra non desideri per loro una vera ed autentica liberazione. L’immagine di severità e di “integrismo”, viene applicata ad arte alla Chiesa da alcuni media che, proiettando così un’immagine falsata della stessa nella mente e nel cuore delle persone, la presentano come causa di molti mali della nostra vita, quasi che senza di essa saremmo più liberi. Ma la Chiesa non si preoccupa soltanto di proteggere la vita di coloro che non sono ancora nati. Essa ha a cuore il destino di ogni uomo, soprattutto di coloro che sono i poveri tra i più poveri. La grande povertà di una donna che ha abortito, perdendo nel figlio una così grande ricchezza, spinge la Chiesa ad offrire il perdono, la misericordia, la cura costante per non abbandonare chi ha peccato magari solo per ignoranza o per diversi condizionamenti. Vari e importanti progetti di accompagnamento umano, spirituale e psicologico, sono stati realizzati e sono portati avanti nel corpo ecclesiale per iniziativa di sacerdoti e laici impegnati nella difesa della cultura della vita (pensiamo, ad esempio, al “Movimento per la vita” italiano o al “Progetto Rachele” in America). Questi programmi di impegno per la guarigione delle donne che hanno abortito, per salvarle da un dolore autodistruttivo, questi progetti di orientamento verso un’autentica cultura della vita, sono presenti in varie parti del mondo grazie all’amore e all’entusiasmo di tante persone, uomini e donne. Tramite questi itinerari si giunge alla guarigione di ferite profonde, soprattutto a perdonare se stessi, che è la cosa più difficile in colei che ha praticato l’aborto. Molte donne che avevano abortito, una volta recuperate con il perdono e vinto il senso di colpa, diventano attive sostenitrici del diritto alla vita, riscattandosi pienamente. Se solo pensiamo alla famosa sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America Roe contro Wade – del 1973, che ha sancito il diritto di aborto rovesciando così le leggi statali e federali che proibivano o restringevano l’aborto stesso – ci troviamo di fronte alla signora Norma Leah McCorvey che, con lo pseudonimo legale di Jane Roe, fu usata da abili avvocati per introdurre la libertà di aborto negli Stati Uniti. Oggi, questa signora, è un’attivista antiabortista convertita alla Chiesa Cattolica e dice che la Grazia di Dio può guarire il cuore delle donne vinte dall’amore.

Romano Guardini (1885-1968), nel lontano 1949, poneva il punto di vista decisivo sulla questione dell’aborto: “La vita dell’uomo non può essere violata perché l’uomo è persona. Persona significa capacità di autodominio e di responsabilità personale, capacità di vivere nella verità e nell’ordine morale. La persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall’anima spirituale che è in ogni uomo” (Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana, Brescia 2005, p.17). L’anima spirituale immortale, creata da Dio, è posta nella madre che deve far crescere, tutelare e proteggere il bambino, corpo e anima. Egli ha diritto di amare, ha diritto di ricevere la vita, perché la donna dà la vita. Questo bambino, pur essendo “in immediato rapporto con la madre, (…) formandosi si sottrae a lei seguendo la propria destinazione interiore” (idem). La Chiesa sa e crede che tale destinazione, come per la madre, è Dio, la Vita eterna. A Lui la vita appartiene. E la madre deve lasciare che tale destinazione giunga a compimento. Per le donne che rifiutano questo c’è la misericordia, il perdono, la riconciliazione, se solo esse aprono il cuore, perché la Chiesa ha il dovere di annunciare che non esiste peccato che non possa essere perdonato da Colui che è morto per noi peccatori e il cui amore ci possiede (cf. 2 Cor 5,14). Il perdono e la guarigione dopo l’aborto sono possibili. Condannare l’aborto non significa condannare le persone che l’hanno compiuto, ma occorre riconoscere la realtà e dare al dolore interiore una valida espressione. Dio amerà ancora la donna che ha praticato l’aborto e le dice: “Io ti amerò sempre, và e d’ora in poi non peccare più” (cf. Gv 8,11).

Bibliografia

Catechismo della Chiesa Cattolica, dal n. 2270 al n. 2275.
Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium Vitae, 25 Marzo 1995.
Maria Luisa Di Pietro, Aborto, Edizioni Viverein, Collana “Le Chiavi”, Roma-Monopoli 2009.
Romano Guardini, Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana, Brescia 2005.
Antonio Socci, Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti, Piemme, Casale Monferrato 2006.

Le parti della santa Messa (II)

Don Giovanni Poggiali
pubblicato su “Il Timone” n. 27 (sett.-ott. 2003)

“Le parti che costituiscono in certo modo la messa, cioè la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, sono congiunte tra loro così strettamente da formare un solo atto di culto” (Sacrosanctum Concilium, n.56). Come indica il Concilio Vaticano II le due parti principali della celebrazione eucaristica sono certamente distinte come due mense da cui cibarsi, ma sono unite così strettamente che non potrebbero essere separate: liturgia della parola e liturgia eucaristica, parola di Dio e segni sacramentali del pane e del vino, che sono Carne e Sangue di Gesù. Illuminante è sant’Agostino quando commenta la richiesta nel Padre Nostro “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”: “L’Eucaristia è il nostro pane quotidiano… ma anche ciò che vi spiego è pane quotidiano e così anche le letture che ascoltate ogni giorno in chiesa è pane quotidiano e l’ascoltare e recitare inni è pane quotidiano” (Sermo 57,7). Questo Pane quotidiano è il Signore: è Cristo che parla quando la liturgia proclama le letture sacre, è Cristo che si dona a noi nel suo Corpo dato e nel suo Sangue versato quando nella liturgia si ricevono il pane e il vino consacrati.

Se il sacrificio eucaristico è “fonte e culmine di tutta la vita cristiana” (Lumen Gentium, n.11) diventa importante conoscere e comprendere come è nata la santa Messa e come si sono formate le parti della fractio panis (frazione del pane, come anticamente veniva chiamata la Messa insieme a Cena del Signore e ad altri nomi che si danno a tale sacramento: cf. CCC n.1328-1332).

Certamente il punto di partenza è il gesto di Gesù nell’Ultima Cena dove il Signore ha istituito l’Eucaristia e il sacramento dell’Ordine per perpetuare nella storia il suo unico Sacrificio sul Calvario. I Vangeli descrivono il fatto in diverse redazioni (Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; Lc 22,14-20) e anche s.Paolo (1 Cor 11,23-25) e ciò che è importante è che la Cena di Gesù con i discepoli avviene all’interno della cornice celebrativa della pasqua ebraica dove veniva immolato e mangiato l’agnello per la festività: ora questo agnello è Cristo stesso che si immolerà sulla croce per la salvezza di tutti gli uomini e per costituire la nuova Alleanza nell’amore. L’invito di Gesù a continuare il suo gesto ( “Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me” – Lc 22,19) è il segno della volontà di Cristo di essere presente nell’Eucaristia fino alla consumazione dei secoli.

La liturgia cristiana ebbe quindi il suo fondamento nella liturgia ebraica che a sua volta richiama il momento della Pasqua storica dell’Esodo, la liberazione dalla schiavitù egiziana e l’Alleanza con Dio. Presto, però, la liturgia cristiana si stacca da quella ebraica e anche il giorno di culto significativamente non è più il sabato: “Soprattutto “il primo giorno della settimana” cioè la domenica, il giorno della Risurrezione di Gesù i cristiani si riunivano “per spezzare il pane” (At 20,7). Da quei tempi la celebrazione dell’Eucaristia si è perpetuata fino ai nostri giorni, così che oggi la ritroviamo ovunque nella Chiesa, con la stessa struttura fondamentale. Essa rimane il centro della vita della Chiesa” (CCC n.1343). Qual’è dunque questa struttura?

Si comincia dai riti di ingresso o di introduzione. Anticamente non c’erano perchè si iniziava, dopo l’essersi radunati, dalle letture degli Apostoli e dei profeti (cf s.Giustino, Apologiae, 1,65.67 cit. in CCC n.1345). Poi, quando il clero si fece numeroso, si organizzò la processione accompagnata dal canto (siamo nel V-VI secolo), fino all’altare. La processione iniziale, come le altre previste nel corso della Messa (per esempio la presentazione delle offerte e la comunione), sono accompagnate dal canto perchè nell’unione delle voci sia assicurata l’unione dei cuori. I riti di ingresso comprendono il saluto del celebrante, l’atto penitenziale, il Kyrie eleison, il Gloria e l’orazione o Colletta. Il sacerdote saluta anzitutto Cristo tramite il bacio dell’altare che rappresenta il Signore, quindi con il segno di croce inizia la celebrazione nel ricordo di Dio Trinità e del Battesimo con cui siamo stati inseriti in Cristo e nella Chiesa suo Corpo. L’atto penitenziale è la richiesta di perdono a Dio da parte della comunità per essere nella disposizione di cuore più giusta al fine di accedere ai divini misteri. Deriva da formule di preghiera medievali chiamate apologie con cui il sacerdote confessava la propria colpevolezza in forma privata (risalgono al IX secolo). Segue l’acclamazione del Kyrie eleison (Signore pietà) e l’antichissimo inno del Gloria in excelsis Deo che era presente nella liturgia fin dal IV-V secolo: è un inno di glorificazione e di lode. I riti di ingresso sono conclusi dalla Colletta, chiamata anche oratio nella liturgia romana. É difficile determinarne l’epoca di ingresso nella Messa. É la preghiera con cui il sacerdote raccoglieva (da colligere=raccogliere) le intenzioni personali dei fedeli nella pausa di silenzio prima della preghiera stessa ed inoltre il contenuto della Colletta commenta anche la Messa del giorno.

Dopo i riti di ingresso comincia la liturgia della parola che insieme alla liturgia eucaristica è come il doppio vertice della Messa. La parola di Dio non può mai mancare nella celebrazione dei sacramenti perchè essa illumina il sacramento stesso e rende visibile l’efficacia di salvezza. S.Cesario di Arles (470-542) diceva: “Colui che avrà ascoltato con negligenza la parola di Dio non sarà meno colpevole di colui che, per la propria negligenza, avrà fatto cadere a terra il Corpo di Cristo” (Sermo 78,2). La liturgia della Parola comprende le seguenti parti: prima lettura o profezia, salmo responsoriale, seconda lettura o Apostolo, Canto al Vangelo, Vangelo, Omelia, Il Credo o professione di fede, la preghiera universale o dei fedeli. Le letture sono ricavate dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Come nel dialogo tra due persone è presente l’ascolto e la risposta così avviene nel rapporto con Dio: il salmo responsoriale e il canto al Vangelo sono le risposte dei fedeli all’annuncio di salvezza proferito. Il Vangelo è il momento più alto di questo dialogo. Da sempre la sua proclamazione è circondata da rispetto e venerazione: la benedizione chiesta dal ministro incaricato, l’incensazione, la processione prima della lettura, la posizione in piedi dei fedeli. É Cristo che parla e che ci annuncia la Buona Novella: ecco perchè occorre alzarsi in segno di rispetto e orientarsi verso l’ambone o il pulpito da dove viene letto (o cantato) il Vangelo.

Con la liturgia eucaristica viene reso presente il sacrificio di Cristo sulla croce ma non ripetuto, perchè il sacrificio è unico. Questa parte della Messa comprende la presentazione dei doni, con cui sono portati all’altare pane e vino con acqua, gli stessi elementi usati da Gesù nell’Ultima Cena. Fin dall’antichità i cristiani portavano i propri doni all’altare per condividerli con chi era in necessità. Tale è l’antico significato dell’odierna raccolta delle offerte. Con la preghiera eucaristica o anafora siamo al culmine della celebrazione. Anticamente le parole venivano affidate alla spontaneità e alla preparazione del sacerdote che presiedeva l’Eucaristia. Ma già all’inizio del III secolo Ippolito Romano compose uno schema fisso. La preghiera eucaristica è formata dal prefazio, in cui la Chiesa rende grazie al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo, per tutte le sue meraviglie. Il prefazio termina con il Sanctus, lode incessante che la chiesa celeste canta al Dio tre volte Santo (cf Is 6,3). Quindi l’epiclesi, cioè la richiesta al Padre di inviare lo Spirito Santo affinchè il pane e il vino diventino Corpo e Sangue di Cristo e perchè i fedeli siano una cosa sola in un unico Spirito. Il racconto dell’istituzione ripete le parole efficaci di Gesù che rendono presente l’unico sacrificio del Calvario (Questo è il mio Corpo; questo è il mio Sangue). Infine l’anamnesi, con cui la Chiesa fa memoria della Passione Risurrezione e Glorificazione di Cristo, e le intercessioni per i vivi e per i defunti. La preghiera eucaristica è una grande sintesi del disegno di salvezza di Dio e del suo amore per gli uomini perchè “non viviamo più per noi stessi ma per Lui che è morto e risorto per noi” (preghiera eucaristica IV). In questa parte della Messa il fedele si inginocchia perchè Cristo è realmente presente dopo la consacrazione e perché “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10).

Al termine abbiamo i riti di comunione che comprendono il Padre Nostro, la preghiera della pace che è presente fin dai primissimi tempi della Chiesa e collocata prima della liturgia eucaristica (come nell’attuale rito ambrosiano), la fractio panis e l’Agnus Dei: l’unico Pane viene spezzato e diviso fra tutti e indicato come il vero Agnello che è morto e risuscitato per noi. Quindi la comunione sacramentale, auspicata e raccomandata per una partecipazione piena al mistero celebrato perchè “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54). I riti di conclusione, con la benedizione del celebrante ed il congedo terminano la celebrazione eucaristica. Ora occorre vivere ciò che si è celebrato nella fede. La Messa deve diventare vita, amore, missione. La vita di Cristo viene “spezzata” per noi e anche noi dobbiamo offrirla, donarla, “spezzarla” per gli altri. Senza questa risposta personale non possiamo dirci pienamente e consapevolmente cristiani.

Giovanni Paolo II ripete spesso che la Messa è il cuore della sua giornata. É così anche per noi? Se non amo la Messa vuol dire che non amo veramente il Signore. I santi lo insegnano: “É più facile che la terra si regga senza sole che senza Messa” ripeteva san Pio da Pietrelcina.

 

BIBLIOGRAFIA

P.Visentin – D.Sartore, voce Eucaristia, in Domenico Sartore C.S.J., Achille M. Triacca S.D.B. e Carlo Cibien S.S.P. (a cura di), Liturgia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2001, pp. 736-760.

Righetti Mario, Manuale di storia Liturgica. La Messa, vol.III, Editrice Ancora, Milano 1966-1998 (ed.anastatica).

Schnitzler Theodor, Il significato della Messa. Storia e valori spirituali, Città

Nuova Editrice, Roma 19933.

Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), nn. 1345-1355.