Il pensiero del giorno

Mons. Aldo Forzoni

Mons. Aldo Forzoni, Vescovo emerito di Apuania

Montevarchi, 18 agosto 1912 – Massa, 7 dicembre 1991

 

di Emanuele Borserini

 

 

Breve biografia

Aldo Forzoni nacque a Montevarchi, in diocesi di Fiesole e provincia di Arezzo, il 18 agosto 1912 da una famiglia di modeste condizioni: il padre Pasquale era salariato artigiano e la madre Igina Mirri sarta. Entrò in seminario nel 1930 a diciotto anni, a dire il vero, piuttosto tardi per le usanze dell’epoca, in quanto nel 1924, alla sopravvenuta disoccupazione del padre, dovette sopperire alle necessità della famiglia con il proprio lavoro presso la distilleria Borghini dove, per la sua intelligenza e fedeltà passò presto ad essere l’uomo di fiducia del proprietario. Forte di questa esperienza che aveva accolto con cristiana accettazione, parlando da Vescovo agli operai diceva loro: “La vostra vita la conosco. Sette paia di scarpe ho consumato. Sette fiaschi di lacrime ho colmato. Soffrite solo quello che si deve e non più. La fatica e il sacrificio della vita non vanno inquinati con il desiderio smodato di ciò che non si può raggiungere o con l’odio per i fratelli che appaiono in condizioni privilegiate”. Nel frattempo, inoltre, si preparava al radioso futuro studiando la sera sotto la guida del parroco che in lui già scorgeva la santa vocazione sacerdotale. E così, a conclusione di un brillante corso di studi, venne ordinato il 31 maggio 1940, all’età di ventotto anni. Le meditazioni degli ultimi tre anni di preparazione al sacerdozio furono da lui stesso raccolte in un appassionante libretto, “Quaderni ingialliti”, da cui emerge tutto il suo desiderio di essere sacerdote secondo il Cuore di Maria.

Dopo un breve ministero quale Cappellano della Cattedrale di Fiesole, venne trasferito come Vicario cooperatore in aiuto del vecchio parroco di Gaville e di qui quale vice Parroco a S. Giovanni Valdarno. Nell’immediato dopoguerra, il Vescovo Giovanni Giorgis con grande coraggio lo nominò, seppur giovanissimo per età ed esperienza pastorale, Preposto dell’importante parrocchia di S. Lorenzo in Montevarchi. Qui, circa quindici anni prima del Concilio Vaticano II, don Aldo dette vita a forme alquanto nuove di apostolato, facendo della parrocchia un centro propulsore di vita cristiana, una casa di preghiera, di carità, un luogo di formazione alla preghiera e alla comunione. E sono proprio queste le note caratteristiche della comunità cristiana come ne parlerà l’enciclica di Giovanni Paolo II Novo millennio ineunte. Anche dopo il Concilio, da Vescovo, si adoperò per portare a tutti i fedeli i suoi dettati, cominciando col tradurre in forma di domande e risposte la costituzione sulla Sacra Liturgia.

Dopo soli otto anni di ministero nella città natia, fu eletto Vescovo di Gravina e Irsina, nel Barese, oggi diocesi di Altamura – Gravina – Acquaviva delle Fonti, il 14 maggio 1953. Vescovo a quarantadue anni, veniva così ad essere il più giovane presule d’Italia, volutamente scelto dal Santo Padre Pio XII per la sua fama di predicatore e di parroco amato dalla gente che viveva una vera povertà evangelica.

Ricevuta la consacrazione episcopale nella sua stessa parrocchia, approdò a Gravina il 13 settembre 1953. Venne poi trasferito alla sede episcopale di Diano – Teggiano, nel Salernitano, oggi diocesi di Teggiano – Policastro, il 30 novembre 1961, e dal 23 aprile 1970 divenne Vescovo di Apuania, oggi diocesi di Massa Carrara – Pontremoli, incarico che ricoprì fino alla rinuncia emessa il 23 febbraio 1988.

Amato dalla maggior parte dei suoi preti, dovette però spesso sopportare anche le umiliazioni infertegli da chi contava solo sui titoli di studio e non guardava alla sostanza perché la sua sapienza non gli derivava dai libri ma aveva un’origine superiore. Egli non era certo un dotto in senso accademico, eppure più d’uno gli chiese, raccontano i testimoni, se fosse laureato addirittura in matematica per la straordinaria capacità che aveva di organizzare in schemi i pensieri per i discorsi in brevissimo tempo. Ma egli, anche di fronte alle umiliazioni, rimase sempre ancorato a quanto scritto nel libro della Sapienza: “Le anime dei giusti, in cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé, li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come un olocausto”.

Nella breve testimonianza sulla vita quotidiana di mons. Forzoni, redatta a Roma nel 2004 da suor Diletta Foladori delle figlie di Gesù, che lo servì dal 1972 sino alla morte, la domestica lo descrive come una persona sensibile, anche le piccole cose lo facevano soffrire, e, anche se soffriva in silenzio, s’intravedeva dal suo viso la sofferenza. Alle comprensibili premure della religiosa per il suo stato, egli soleva rispondere: “Solo Dio deve bastare. Abbiamo scelto una vita bella, ma non priva di difficoltà. La preghiera però è la nostra forza: dalla preghiera ci deriva la forza di affrontare quello che il buon Dio ci manda”.

Mons. Forzoni corrispondeva assiduamente con sacerdoti, religiose e laici di tutta Italia ticchettando agilmente sulla sua “Olivetti Lexicon 80” sempre pronto a dare un consiglio e un aiuto spirituale e materiale a chiunque si rivolgesse a lui. E soprattutto predicava molto, non solo nelle parrocchie e diocesi che ebbero la grazia di averlo come Pastore ma anche in molte chiese dalla Lombardia alla Sicilia e anche d’oltralpe: fu infatti invitato alla grande Missione popolare che negli anni Cinquanta indisse a Milano l’Arcivescovo Giovanni Battista Montini, partecipò alla predicazione preparatoria del Congresso eucaristico nazionale di Catania e a quella del Congresso internazionale di mariologia a Lourdes, dettò gli Esercizi spirituali al Pontificio Seminario Romano.

Spesso visitava le parrocchie anche senza preavviso e molte volte, racconta ancora suor Diletta, ritornava a casa spoglio del suo completo per la celebrazione perché lo lasciava nelle parrocchie in cui riscontrava una certa povertà. Per quanto riguarda le chiese, infatti, voleva che tutto fosse lindo e ordinato, dal pavimento alle suppellettili. Sempre puntuale lui, esigeva che lo fossero anche i suoi sacerdoti. E quando qualcuno di loro, per qualche motivo, tardava a scendere per la messa del primo mattino, se era già tra i banchi con i fedeli, non si scomponeva ma si parava e saliva all’altare, con la felicità degli astanti che avrebbero così potuto godere della sua omelia.

Come S. Francesco, attingeva da Cristo per diventare il più possibile una sua icona. Come S. Francesco fu semplice, umile e povero. Non sapeva però che il suo impegno di configurarsi a Cristo negli ultimi anni e alla fine dei suoi giorni sarebbe stato coronato dall’esperienza di un vero calvario. S. Francesco fu segnato dalle stigmate, mons. Forzoni, nel 1982, sarebbe stato colpito da un ictus cerebrale che avrebbe imposto alla sua vita una tanto penosa Via crucis. Lui, così dinamico, sarebbe stato privato dell’autonomia motoria. Lui, dalla parola così fluente e vivace per la grande padronanza di linguaggio che possedeva, tanto che era anche poeta, egli stesso a Gravina diceva di essere “venuto dalla terra dei poeti”, sarebbe stato condannato a balbettare. Fiaccato nel fisico proprio nei doni più preziosi che il Signore gli aveva fatto, conservò però la lucidità della mente fino alla fine. In seguito all’ictus, gli venne affiancato un Vescovo ausiliare con diritto di successione nella persona di mons. Bruno Tommasi, che in seguito diverrà Arcivescovo di Lucca; ma l’aiuto più grande, seppur meno evidente, è quello prestatogli quotidianamente dai suoi seminaristi e dalle altre persone che in vari modi lo assistevano nelle indigenze della malattia.

La sua vita si concluse con il sigillo, il marchio del fuoco: l’oro fu purificato. Mons. Aldo Forzoni morì all’ospedale di Massa nella tarda serata del 7 dicembre 1991, in seguito ad un incidente dovuto ad un cortocircuito che lo bruciò lentamente riducendo tutta la parte destra del suo corpo un’unica grande piaga. Stando al racconto del diacono che lo assisteva in quelle ultime ore di agonia, si spense dolcissimamente: “Ad un tratto ha dato un lungo respiro poi ha aperto gli occhi e sorriso, ha reclinato il capo ed è spirato”.

 

Alcuni tratti della spiritualità

La complessità e la dinamicità della figura di mons. Aldo Forzoni, come è per ogni Santo, non permette di tracciarne qui un profilo completo ed ancor meno esaustivo, tuttavia si cercherà si delinearne, attraverso le testimonianze rese da chi lo ha conosciuto direttamente, alcuni tratti che permettano di avvicinarvisi e lasciarsi affascinare da lui. Di molti si è scritto che furono persone vere, ma mi piace citare qui l’interpretazione che di questa espressione, più volte detta anche di mons. Forzoni, ha voluto fare mons. Domenico Farella, uno dei suoi primi e più stretti collaboratori e autore dell’interessante opuscolo Una meteora sull’episcopato del Forzoni a Gravina: “Fu senz’altro persona vera. Senza orpelli o comodi infingimenti. Un uomo tanto vicino agli altri uomini ma non meno lontano, perché portatore, soprattutto come Vescovo, di un mistero insondabile. Continuamente testo e proteso a realizzare innanzitutto l’imperativo evangelico “siate perfetti come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli”, egli mirava ogni giorno a portarsi sempre più in alto, sia pure faticosamente, sulla montagna delle beatitudini. Di quelle beatitudini, da cui seppe sempre trarre ispirazione e stimolo per farsi credibile testimone e servitore del Vangelo per tutti”.

La grande umiltà che lo contraddistingueva, virtù troppo spesso confusa con una certa ostentata ritrosia e che invece è la conoscenza di sé nella verità in rapporto anche al proprio mandato, la si può leggere nelle sue stesse parole, le prime che rivolse ai fedeli di Gravina e Irsina immediatamente dopo l’elezione episcopale: “Se pensate che il Signore mi conosce e nonostante mi manda a voi, dovete voi pure animarvi di una santa speranza. Il suo Divino Spirito mi renderà docile ai suoi comandi e parimenti farà voi obbedienti alle direttive che a nome suo io vi darò […] Non vi porto nulla di mio perché nulla ho. Ho solo la capacità di mettermi a disposizione di Dio come strumento delle sue misericordie e della sua grazia. Come un sottile filo di rame attraverso il quale passerà, spero, molta energia, che sarà luce, calore e forza a tanti cuori. Che bellezza e quale onore per me essere un tale veicolo! Quale ricchezza per voi, oggetto e termine di tale Amore!”.

Uomo di grande carità, distribuiva largamente ai poveri quanto riceveva in dono e anche quanto in realtà sarebbe servito per sé. Sempre però con grande sapienza pastorale, per esempio, di ritorno a Gravina dalla missione milanese di cui si è accennato sopra, portò con sé un camion colmo di scarpe ma per distribuirle organizzò un vero e proprio “mese catechistico” nei rioni più bisognosi della città e ai frequentanti le lezioni distribuì poi le scarpe.

Grande fu la sua attenzione da Vescovo per il seminario e ovviamente per i seminaristi, sapeva quale fondamentale importanza rivesta questa istituzione per la diocesi. Ne fu così uno dei più grandi ricostruttori morali e numerici, tanto a Gravina quanto a Massa in seguito alle tempeste che li avevano travolti, rispettivamente quella della guerra e quella postconciliare.

Mons. Forzoni era sensibilissimo alla Paternità di Dio. Di quella paternità si sentiva investito, da quella paternità traeva vivida luce per comprendere il vero senso degli eventi gioiosi e dolorosi della sua vita e di quella degli uomini e del mondo. La lodava poeticamente nel suo instancabile magistero e da quella paternità captava ispirazione e slancio per il suo dinamismo apostolico. A lode della paternità di Dio così scrisse in una lettera: “Non deve essere piacevole per il Padre celeste vederci muti e tetri con i gomiti puntati sul desco della vita e gli occhi accusatori fissi in lui quasi a domandargli: perché ci hai messi al mondo? Né deve essere molto carezzevole al suo orecchio e al suo cuore la nostra preghiera, quasi esclusivamente di petizione e quasi mai di ringraziamento”.

Cristocentrica nel voler essere in tutto e per tutto icona di Cristo, la sua spiritualità “francescana” non poteva non essere altresì mariana. Ammirava Maria come donna, la sentiva come madre, la glorificava come sposa, la magnificava come vergine, la invocava come mediatrice di ogni grazia, la cantava soprattutto come Immacolata. E proprio all’Immacolata volle che fosse dedicata la nuova parrocchia che volle fondare a Irsina. Ancora non sapeva che sarebbe stata la Vergine Santissima a tergergli l’ultima lacrima, quasi a premio della sua intensa pietà mariana, dopo i primi Vespri della solennità liturgica dell’Immacolata Concezione del 1991. Nell’opuscolo di memorie diffuso alla sua partenza da Gravina per Teggiano, mons. Forzoni fu definito, avvicinandolo così ad un altro grande Santo, Ignazio di Loyola, “Il cavaliere di Maria”. Del suo rapporto con la Madonna, scriverà mons. Mario Paciello, suo successore sulla cattedra di Gravina: “Tutto il suo episcopato è stata una progressiva salita al Calvario con Maria”.

Nell’ultimo periodo della vita ripeteva spesso: “Che voglia ho di Paradiso!”. E l’immagine che suor Diletta traccia del Vescovo Forzoni degli ultimi anni lo avvicina anche al Beato Giovanni Paolo II, in quell’immagine penso indelebile negli occhi di tutti che fu immortalata dalla televisione durante la Via crucis del suo ultimo Venerdì Santo nel 2005. Ella così lo descrive: “Dopo la malattia passava le sue giornate in gran parte seduto davanti al tabernacolo con la corona in mano”. Come scrive nella testimonianza redatta nel 2006, fratel Giampiero Salvai delle Scuole Cristiane, giunto a Massa lo stesso anno di mons. Forzoni nel 1970, “Anche se si dovesse cancellare tutta la sua vita passata […] basterebbero questi 10 anni per convincerci della sua santità […] I santi sono uomini e donne che fanno anch’essi l’esperienza della debolezza, ma a differenza di noi, sanno gettare in Dio la loro piccolezza con una confidenza infinita: così dalla loro vita scaturisce la luce nitida della Resurrezione […] A volte si chiuse in sé ma nel suo cuore e nel deserto non aveva altro che la sua Fede che lo sorreggeva”. Del resto, anche per lo stemma episcopale si era scelto il motto: Deus fortitudo mea. E ancora il religioso racconta: “Una volta, andando a trovarlo, mi fece capire, additandomi il crocifisso, che nel momento in cui Gesù [era] inchiodato alla croce incapace di parlare e di insegnare, senza segni miracolosi, si compì la redenzione”.

Per mettere in evidenza il suo candore, la sua grande semplicità e solarità, mons. Pennisi, vescovo di Ragusa, diceva di lui: “È un Vescovo che ha fatto soltanto la prima comunione”. E il Card. Corrado Ursi, Arcivescovo di Napoli, lo definì, alla notizia della morte: “Un vero Angelo in carne”. Significativo a questo proposito è anche il titolo della sua prima lettera pastorale: “Piccole cose”. Ma questa semplicità non è da scambiare superficialmente per cieca ingenuità, al contrario, egli, come pochi grandi uomini sanno fare, aveva una straordinaria capacità di introspezione e di esaminarsi. Racconta ancora suor Diletta che al ritorno, spesso stanchissimo, dagli impegni pastorali magari dalle zone più lontane della grande diocesi di Massa, la Garfagnana che all’epoca ne faceva ancora parte o la Lunigiana, diceva: “Ho parlato tanto di Dio. Ma io vivo quello di cui ho parlato?”. E con questo pensiero rimaneva turbato. Con sguardo critico e lungimirante sulla realtà del mondo, inoltre, sapeva cogliere dinamiche ancora oscure ai più. Racconta mons. Giuseppe Rocco Favale, Vescovo di Vallo della Lucania, che Forzoni gli confidava: “Il comunismo, anche se scompare, ha già vinto la sua battaglia. Ci ha resi tutti materialisti. Ecco perché tutte le scelte che si fanno nella vita devono essere regolate dai dieci comandamenti. Si deve far propaganda alla verità”. E come i grandi uomini, gli uomini di Dio, quando di fronte alla necessità dell’obbedienza, la sua autorità di successore degli Apostoli doveva prendere il sopravvento, sapeva sempre ricomporre l’unità con una telefonata, una visita, un gesto: sapeva scusarsi e umiliarsi.

Le singole e imperfette pennellate fin ora gettate attorno alla straordinaria persona di mons. Forzoni, sebbene siano volte a metterne in luce la singolare levatura umana e spirituale, non ne nascondano un altro aspetto rilevante che, dopo S. Francesco d’Assisi, S. Ignazio di Loyola e il Beato Giovanni Paolo II, lo avvicina, in questa conformazione a Cristo attraverso i sui Santi, anche a S. Filippo Neri. Si legge nella testimonianza di suor Immacolata Materna del convento di Villa Specchia dove mons. Forzoni si recava spesso per il riposo e gli Esercizi spirituali, che egli eccelleva in altre due virtù fin ora non sufficientemente emerse: “Amicizia vera, umorismo grazioso”. Anzitutto, egli credeva fortemente nell’amicizia e per essa sopportò innumerevoli incomprensioni, ma la verità e la carità, che solo nell’amicizia e nell’amore ritrovano la loro originaria armonia, venivano per lui prima anche della buona fama. E da buon toscano, non poteva mancargli l’umorismo; racconta ancora suor Immacolata che, quando era molto stanco o provato, ella si avvicinava alla sua tavola per raccontargli qualche barzelletta e lui rideva sinceramente di gusto per poi raccontarne altre a sua volta e, a detta della religiosa, erano davvero spassose.

Lo spirito con il quale esercitò il ministero in tempi certamente non facili e con cui sopportò la lunga e penosa malattia che lo accompagnò fino alla morte, trova felice espressione in un documento reso pubblico in occasione della scomparsa, ma risalente all’8 novembre 1969, un testamento spirituale che val la pena di essere riportato per intero e nel quale si legge:

“Nel nome della SS. Trinità, Amen.

È dolce immaginarsi sul punto di comparire dinanzi alla vera Luce. Accarezza il cuore il pensiero di cadere tra breve nelle braccia dell’Essere, tuffarsi nell’Amore, sapere finalmente cos’è la Vita nella conoscenza di Dio. Fa fremere di impazienza l’attesa di un reciproco possesso, pieno, completo, fecondo, unico. Sono certo che Chi mi volle tra i vivi, mi condurrà tra gli eletti. Infinite prove mi ha dato di tenerezza e di fedeltà. Non vedo l’ora di potergli dire il “grazie” più tranquillo e sincero. Le mie colpe? Sono seppellite nella Sua misericordia. Confido nella Carità della Chiesa. So che è Santa e possedendomi nel circolo della sua vita mi proietterà nella spirale dell’Amore. Confido nella mia estrema povertà. Nessuno può immaginare (né ha mai potuto intravedere) quanto e come sia stato povero, miserabile. Nulla assolutamente nulla ho mai potuto offrire al mio Signore. (Quando lo dicevo non mi si credeva, né crederà chi legge qui, ma questo non cambia la realtà). Ma appunto per questa mia estrema, incredibile nudità trovo la gioia di morire e di presentarmi a Lui. Povera pagliuzza arida e spoglia, questa mia esistenza non poteva non riflettere il sole tutte le volte che Lui si degnava rivestirla con i Suoi raggi.

Sì, sono contento di essere stato creato e non ho ringraziato abbastanza il mio Creatore per il dono della vita. Ma la vita non l’ho mai intesa se non in funzione della morte, cioè della seconda nascita: “Deh, rompi ormai la tela al dolce incontro!” sospiro con S. Giovanni della Croce.. vado via contento, felice. Guardo con riconoscenza la terra che mi ospitò e mi nutrì, che mi fu ampio e vago libro di lettura e mi fece  comprendere il poema della proposta di amore da parte di Dio. Sorrido con riconoscenza grande a quanti mi furono amici, consiglieri, collaboratori, misericordiosi samaritani, indulgenti compagni di viaggio, esempio e stimolo a ben fare. Rivedo con tenerezza i luoghi della mia giovinezza e del mio ministero sacerdotale ed episcopale. Nulla rimpiango, tutto saluto con brio, felice, lo ripeto, di veder tutto sfumare in un tramonto di sole, mentre altra più  vivida luce si proietta in me. Ripeto con tutta convinzione e gravità il Credo del mio Battesimo, della mia Cresima, della mia ordinazione  sacerdotale ed episcopale. Bacio con devozione immensa il piede al Papa, successore di S. Pietro e Vicario di Gesù Cristo. In osculo pacis saluto i confratelli nell’episcopato e tutti i sacerdoti della mia diocesi e che ho incontrato come fedele e come ministro. Benedico il mio popolo e tutta la famiglia umana. Sono certo  del perdono di tutti. Confido nella preghiera di molti, almeno per un po’ di tempo. Invito tutti a una vita di grazia e a vivere in un clima di gratitudine. Maria, il “grazie” fatto carne, la Donna sublime del Magnificat, mi venga incontro con la mia mamma e con il mio babbo e con tutta la lunga e folta schiera di persone care che Dio mi dette a conforto e a sostegno e Maria si faccia generosa dispensiera del mio “grazie” a tutti e supplisca quelle dimenticanze che la fatica dell’agonia e la ebbrezza dell’estremo viaggio, rende inevitabili.”

Fatima: conversione, riparazione e devozione ai Sacri Cuori

I. Fatima: spiegazione e rimedio della crisi contemporanea

Catolicismo ha pubblicato, nel suo ultimo numero, il riassunto delle rivelazioni fatte dall’Angelo del Portogallo e poi dalla Madonna ai tre Pastorelli di Fatima (1).
Il mese di maggio è propizio a che questa rivista continui a trattare dell’argomento, tanto più che tutta la città di Campos vibra ancora degli echi della trionfale accoglienza tributata dai suoi figli all’immagine pellegrina della Madonna di Fatima (2).
In questo studio supponiamo dimostrata la verità delle apparizioni di Fatima. In altri termini, ammettiamo che il lettore riconosca come vero che l’Angelo del Portogallo e, dopo di lui, la Madonna siano apparsi ai tre Pastorelli, e che le rivelazioni fatte nelle diverse apparizioni siano state da loro fedelmente riferite. La prova potrebbe certamente esser fatta con i metodi utilizzati per lo studio di qualunque fatto storico di questo genere.
A Fatima si sono prodotti guarigioni e prodigi alla presenza di migliaia di persone.
Quindi si possono sottoporre questi o quelle a un’analisi scientifica per verificare se sono miracolosi. D’altronde, i tre Pastorelli sono stati sottoposti a numerosi interrogatori, ufficiali e privati, fatti da amici e da nemici. Queste deposizioni possono esser passate al vaglio di tutti i buoni metodi della critica. In questo studio si dovrebbero sottoporre ad analisi anche i precedenti dei Pastorelli, la vita da loro condotta dopo le apparizioni, e i pronunciamenti dell’Autorità Ecclesiastica, dal momento che tutto questo comporta una completa chiarificazione dell’argomento. Per quanto tale studio sia interessante, lo lasciamo intenzionalmente da parte. La grande maggioranza dei fedeli crede nelle apparizioni e nelle rivelazioni di Fatima. Poiché la nostra pubblicazione è soprattutto destinata a orientare lettori cattolici, ci pare più utile, invece di provare loro quanto già ammettono come certo, analizzare qualche aspetto di quanto accettano le loro anime, illuminate dalla fede.

La grande crisi dei nostri giorni

I fatti contemporanei più significativi sono:

1. La crisi universale

La società umana presentava, nella prima parte di questo secolo [il secolo XX], cioè fino al 1914, un aspetto brillante. Il progresso era indiscutibile in tutti i campi. La vita economica aveva conseguito una prosperità senza precedenti. La vita sociale era facile e attraente. L’umanità sembrava avanzare verso l’età dell’oro. Alcuni gravi sintomi stonavano rispetto ai colori vivaci di questo quadro. Vi erano per certo miserie materiali e morali.
Ma pochi misuravano in tutta la sua estensione l’importanza di questi fatti. La grande maggioranza sperava che la scienza e il progresso avrebbero risolto tutti i problemi. La prima guerra mondiale venne a opporre una terribile smentita a queste prospettive. In tutti i sensi, le difficoltà si aggravarono incessantemente fino al 1939. Sopravvenne la seconda guerra mondiale, e con questo giungiamo alla condizione presente, nella quale si può dire che non vi è sulla terra una sola nazione che non sia alle prese, in quasi tutti i campi, con gravissime crisi. In altri termini, se analizziamo la vita interna di ogni nazione notiamo in essa uno stato di agitazione, di disordine, di sfrenatezza di appetiti e di ambizioni, di sovvertimento di valori, che se non è già aperta anarchia, comunque avanza in quella direzione. Nessuno statista contemporaneo ha saputo ancora presentare la soluzione che arresti questo processo morboso di portata universale.

2. Le guerre mondiali.

Quella del 1914-1918 è parsa una tragedia insuperabile. In realtà, quella del 1939-1945 l’ha superata dal punto di vista della durata, dell’universalità, della mortalità e delle rovine prodotte. Ci ha lasciato a due passi da una nuova guerra ancora peggiore sotto tutti i punti di vista. Masse umane hanno vissuto questi ultimi anni nel terrore di questa prospettiva, consapevoli che un terzo conflitto mondiale avrebbe forse portato con sé la fine della nostra civiltà.

L’attualità delle rivelazioni di Fatima

L’elemento essenziale dei messaggi dell’Angelo del Portogallo e della Madonna consiste, come vedremo, nell’aprire gli occhi degli uomini sulla gravità di questi fatti, nell’insegnarne loro la spiegazione alla luce dei piani della Provvidenza Divina, e nell’indicare i mezzi necessari per evitare la catastrofe. La Madonna c’insegna la storia stessa della nostra epoca, e ancor più il suo futuro.
L’Impero Romano d’Occidente si chiuse con una catastrofe illuminata e analizzata dal genio di un grande Dottore, sant’Agostino [Aurelio (354-430)]. Il tramonto del Medioevo fu previsto da un grande profeta, san Vincenzo Ferrer [1350- 1419]. La Rivoluzione francese [1789], che segna la fine dell’Età Moderna, fu prevista da un altro grande profeta e nello stesso tempo un grande Dottore, san Luigi Maria Grignion da Montfort [1673-1716].
Ora, l’Età Contemporanea, che sembra sul punto di chiudersi con una nuova crisi, ha un privilegio maggiore. A parlare agli uomini è venuta la Madonna.
Sant’Agostino ha potuto solamente spiegare per la posterità le cause della tragedia di cui era testimone. San Vincenzo Ferrer e san Luigi Grignion da Montfort cercarono invano di allontanare la bufera: gli uomini non vollero ascoltarli. La Madonna nello stesso tempo spiega i motivi della crisi e indica il suo rimedio, profetizzando la catastrofe nel caso gli uomini non l’ascoltino. Dunque, da qualsiasi punto di vista, per la natura del contenuto come per la dignità di chi le fa, le rivelazioni di Fatima sopravanzano tutto quanto la Provvidenza ha detto agli uomini nell’imminenza delle grandi burrasche della storia.
I diversi punti delle rivelazioni relativi a questo tema costituiscono propriamente l’elemento essenziale dei messaggi. Il resto, per quanto sia importante, costituisce un semplice complemento.

Il presupposto: terribile crisi religiosa e morale

Non vi è una sola apparizione nella quale non s’insista su un fatto: i peccati dell’umanità sono diventati di un peso insopportabile sulla bilancia della giustizia divina. Questa la causa recondita di tutte le miserie e di tutti i disordini contemporanei. I peccati attirano la giusta collera di Dio. Quindi i castighi più terribili minacciano l’umanità. Perché non sopravvengano, è necessario che gli uomini si convertano. E perché si convertano è necessario che i buoni preghino con ardore per i peccatori e che offrano a Dio ogni sorta di sacrifici espiatori.

Pregare ed espiare per i peccatori

Nei suoi messaggi, l’Angelo del Portogallo insegna ai Pastorelli a chiedere perdono per i cattivi e, inoltre, a offrire sacrifici per loro. Ricorda in modo particolare la necessità di offrire riparazione al Santissimo Sacramento per le ingiurie che riceve, non solo da quanti lo profanano, ma anche da quanti lo ricevono con indifferenza. Nella sua prima apparizione, la Madonna chiede ai Pastorelli di accettare la dura missione di espiare per i peccatori, e predice loro che dovranno soffrire molto. Nella seconda apparizione, li incita a pregare e a sacrificarsi per ridurre il gran numero di anime che si perdono. A tal fine insegna loro una giaculatoria (3).
Inoltre mostra il suo Cuore Immacolato coronato di spine a causa dei peccati commessi oggi. Nella terza apparizione, fa loro vedere l’inferno con i tormenti inenarrabili cui sono soggetti quanti vi sono gettati dalla giustizia di Dio. E insiste sulla necessità di riparare per i peccati. Nella quarta visione la Madonna insegna un’altra preghiera riparatoria (4), e afferma che sono molte le anime che si perdono perché non vi è nessuno che ripari per loro. Nella quinta apparizione, la Madonna modera alcuni eccessi dei Pastorelli nel loro ardore di riparazione, ma insiste sulla necessità di sacrificarsi per i peccatori. Afferma la necessità che gli uomini si pentano dei loro peccati, smettendo di sfidare la giustizia di Dio, affinché il mondo non sia castigato. Infine, a Tuy [in Spagna, il 17-12-1927], apparendo a suor Lucia, la Madonna parla precisamente nello stesso senso. Quindi vediamo che il pensiero costante di tutti i messaggi è questo: il mondo è alle prese con una terribile crisi religiosa e morale; i peccati commessi sono innumerevoli e sono l’autentica causa dell’universale desolazione. Il modo più sicuro per porre rimedio ai loro effetti consiste nella preghiera e nella riparazione.

I messaggi di Fatima e la voce dei Papi

Il linguaggio dei Papi non è stato diverso. Pio XI [1922-1939], per esempio, nell’enciclica Miserentissimus Redemptor, dell’8 maggio 1928, di fronte allo spettacolo delle disgrazie contemporanee, ha affermato che «cose tanto dolorose sembrano con tali sciagure preannunciare fin d’ora e anticipare “il principio dei dolori” che apporterà “l’uomo iniquo che s’innalza su tutto quello che è Dio e religione” (2 Ts. 2, 4)» (5). E aggiunge: «E così corre alla mente, pur senza volerlo, il pensiero che già siano giunti i tempi profetizzati da nostro Signore: “E poiché abbondò l’iniquità, si raffredderà la carità di molti” (Mt. 24, 12)» (6).
E più di recente il Santo Padre Pio XII [1939-1958], gloriosamente regnante, ha affermato che l’opera di demolizione della civiltà cristiana, dopo aver portato al culmine la sua azione negativa, sta ormai costruendo in questo mondo la Città Anticristiana; l’autore di questa opera «è […] divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora
attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio.
Il “nemico” si è adoperato e si adopera perchè Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell’amministrazione della giustizia, nell’attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace e la guerra.
«Esso sta corrompendo il mondo con una stampa e con spettacoli, che uccidono il pudore nei giovani e nelle fanciulle e distruggono l’amore fra gli sposi; inculca un nazionalismo che conduce alla guerra» (7).

Il falso ottimismo e il messaggio di Fatima

Queste parole, di un sano realismo, contrastano — lo sappiamo bene — con una tendenza tutt’altro che rara fra i cattolici. Per spirito di accomodamento, per opportunismo, per il desiderio puerile di concordare in tutto con questo secolo per condurlo per vie estremamente problematiche a una chimerica conversione, pensano, operano, si sentono, in questo mondo di crisi e di crollo, come se fossero nel secolo XIII, con san Luigi [IX Capetingio (1214-1270)] sul trono in Francia, con san Ferdinando in Castiglia [III (1200 ca.-1252)], con san Tommaso d’Aquino [1225 ca.-1274] e con san Bonaventura [da Bagnoregio (1217 ca.-1274)] che illuminano la Chiesa con lo splendore della loro scienza e della loro virtù. Quando attualmente solo fra ragazzini e ragazzine si trovano ancora persone che non hanno preso coscienza della
gravità della crisi che attraversiamo, questi nostri cattolici, spesso quarantenni o anche più anziani, entrano freneticamente nella banda di quanti sono spensierati, e intonano lodi e inni a una situazione che ad altri strappa gemiti d’angoscia e perfino grida di dolore.
E se qualcuno intende aprir loro gli occhi, s’infuriano. Tolleranti nei confronti di tutto e di tutti, non possono sopportare che si mostri la gravità della situazione in cui ci troviamo. La parola della Madonna, la parola del Papa basteranno per convincerli? Non sembra probabile. Ma possono almeno immunizzare contro quest’ondata di ottimismo ozioso quanti si sentissero propensi ad aderirvi.

Il messaggio di Fatima e i cattolici miopi

A fianco di quest’ottimismo febbrile, al quale piacerebbe fare dell’apostolato una perpetua festicciola di adolescenti, un’eterna gita, che detesta nella vita di pietà stessa tutto quanto possa evocare l’idea di dolore, i Crocifissi in cui la Divina vittima figura con le sue Piaghe, versando il Sangue redentore ecc., c’è ancora un altro difetto da considerare. E’ l’abulia. Esiste una falsa devozione che devia gli uomini dalla considerazione di tutti i grandi problemi. È la civiltà cristiana che si dissolve, il mondo che crolla, la terra che si sconvolge? L’uomo intossicato da questa forma di devozione non vede nulla, non sente nulla, non percepisce nulla. La sua vita si riduce soltanto a una vituccia, che consiste nell’adempimento  corretto e pacato dei suoi piccoli doveri personali e dei suoi piccoli atti di pietà, nell’esclusiva soluzione dei suoi piccoli casi di coscienza. Il suo zelo non va molto oltre ai suoi orizzonti, e questi, duole dirlo, vanno un po’ più aldilà del suo naso. Se gli si parla di politica, di sociologia, di filosofia e teologia della Storia, di apologetica, si svia persino con  un certo timore: è la paura che le termiti hanno della luce del sole. Anche per lui, Fatima contiene una grande lezione.
La Madonna discese sulla terra per attirare a questo immenso panorama lo zelo delle anime. Ella vuole devozione, vuole riparazione, basando però il suo desiderio in una visione immensa dei grandi interessi di Dio in tutta la vastità della terra. Non si tratta, nelle prospettive illimitate di Fatima, di salvare soltanto questa o quell’anima  individualmente considerata.
Si tratta di vedere più in alto e più lontano. È per la salvezza di tutta l’umanità che si deve lottare, poiché non si tratta soltanto di questo o di quell’uomo, ma di legioni di anime minacciate di perdersi in una delle crisi più gravi della Storia. Ed è per questa immensa incombenza che la Madonna chiede non un Cireneo, ma molti, moltissimi di loro, intere falangi. A Fatima non vi è soltanto un appello a tre pastorelli di fare penitenza. Questo appello è rivolto al mondo intero. È tutta la vita di pietà contemporanea che deve avere, per così dire, un forte tono riparatore ed espiatorio.

I messaggi di Fatima e l’”eresia delle opere”

Notiamo anche un altro punto. Nessuno può dubitare dell’importanza delle opere di apostolato. I Papi hanno richiamato ad esse giornalmente i fedeli. Frattanto, nella sua estrema concisione, Fatima non ci dice nulla di particolare in merito. Sarà forse perché la Provvidenza non le giudica necessarie e urgenti? Chi potrebbe pensare tale aberrazione? Quindi, come mai si tace su Fatima? È perché viviamo in un’epoca dominata dai sensi, in cui gli uomini riconoscono facilmente la necessità dell’agire, poiché l’azione è qualcosa che va percepita dai sensi, la cui efficacia molte volte può essere valutata da cifre, statistiche e risultati palpabili. Perciò non è tanto difficile attirare l’attenzione delle anime veramente zelanti sull’importanza dell’azione. Invece è e continua ad essere molto difficile attirarle a ciò che è spirituale, interiore, invisibile. Ecco perché l’uomo capisce più difficilmente la preghiera e la vita interiore, e ad esse dedica meno tempo e meno interesse. Dunque, si comprende bene che a Fatima la Madonna abbia insistito sulla necessità della preghiera e della penitenza al punto da fare di questo, l’elemento essenziale del suo messaggio. Quanto profitto avrebbe tirato da questo fatto, Don Chautard, se al suo tempo tutto l’argomento “Fatima” fosse stato chiarito quanto lo è oggi [cfr. L’ANIMA DI OGNI APOSTOLATO, D. Jean-Baptiste Gustave Chautard, Ed. Luci sull’Est, 2000, prima traduzione dal testo critico integrale, pp. 255].

Non basta pregare: è necessario espiare

Infine un punto essenziale. La Madonna non parla solo di preghiera. Ella vuole espiazione, sacrificio. Si è mai vista un’epoca in cui si fugga più di questa dal dolore? Ci sarà mai stata un’epoca in cui si sia meno parlato sulla necessità della mortificazione? Ci sarà mai stata un’epoca in cui si sia più sminuita la nozione dell’importanza del sacrificio? È, giustamente, su questo punto che la Madonna richiama, in modo particolare, la nostra attenzione. Nei grandi secoli della vita devota, l’espiazione era un fatto frequente nella vita degli uomini e dei popoli. Si facevano immensi pellegrinaggi per espiare i peccati. Nelle grotte, nelle foreste, nei chiostri si trovavano vere legioni di anime dedite alla vita di espiazione. Nei testamenti venivano lasciate intere fortune per le opere pie o di carità, in remissione dei peccati. C’erano delle confraternite specificatamente destinate ad incrementare la penitenza. C’erano processioni espiatorie a cui prendevano parte intere città. Oggi non mancano manifestazioni collettive di pietà. Ma, per quanto la Chiesa ci sproni alla penitenza, quale ruolo svolge quest’ultima in tali manifestazioni? Che ruolo rappresenta nella nostra vita privata? È piccolo, anzi piccolissimo. Sembra indiscutibile che anche su questo punto Fatima ci dia lezioni preziose. Torneremo sull’argomento.

II. La devozione al Cuore di Maria salverà il mondo dal comunismo

Come abbiamo detto precedentemente, gli studi che veniamo pubblicando su Fatima presuppongono sia stato dimostrato, come punto di partenza, che la Madonna sia apparsa veramente a Lucia, a Giacinta [Marto (1910-1920)] e a Francesco [Marto (1908-1919)], e che abbia a essi comunicato i messaggi, da questi a loro volta trasmessi al mondo.
Per una questione di metodo vogliamo ricordare questo punto, che costituisce la pietra angolare di tutto quanto si scriva su Fatima. Trattandosi di apparizioni che i veggenti affermano destinate a essere conosciute dal Santo Padre, dalla Sacra Gerarchia e, insomma, dalla Cristianità tutta, non è possibile una via di mezzo: o le prove sono chiare, certe, pienamente concludenti, e in tal caso le rivelazioni meritano un credito completo, oppure le prove sono dubbie, confuse, discutibili, e in questo caso i messaggi sono falsi, perché non si capisce come mai, se la Madonna ha voluto veramente far giungere un messaggio al mondo, non ha disposto i fatti in modo da presentare all’umanità motivi ragionevoli per ritenerlo autentico. Visto in questo modo l’argomento, siamo condotti dalla natura stessa delle cose a un’altra alternativa. Se le prove sono certe, se i messaggi sono autentici, è impossibile non dare la massima importanza al loro contenuto. Se la Madonna ci ha realmente parlato, è giocoforza tenere nella più alta considerazione quanto Ella ci ha detto, meditare a lungo ognuna delle sue parole, trarne, attraverso un’analisi intelligente, tutto quanto contengono. Ma, d’altro canto, se le prove non sono certe, sarà meglio non perdere neppure un minuto con l’argomento. Come non si può prestare ai messaggi neppure una «mezza fede», così non si può attribuire al suo contenuto una mezza importanza. Sottolineiamo con tanta insistenza questo aspetto fondamentale della questione perché ci sembra che, purtroppo, a proposito di Fatima, è molto più frequente di quanto a prima vista si possa forse immaginare un’atmosfera di «mezza credenza» e di «mezza importanza».

La gravità della situazione del mondo secondo il messaggio di Fatima

Quindi la Madonna ha parlato al mondo. Ha descritto la situazione come gravissima, ha indicato come causa di questa situazione la spaventosa decadenza morale dell’umanità, ci ha minacciati con terribili punizioni terrene — nuova guerra, diffusione mondiale degli errori del comunismo, persecuzioni alla Chiesa — e con una punizione eterna mille volte peggiore — l’inferno — se non ci emenderemo, e ha infine prescritto i mezzi necessari per giungere all’emendazione e per evitare tanti castighi.
Benché qualche sciocco chiuda gli occhi davanti alla realtà più evidente e si compiaccia di affermare che è a posto con Dio il mondo in cui viviamo — di dubbio, di naturalismo, d’indisciplina morale e di adorazione della felicità terrena — è necessario credere il contrario, perché la Madonna ci ha detto il contrario.
È assolutamente certo che alcuni sociologi evoluzionisti, molto più evoluzionisti che sociologi, amano dire che l’oggi è migliore dello ieri, e che il domani sarà necessariamente migliore dell’oggi. Ma la Madonna ci dice che la verità è molto diversa: il domani sarà migliore dell’oggi solamente se ci emenderemo e faremo penitenza. Diversamente, per quanto insomma il progresso materiale, la medicina, le finanze, i divertimenti, il comfort della vita si sviluppino, avanziamo verso un grande e universale collasso.
Purtroppo non mancano neppure teologi ottimisti che creano attorno a sé una gradevole atmosfera di simpatia, sostenendo che quasi nessuno si condanna all’inferno. Invece la Madonna insegna il contrario, e lo fa non solo con parole, ma anche con l’argomento invincibile del fatto concreto: apre l’inferno davanti agli occhi dei Pastorelli terrorizzati, perché raccontino al mondo intero quanto hanno visto. E bisogna credere alla Madonna e non a certa teologia debole, all’acqua di rose.
E se la Madonna ci rivela a Fatima quali sono i rimedi di cui ci si deve servire per evitare la catastrofe, è necessario studiarli, applicarli, riporre in essi tutte le speranze, invece di perder tempo sperimentando panacee suggerite dagli uomini. Di questi rimedi indicati dalla Madonna vogliamo trattare in modo particolare.

La vita soprannaturale è l’autentica soluzione

Abbiamo già fatto notare di passaggio, nell’articolo precedente, che la Madonna indica, come rimedi fondamentali per il mondo contemporaneo, la preghiera, la penitenza, l’emendazione della vita. Da questi tre provvedimenti puramente spirituali fa dipendere il mantenimento della pace, la preservazione dell’Occidente dalla propaganda comunista, quindi la sopravvivenza della civiltà stessa.
Potranno esser colpiti da ciò molti cattolici male informati, che pongono tutte le loro speranze in mezzi puramente umani. Immaginano che tutto sarebbe salvo il giorno in cui la Chiesa fosse robustamente dotata di seminari, di università, di giornali, di riviste, di librerie, di cinema, di teatri, di opere di carità e di assistenza sociale. In questa concezione, tutto si riduce all’ambito puramente naturale: la scristianizzazione ha come causa l’insufficienza dei nostri mezzi di propaganda e di azione. Il giorno in cui avessimo posto rimedio a questa insufficienza, avremmo vinto la scristianizzazione.
Nel frattempo, appare la Madonna a Fatima, e su tutti questi mezzi di azione non dice una sola parola. Come spiegare questo mistero? Che ne è delle parole dei Papi, che non hanno smesso di raccomandare tutto quello di cui la Madonna ha taciuto? I messaggi di Fatima saranno in contraddizione con le direttive pontificie? Sarebbe facile rispondere a tutte queste domande, se i cattolici facessero la fatica di leggere seriamente e per esteso i documenti pontifici, invece di accontentarsi di citazioni trovate sparse qua e là, in certi libri e giornali impegnati, a quanto pare, nel fare un’autentica opera di filtro di tutto quanto nella parola del Sommo Pontefice eventualmente contrasti con i loro preconcetti. I Papi non si stancano di raccomandare l’uso di tutti i mezzi naturali legittimi per promuovere il Regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo. Tuttavia, non si limitano solamente a questo.
In documenti veramente innumerevoli, mostrano che i mezzi naturali non saranno di nessuna efficacia se non vi sarà, in quanti lottano per la Chiesa, una vita costante di pietà, di mortificazione, di sacrificio; se i soldati di Cristo non avranno continuamente presente che i mezzi di azione naturali devono essere canali di grazia di Dio, e che l’apostolo — chierico o laico — dev’essere lui stesso un luogo di conservazione delle grazie che ne devono vivificare le opere. In una parola, le tesi essenziali del libro inimitabile di dom Chautard, L’Anima di ogni Apostolato (8), sono state inculcate in ogni modo dai Papi. E sono gli stessi principi che la Madonna c’insegna a Fatima.
La Vergine Santissima non ci dice di non dedicarci completamente alle opere di apostolato. Ma ripete l’insegnamento di Nostro Signore a Betania: è necessario vivere in intima unione spirituale con Dio, perché tutto il resto deriva da lì, e senza una tale unione le opere più sagge, più utili, più opportune risulterebbero miserevolmente sterili (9).

L’Angelo tutelare della patria

Notiamo a questo punto, molto rapidamente, altri aspetti dei messaggi di Fatima. L’apparizione dell’Angelo del Portogallo ci fa ricordare la dottrina della Chiesa circa il fatto che ogni popolo ha un suo particolare Angelo Custode. Vi è stato un tempo in cui ogni nazione aveva una particolare devozione al proprio Angelo Custode, invocandolo nelle proprie tribolazioni, e soprattutto nella lotta per il mantenimento del popolo nel seno della Chiesa. Abbiamo pensato a questo? Pratichiamo il culto all’Angelo Custode del Brasile?

Amore e timor di Dio

L’Angelo prega in presenza dei Pastorelli, profondamente inchinato, con il volto a terra. È un esempio che dobbiamo imitare. Nelle nostre preghiere dobbiamo essere fiduciosi, confidenti, filiali. Ma è necessario non dimenticare che l’autentica pietà filiale non esclude, anzi suppone, il più profondo rispetto. Si tratta di un altro punto su cui le rivelazioni di Fatima contengono preziosi insegnamenti per l’uomo moderno. Infatti, a forza di parlare di democrazia in tutto e per tutto, finiamo non di rado per deformare in tal modo la nostra mentalità, da introdurre un tonus ugualitario perfino nei nostri rapporti con Dio!

Devozione combattuta dal liturgismo

Negli ultimi tempi, il liturgismo ha instillato nelle file cattoliche preconcetti tenaci contro certe devozioni, fra le quali il culto al Santissimo Sacramento extra Missam, e il Santo Rosario.
Orbene, entrambe queste devozioni sono fortemente inculcate a Fatima.
A Dio niente è impossibile. Così, se la Provvidenza avesse voluto, i Pastorelli potrebbero esser stati trasportati — grazie a un fenomeno di bilocazione, per esempio —in qualche luogo in cui venisse celebrato il Santo Sacrificio, per poi, nel corso di esso, ricevere la Santa Comunione. In ultima analisi, questo sarebbe stato tanto straordinario quanto affidare all’Angelo le Sacre Specie perché ne comunicasse i Pastorelli. Tuttavia fu quest’ultimo il modo disposto dalla Provvidenza. Se nel culto eucaristico extra Missam vi fosse qualcosa d’intrinsecamente contrario al modo vero d’intendere la Presenza Reale, sarebbe stato impossibile che la Provvidenza decidesse che l’adorazione eucaristica dell’Angelo e la prima Comunione dei Pastorelli si realizzassero nel modo in cui si sono realizzate.
Quanto al Santo Rosario, sarebbe difficile raccomandarlo con maggiore insistenza. «Sono la Regina del Rosario», ha detto di sé stessa la Santa Vergine nell’ultima delle apparizioni (10). E in quasi tutte ha inculcato esplicitamente questa devozione ai Pastorelli. Quindi, come pretendere che il Rosario abbia perso qualcosa della sua attualità? Si proclama pure che la meditazione dell’inferno è inadatta ai nostri giorni e capace solamente d’incutere un timore servile. Questa affermazione crolla fragorosamente a fronte di quanto è accaduto a Fatima, perché la visione dell’inferno, di cui i Pastorelli sono stati privilegiati, mirava evidentemente a purificare il loro amore e il loro senso di apostolato.

Devozioni ai Sacri Cuori

A Fatima s’inculca ugualmente, con significativa insistenza, la devozione al Sacro Cuore di Gesù, che pure è stata messa in ombra da una certa tendenza di spiritualità attualmente molto in voga. Il culto al Sacro Cuore di Gesù è stato considerato da tutti i teologi come una delle più preziose grazie con cui la Santa Chiesa è stata confortata negli ultimi secoli.
Era destinato a rianimare negli uomini l’amore di Dio, intorpidito dal naturalismo del Rinascimento, dagli errori dei protestanti, dei giansenisti, dei deisti e dei razionalisti. Nel secolo scorso [il secolo XIX], proprio per mezzo di questa devozione l’Apostolato della Preghiera ha prodotto una mirabile rifioritura della vita religiosa in tutto il mondo (11).
E, siccome i mali da cui il Sacro Cuore di Gesù ci deve preservare crescono giorno dopo giorno, è evidente che giorno dopo giorno si accentua l’attualità di questa incomparabile devozione.
Tuttavia, è necessario aggiungere che, nell’aggravarsi dei mali contemporanei, la Provvidenza ha quasi voluto superare sé stessa indicando agli uomini come oggetto della loro pietà il Cuore di Maria, che in un certo modo perfeziona e porta alla sua pienezza il culto al Sacro Cuore di Gesù. Gli studi e la devozione cordimariana non sono nuovi. Tuttavia ci sembra che la semplice lettura dei messaggi di Fatima mostri con quanta insistenza la Madonna li vuole per i nostri giorni. La missione da Lei affidata a suor Lucia è stata specialmente quella di restare sulla terra per attirare gli uomini al Cuore Immacolato di Maria.
Spesso questa devozione è raccomandata durante le visioni. Il Cuore Santissimo ci appare anche, nella seconda apparizione, coronato di spine per i nostri peccati, a chiedere la preghiera riparatrice degli uomini. Ci sembra che questo punto in qualche modo compendi in sé tutti i tesori dei messaggi di Fatima.
Dunque, nel loro insieme, le apparizioni di Fatima da un lato c’istruiscono sulla terribile gravità della situazione mondiale e sulle autentiche cause dei nostri mali. E d’altro lato c’indicano i mezzi attraverso i quali dobbiamo evitare i castighi terreni ed eterno, che ci minacciano. Agli antichi Dio ha mandato profeti. Ai nostri giorni ci ha parlato attraverso la stessa Regina dei Profeti. Perciò, studiando quanto la Madonna vuole, che dire? Le uniche
parole adeguate sono quelle di Nostro Signore nel Santo Vangelo: chi ha orecchie per intendere, intenda (12)…

(Plinio Corrêa de Oliveira, Tratto da Cristianità 14 — N. 317 maggio-giugno 2003)

 

Note

(1) Cfr. Fátima, o acontecimento capital do seculo XX, in Catolicismo, n. 28, Campos (Rio de Janeiro) aprile 1953, senza paginazione ma p. 3, rapida esposizione degli accadimenti verificatisi nel 1917 nel villaggio portoghese e dei messaggi trasmessi nelle diverse occasioni e in seguito; Più ampiamente, cfr. ANTONIO AUGUSTO BORELLI MACHADO, Fatima: Messaggio di Tragedia o di Speranza? Con la terza parte del segreto, trad. it., Luci sull’Est, Roma 2002.

(2) Nel 1953, l’Immagine Pellegrina della Madonna di Fatima — una delle quattro scolpite nel 1946, in cedro brasiliano, dallo scultore portoghese José Ferreira Thedim (1892-1971), con la supervisione di suor Lucia — percorre l’intero territorio del Brasile, raggiungendo anche la diocesi di Campos, nello Stato di Rio de Janeiro: cfr. HALVÉCIO ALVES, Acolhimento triunfal à Virgem de Fátima, in Catolicismo, anno LII, n. 629, San Paolo maggio 2003, p. 41.
Nell’occasione sul mensile Catolicismo, allora edito appunto a Campos, compaiono due articoli dei quali viene proposta la traduzione.

(3) «Sacrificatevi per i peccatori e dite molte volte e in modo speciale quando fate qualche sacrificio: “O Gesù, è per amor vostro, per la conversione dei peccatori e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria”» (A. A. BORELLI MACHADO, op. cit., p. 40, nel corso della terza apparizione, del 13 luglio 1917).

(4) «O Gesù mio, perdonateci, liberateci dal fuoco dell’inferno, portate in cielo tutte le anime, soprattutto le più bisognose» (ibid., pp. 45- 46, sempre nel corso della terza apparizione).

(5) PIO XI, Enciclica sulla riparazione dovuta al sacratissimo Cuore di Gesù «Miserentissimus Redemptor», dell’8-5-1928, in Enchiridion delle Encicliche, vol. 5, Pio XI (1922- 1939), ed. bilingue, EDB. Edizioni Devoniane Bologna, Bologna 1995, pp. 322-349 (pp. 340- 341).

(6) Ibid., pp. 342-343.

(7) PIO XII, Discorso agli Uomini di Azione Cattolica d’Italia «Nel contemplare», del 12-10-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, pp. 355-362 (p. 359).

(8) Cfr. DOM JEAN-BAPTISTE CHAUTARD O.C.S.O., L’Anima di ogni Apostolato, trad. it. dal testo critico integrale, Luci sull’Est, Roma 2002.

(9) Cfr. Lc. 10, 38-42.

(10) A. A. BORELLI MACHADO, op. cit., p. 57.

(11) Associazione di carattere religioso in cui i fedeli partecipano all’instaurazione del regno del Sacro Cuore mediante i meriti delle loro azioni, offerte quotidianamente; ideata e fondata dal gesuita francese François-Xavier Gautrelet (1807-1886) e organizzata dal gesuita pure francese Henry Ramière (1821-1884).

(12) Cfr. Mt. 13, 43; Mc. 4, 9; e Lc. 8, 8; e 14, 35.

Bruto Maria Bruti

 

Bruto Maria Bruti viveva a Pedaso in provincia di Ascoli Piceno con la moglie Laura e i tre figli Carlo, Gabriele e Raffaele. Medico chirurgo, diplomato in terapia olistica, specialista in odontostomatologia e in psicoterapia cognitiva e comportamentale, insegnava Metafisica e Psicologia e Psicopatologia dei comportamenti sessuali presso l’Università Europea di Roma.

Militante di Alleanza Cattolica da oltre trent’anni, collaboratore di Cristianità, ha partecipato con entusiasmo fin dall’inizio alle attività dell’associazione Obiettivo-Chaire. E’ mancato il 6 maggio 2010 all’età di 55 anni, nell’ospedale di Ancona.

Tutti coloro che lo hanno conosciuto ricordano la sua straordinaria amabilità, la sua grande attenzione per i problemi e le sofferenze di chi lo incontrava e anche la sua capacità di cogliere in profondità gli aspetti più negativi della rivoluzione sessuale penetrati nella cultura e nei costumi del mondo occidentale a partire dal 1968.

Bruto non aveva timore di sostenere pubblicamente verità scomode e politicamente scorrette, soprattutto in tema di omosessualità e ideologia di genere: proprio nelle ore in cui veniva chiamato da Dio al riposo eterno, venivano pronte le ultime bozze di un suo libro, edito da Sugarco, “La nostra sessualità. Felicità, desiderio e piacere nell’essere umano.”

Enzo Peserico

Sesto San Giovanni, Milano, 20 ottobre 1959 – Re, Novara, 1 gennaio 2008

Enzo nasce il 20 ottobre 1959 nella Stalingrado d’Italia, a Sesto San Giovanni, la città simbolo del comunismo italiano, dove ancora negli anni Cinquanta del secolo scorso era difficile immaginare una proposta culturale e una presenza politica che non s’ispirasse all’ideologia dominante. Ma Enzo accetta questa sfida e fin dagli anni del liceo scientifico, frequentato sempre nella sua città natale, si convince della importanza di questa battaglia di libertà contro l’oppressione dell’ideologia e così assume pubblicamente un’identità anticomunista.
Negli stessi anni, conosce e s’impegna in Alleanza Cattolica dove per trent’anni svolgerà il suo apostolato religioso e culturale, esemplare per la generosità e per l’intelligenza, soprattutto per la straordinaria attenzione ai bisogni delle persone, che sapeva individuare attraverso una grande capacità di ascolto e di analisi, e prevenire, perché nessuno si sentisse umiliato.
Chi lo ha conosciuto già allora ha potuto verificare nel tempo il profondo lavoro della Grazia su di lui. Dotato di un carattere non facile, forte e schietto, ha saputo combattere la più grande e difficile delle battaglie, accogliendo i suggerimenti che il Signore, con la mediazione della Madonna che Enzo tanto amava, gli proponeva per diventare, attraverso un faticoso combattimento interiore, quello che tutti abbiamo poi conosciuto e amato.
Questa grande battaglia interiore viene combattuta già dagli anni dell’università, in Cattolica, dove si laurea in Giurisprudenza nel 1983 con una tesi su un tema, il Sessantotto, che continuerà a studiare e con il quale si confronterà per tutta la vita.
Dopo avere percorso l’itinerario formativo che molti di noi hanno sperimentato nell’associazione alla quale aveva aderito, nella seconda metà degli anni 1970, Enzo costituisce, con quelli che saranno gli amici più cari, e poi guida la croce dedicata e protetta da san Sebastiano martire, una delle più importanti fra quelle che hanno permesso l’esistenza e il radicamento di Alleanza Cattolica nella città di Milano.
Dopo la laurea e l’inizio dell’attività professionale in una grande azienda milanese, Enzo sposa Sabrina Pagani il 1° ottobre 1988. Dal loro felice matrimonio nasceranno Carlo, Francesco, Sebastiano e Lorenzo, e accanto alla comunità familiare si costituirà anche una altrettanto feconda comunità professionale, nel campo del diritto del lavoro.
Poche persone hanno saputo, come Enzo, coniugare legami familiari, impegno professionale e militanza cattolica in un’unica testimonianza, che sapeva certamente distinguere gli ambiti, ma per unire, per legare, per tenere insieme.
È proprio questa straordinaria capacità di relazione la sua più grande e più bella eredità. Una capacità di relazione che non è rimasta soltanto legata alla sua pur preziosa persona, ma che ha saputo costituire ambienti, occasioni, realtà che dovranno continuare.
Queste realtà nascono in qualche modo tutte dalla sua riflessione sul Sessantotto. Enzo sapeva che quella Rivoluzione culturale aveva colpito soprattutto le famiglie e i giovani e così a giovani e famiglie dedicherà gli ultimi dieci anni della sua vita. Il suo impegno nasceva certamente dallo studio e dall’analisi, storica e culturale, ma anche dalla consapevolezza che la rivoluzione del Sessantotto si era radicata soprattutto nelle tendenze delle persone e dunque comportava la costituzione di ambienti, dove queste tendenze potessero essere rieducate, anche attraverso l’esempio. Così il suo ufficio, la sua casa erano luoghi dove lui e Sabrina offrivano generosamente e costantemente il loro tempo, i loro consigli, per organizzare e per incontrarsi.
Questo impegno ha dato molti frutti. Uno di questi è certamente il saggio “Gli anni del desiderio e del piombo. Sessantotto: terrorismo e rivoluzione”. Un libro ben costruito, ricco di riferimenti bibliografici, frutto di tante letture, ma soprattutto un libro pensato per l’apostolato, per quelle centinaia di giovani che Enzo ha incontrato e continuava a incontrare, per aiutarli a crescere, spiritualmente e intellettualmente, affinché diventassero delle persone pronte a rendere a Dio la gloria che merita. Accanto ai giovani le famiglie, per le quali ha dedicato tanto tempo con lo stesso entusiasmo e con la medesima intelligenza, consapevole che nessuno potrà mai sostituirsi alla famiglia nell’educazione dei figli e perfettamente cosciente di quanto la famiglia sia stata ferita dai disastri culturali ed esistenziali provocati dal Sessantotto.
Un libro che, quel primo pomeriggio del 1° gennaio, mi ha messo fisicamente in mano, dicendo che aveva pensato all’Isiin, l’Istituto Storico dell’Insorgenza e per l’Identità Nazionale, per aiutarlo a completare l’opera, prima della pubblicazione. E così è stato.


Autore: Marco Invernizzi

 

Marco Tangheroni

Pisa, 24 febbraio 1946 – 11 febbraio 2004


Scompare la figura di un illustre medioevista, cattolico impegnato e perciò ignorato dal mondo accademico, segnato dalla Croce.
Il professor Marco Tangheroni, medioevista di pregio dell’Università di Pisa, è deceduto nel pomeriggio di mercoledì 11 febbraio. Le sue condizioni di salute erano precarie da lungo tempo, ma negli ultimi giorni si erano aggravate in maniera che oggi sappiamo irreversibile. Eppure, con quell’atteggiamento tipicamente umano che mai vorremmo divenisse però troppo e solo umano, Tangheroni sembrava destinato a non andarsene mai.
È paradossalmente più facile scrivere in morte di quegli spiriti grandi e lontani che ammiriamo, ma che stanno là, sulle copertine dei libri o nelle accademie. La distanza, che non diminuisce il rispetto, aiuta, protegge. Pensare, invece, in questi frangenti, di porre mano alla penna per parlare di una persona vicina, che si è conosciuta, frequentata, amata e stimata, una persona con cui si è pranzato e riso, discusso e militato, e da cui soprattutto si è molto imparato, imbarazza, quasi paralizza. Ci si sente – ed è proprio il caso del sottoscritto – come si sentivano nei confronti della Gente Alta quei piccoli hobbit creati dal genio letterario di un autore che Tangheroni apprezzava profondamente: sovrastati, superati e quindi “intimoriti”.
La prima cosa che ho imparato da Marco Tangheroni mi è rimasta fissa nel cuore; e, proprio perché fu la prima, resta la più immediata, la più difficile da scordare. Erano i tempi in cui muovevo i primi passi in un mondo più grande (ma ogni giorno si muovono primi passi in mondi più grandi, sempre più grandi…) accorgendomi non tanto dell’esistenza di “maestri” (mai termine è stato più abusato…), quanto del fatto che nell’esistenza uno di padri ne ha molti. Ovvero scopre di averne molti: insospettati, “strani”, ignorati o scordati per anni, putativi e adottivi, ma sempre fondamentali. Marco Tangheroni, storico attento, usava dire che la storia si fa con i “se” e con i “ma”.
Oggi va di moda chiamarla “storia parallela” (sottobranca di quella che si definisce ucronia), ma per Tangheroni era il modo di sottolineare l’imponderabilità del fattore umano, ossia la grandezza della libertà della persona che nessun riduzionismo deterministico può cancellare. Era il suo modo di fare storia in maniera attenta al suo soggetto principe, l’uomo, senza sacrificarlo agli umanesimi senz’anima. Era il suo modo di raccontare la vicenda umana (l’uomo è l’unico essere creato che sappia dare valore al tempo e quindi fare storia) contro ogni ideologia.
Nato a Pisa il 24 febbraio 1946, in questa stessa città Tangheroni studia per poi laurearsi all’Università di Cagliari con una tesi su Gli Alliata. Una famiglia pisana del Medioevo, relatore il professor Alberto Boscolo (1920-1988). Docente nelle università di Cagliari, di Barcellona, di Sassari e di Pisa, dove è stato professore ordinario di Storia Medievale e direttore del Dipartimento di Medievistica fino alla morte pochi giorni fa, nei suoi studi ha toccato i più diversi aspetti della realtà medioevale, da quelli economici a quelli religiosi, indirizzandosi soprattutto all’area mediterranea. Autore di diversi volumi sulla storia di Pisa, della Toscana e della Sardegna, oltre a un centinaio di articoli scientifici su riviste italiane e straniere, ha pubblicato, fra l’altro, Politica, commercio, agricoltura a Pisa nel trecento (Pacini, Pisa 1973; n. ed. Plus, Pisa 2002); La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo (Liguori, Napoli 1985) e Medioevo Tirrenico (Pacini, Pisa 1992). La sua ricerca ha poi trovato espressione compiuta nell’opera Commercio e navigazione nel Medioevo (Laterza, Roma-Bari 1996). Collaboratore dei Il Messaggero Veneto, Avvenire, Secolo d’Italia, il Giornale e L’Unione Sarda, nonché alle riviste Cristianità, Jesus, Storia e Dossier e Medioevo, ha curato l’edizione italiana di opere di grande valore storico, fra cui il volume di Jacques Heers, La città del Medioevo (trad. it., Jaca Book, Milano 1995) e ha collaborato alla redazione del quinto volume di The New Cambridge Medieval History, dedicato al periodo compreso fra il 1189 e il 1300, curato da David Abulafia e pubblicato nel 1999 dalla Cambridge University Press.
Militante dell’associazione civico-culturale Alleanza Cattolica dal 1970, ne è stato socio fondatore dalla sua costituzione giuridica nel 1998, svolgendo un’intensa attività di conferenziere, sia su temi specificamente storici, sia su temi connessi alla dottrina sociale della Chiesa e all’attualità politica.
Tangheroni, infatti, era uno specialista del Medioevo, ma i suoi scritti e i suoi interventi pubblici – dedicati per esempio alla rivoluzione cosiddetta francese o alla storiografia nazionalista di Gioacchino Volpe – brillano ancora oggi per lucidità e per sapidità. Alla Fondazione Volpe, del resto, Tangheroni legò a suo tempo il proprio nome, nel tentativo, in anni oramai lontani e molto diversi da quelli attuali, di offrire un’alternativa culturale credibile a un Paese, il nostro, che, fra relativismo e catto-comunismo, sembrava aver perso la bussola.
Fu proprio per i tipi di Giovanni Volpe, infatti, che Tangheroni promosse e curò personalmente le edizioni italiane di due opere straordinarie, sia per i loro meriti intrinseci, sia per il carattere dirompente che la loro pubblicazione ebbe in un clima assolutamente ostile: Ritorno al reale. Nuove Diagnosi di Gustave Thibon nel 1972 e Luce del medioevo di Régine Pernoud nel 1978. Due opere provenienti dalla Francia e assolutamente “controcorrente”, che Tangheroni riuscì a far portare in lingua italiana dall’editore Volpe su indicazione di Giovanni Cantoni, fondatore di Alleanza Cattolica. Nella prima, Gustave Thibon, un vignaiolo autodidatta del Midi francese (colui che, tra l’altro, salvò Simon Weil dalla persecuzione antiebraica) riempiva pagina dopo pagina di aforismi e di pensieri implicitamente alla scuola della filosofia che oggi – dopo gl’importanti studi svolti da monsignor Antonio Livi – definiremmo del “senso comune”, ottenendo così la stima e il rispetto (anche per le sua capacità di arguzia filosofica, per esempio nei riguardi della speculazione tomista) di Jacques Maritain, di Gabriel Marcel e di Marcel de Corte (quest’ultimo amico personale e maestro, questa volta sì, di Tangheroni stesso). La traduzione in lingua italiana di Ritorno al reale venne pubblicata con questa dedica thiboniana autografa: “Ai giovani amici pisani che hanno voluto l’edizione italiana di questo libro, all’editore Giovanni Volpe che lo ha pubblicato, con viva amicizia e gratitudine”. I “giovani amici pisani” erano il nucleo locale di Alleanza Cattolica, “capitanato” da Marco Tangheroni.
Nella seconda, Régine Pérnoud – una storica ignorata dalla “cultura ufficiale, forse solo perché rea di dire la verità, e di documentarla, sull’epoca più bistratta di tutta la storia occidentale – compila una sorta di manualetto controcorrente rispetto alla cattiva vulgata che circola a proposito della Cristianità romano-germanica, spregiativamente, illuministicamente detta “Medioevo”.
Tangheroni descriveva la Pernoud (tra l’altro frequentatrice dello stesso padre spirituale, il domenicano Joseph-Marie Perrin, che aveva messo in contatto Thibon e la Weil) come una specialista sui generis solamente perché… svolgeva appieno il mestiere dello storico. Non senza qualche ragione, Umberto Eco – che Tangheroni attaccò senza mezzi termini per quel suo Il nome della rosa, che del cosiddetto “Medioevo” offre un’immagine bugiarda – ha scritto che tutti i libri sono in realtà libri di libri, in questo imitando Jorge Louis Borges. Eppure per uno storico non dovrebbe essere così. Tangheroni sottolineava che la Pernoud non si limitò a compilare le proprie opere come centoni delle opere di altri, i quali a loro volta usano libri di altri storici, e così via non tanto all’infinito quanto in un cerchio eternamente autoreferenziale. La Pernoud si differenziava da molti suoi colleghi – soprattutto francesi – più noti e coccolati dai media e dalla “cultura ufficiale” perché restava e sempre partiva dai documenti, dalle biblioteche, dai fondi di archivio. Sembra un assurdo, ma in realtà pochi lo fanno.
Ebbene, Tangheroni era come la Pernoud. Chi fosse chiamato a elencare i grandi storici contemporanei della nostra Italia, forse si scorderebbe di ricordare il medioevista pisano: e questo, ancora una volta paradossalmente, proprio perché, lontano dalle luci della ribalta e dalla smania per i media che travolge anche i professionisti in tesi più integerrimi, Tangheroni ha svolto davvero il lavoro dello storico. Forse ce ne si renderà conto solo in futuro, in un mondo diverso da quello attuale.
Ma, lungi dall’essere un topo esclusivamente di biblioteca, il professor Marco Tangheroni fu animato anche dalla passione per le sorti civili e politiche di questo Paese, e alla bisogna non esitò mai a schierarsi apertamente. Dire che non lo fece a sinistra sarebbe un eufemismo, addirittura un understatement. Cattolico integrale, sapeva bene che la vittoria non è di questo mondo e tantomeno il paradiso: sapeva però altrettanto bene quanto sia importante lasciare da questa parte del Cielo un poco di ordine in più affinché le persone possano essere aiutate a non smarrirsi.
Diceva Thibon: “Porto in me dei morti più viventi che i vivi. Il mio più grande desiderio è quello di ritrovarli”. Ora Marco Tangheroni è un amico in più Là dove sul serio conta. Pax tibi Marce.


Autore: Marco Respinti