Il pensiero del giorno

Domenica 7 agosto 2022 – XIX domenica del Tempo ordinario

Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 1,1-2.8-19; Lc 12,32-48


Il Vangelo odierno offre diversi spunti di riflessione. Soffermiamoci in particolare su quello contenuto nella frase iniziale: «In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Non temere, piccole gregge”». Questa frase conclude la prima parte del capitolo 12 di Luca, dedicata all’insegnamento di Gesù su cosa i suoi discepoli devono temere o non devono temere: «Non temete coloro che uccidono il corpo e dopo non possono far più nulla…Temete colui che dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna» (Lc 12,4-5).

Il timor di Dio, o “timore religioso”, si presenta in due forme. C’è un timore di Dio che è sempre conseguenza del fatto che Dio è Dio e noi siamo uomini: è il sentimento del divino, del soprannaturale. Quando Jahvè si manifesta «il popolo è scosso da tremore» (Es 19,16). La cosa si ripete nel Nuovo Testamento: di fronte alla potenza di Gesù sul lago, i discepoli sono colti da grande timore (Mc 4,41); sul Tabor, i discepoli sono spaventati (Mc 9,6). Dio rincuora l’uomo, lo sostiene in questa paura, accompagnando di solito la sua apparizione con le parole: “Non temere! Sono io, il tuo Dio”. Lo dice ad Abramo, a Maria, a Paolo. 

C’è un secondo timor di Dio, che è connesso invece con il peccato e che è o paura di commettere peccato, o paura di aver commesso il peccato. Quest’ultimo si identifica con il sentimento di colpa, o rimorso, e appare subito dopo il primo peccato: «Ho udito il tuo passo nel giardino e ho avuto paura» (Gn 3,10). 

In genere, quando la Bibbia inculca come un valore e un dono dello Spirito Santo il timore di Dio, parla della prima specie di timore: quello che precede il peccato e che porta ad evitare il peccato stesso. Questo timore di Dio è chiamato «l’inizio della sapienza» (Pr 1,7). E’ il timore di cui parla Gesù nel nostro testo, quando dice: «Temete colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna». Si tratta di una tappa obbligata di ogni esperienza religiosa. Ma, per il Vangelo, non è l’ultima tappa: l’ultima tappa è l’amore. Il supremo comandamento di Dio non è: “Temerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore”; ma: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore»! Se Gesù qui inculca di temere Dio e non gli uomini è perché non si passa dalla paura degli uomini direttamente all’amore di Dio senza passare attraverso il timore di Dio. Giovanni dice: «Nell’amore non c’è timore; al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore» (1Gv 4,18). Non bisogna disprezzare il timore di Dio, ma aspirare ad avere un amore tale che scacci il timore e lo renda quasi superfluo. Paolo esorta a non fermarsi a una religiosità fondata sull’osservanza della legge, perché questa alimenta la paura della trasgressione e mantiene nella paura, trasformando Dio da Padre a padrone: «Non avete uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito di figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre!» (Rm 8,15).

Non si deve, però, schematizzare eccessivamente e opporre troppo nettamente lo spirito del timore di Dio allo spirito dell’amore di Dio. C’è una forma del timore di Dio – il timore reverenziale – che è molto vicino all’amore e sta bene anche nei rapporti fra figlio e padre (specie nei rapporti con questo Padre!). Esso può e deve coesistere anche con il sentimento di confidenza. Di esso parla il Salmo responsoriale di oggi, quando dice: «Ecco, l’occhio del Signore veglia su chi lo teme». Al fondo del sentimento dell’adorazione e della lode, c’è sempre un po’ di questo sentimento di timore reverenziale, che sopra ho chiamato sentimento del divino e del soprannaturale.

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