Il “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger: introduzione alla lettura

(Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, ed. italiana a c. di Ingrid Stampa e Elio Guerriero, Rizzoli, Milano 2007)
Appunti di una Conferenza tenuta a Filetto e in altre parti d’Italia da don Pietro Cantoni

Il libro che qui voglio presentare ha per autore Joseph Ratzinger/BenedettoXVI. Pur essendo cosa di per sé evidente, nella premessa, Benedetto XVI precisa che non si tratta di “un atto magisteriale”, per cui “ognuno è libero di contraddirmi” (p. 20). Che un Papa scriva un libro come autore “privato” non è una novità: lo ha fatto Giovanni Paolo II, che ci ha lasciato ben cinque libri (Varcare la soglia della speranza; Dono e mistero; Trittico romano; Memoria e identità; Alzatevi, andiamo!); Paolo VI con un libro-intervista, Leone XIII con un poema in latino, Benedetto XIV con un’imponente opera teologica sulla beatificazione e la canonizzazione…

Indubbiamente il fatto crea qualche problema. Non è questo un modo scorretto per introdurre le proprie idee nel corpo della Chiesa sottraendosi alla discussione e alla critica? Un cattolico – si è detto – si troverà sempre molto imbarazzato a contraddire il Papa. Direi invece che si tratta di un modo nuovo (relativamente nuovo, lo abbiamo visto) di esercitare il ministero apostolico nelle circostanze culturali e comunicative nelle quali ci troviamo a vivere. Forse l’utopia più pericolosa non è quella che riguarda il futuro, ma quella rivolta al presente, per cui non ci si limita a sognare un mondo futuro irreale, ma ci si abitua a vivere in un mondo che non è quello vero, in un non-dove. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, un gran imbarazzo a contraddire il Papa, anche tra gli uomini di Chiesa, oggi non c’è. Siamo tentati di dire: purtroppo! Questo è dunque un rischio piuttosto remoto, mentre è assolutamente reale il problema di rendere accessibile al grande pubblico una proposta della Chiesa che si presenti in termini strettamente autoritativi. Se il Papa avesse confezionato un documento sulla lettura storico critica dei Vangeli (questi documenti – anche molto recenti – esistono già) e sulla questione del Gesù storico, pochi l’avrebbero letto e – se una discussione fosse nata – essa sarebbe rimasta circoscritta alla cerchia ristretta degli addetti ai lavori o dei fedelissimi. Il suo desiderio manifesto invece è proprio quello di raggiungere la più vasta area possibile di lettori, quella, almeno tendenzialmente, che è rimasta toccata da presentazioni fantasiose e maliziose della vita e dell’opera di Gesù, di cui il caso emblematico è costituito dal famigerato Codice da Vinci.

Di che cosa parla questo libro? Da più parti si è parlato di “meditazione spirituale”. In molti casi quest’espressione ha assunto una coloritura dispregiativa: “omelie papali”. Qualcosa insomma che non ha nulla a che fare con la scienza. Niente di più inesatto. Senz’ombra di dubbio si tratta di un’opera di teologia. Ma ha senso allora – è scientifico – affermare che la teologia non è scienza? Questa è comunque un’opinione che merita rispetto (per rispetto della persona o delle persone che la propongono) ma che non può presentarsi come qualcosa di scontato, perché tale non è affatto. La stessa osservazione vale anche a proposito di un’opera di carattere “spirituale”. C’è modo e modo di scrivere di spiritualità. Tuttavia è vero che la spiritualità autentica deve essere teologica e la teologia autentica deve essere spirituale. Qui ci troviamo davanti ad un’opera chiaramente teologica, con altrettanto chiara connotazione spirituale e con evidente pretesa di scientificità. Il fatto che l’autore faccia riferimento ad una “ricerca personale del “volto del Signore”” (ibidem), quindi in evidente relazione alla sua vita di fede non dice proprio nulla in merito: sono riflessioni spirituali che si situano nel momento di piena maturità della vita di uno studioso e di uno studioso del livello di Joseph Ratzinger. Così come la parola “teologia”, anche il termine “ricerca personale” non sono affatto sinonimi di “discorso non scientifico”. L’accoppiamento tra ricerca di fede e scientificità a proposito di un argomento così delicato come il Gesù storico ha indubbiamente prodotto disagio tra molti commentatori, a cui si è cercato di ovviare andando alla ricerca di madornali errori che tranquillizzassero il lettore e lo convincessero che il tentativo non era riuscito (perché – in fondo – non può riuscire). Sul punto ho scritto una sintetica valutazione delle principali critiche a cui mi permetto di rimandare (cfr. «Ha sbagliato il Papa? No, i suoi critici» ).

Direi che questo libro, per essere adeguatamente capito, deve essere situato nell’ambito di una delle tematiche più significative ed emergenti del magistero contemporaneo: quello dello stretto ed irrinunciabile rapporto tra fede e ragione. Deve cioè esser posto accanto all’enciclica Fides et ratio e al giustamente famoso “Discorso di Ratisbona” (12 settembre 2006). La ragione non ha soltanto una funzione calcolante e tecnica, suo oggetto non è solo il fattibile, ma ha una strutturale apertura metafisica. Le grandi domande sul senso ultimo del mondo, della vita e dell’uomo non appartengono quindi soltanto alla fede. Anzi, esse hanno senso per la fede, un senso oggettivo, solo se sono colte come domande essenziali dell’uomo, domande della ragione.

Questo problema raggiunge per così dire il suo apice e il suo punto di convergenza più delicato proprio in quel punto che è il cuore della fede cristiana: Gesù Cristo. Gesù Cristo è insieme un dato della nostra fede e un evento della storia. Come dato della fede ha una centralità assoluta: in lui si concentra tutto, perché in lui “abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9). Come dato della storia ha una accessibilità per la ragione storica dell’uomo che non può essere negata. L’identità tra questi due aspetti della persona di Gesù, tra il “Cristo della fede” e il “Gesù della storia”, secondo la terminologia che è ormai entrata in uso a partire da un’opera famosa (1892) dello studioso tedesco Martin Kähler, costituisce anzi – secondo Benedetto XVI – il punto di tensione di tutte le narrazioni evangeliche (cfr. p. 272). Il tentativo di sciogliere questo misterioso legame, che ha avuto un momento critico e decisivo nell’opera di David Friedrich Strauss, Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet (La vita di Gesù elaborata criticamente), del 1835, attraversa tutta la storia della modernità e continua anche nella postmodernità. Come è noto l’opera di Strauss fa da punto di scissione tra “sinistra” e “destra” hegeliana, ma costituisce anche un punto centrale nella storia della moderna ricerca sul Gesù storico, punto non ancora sufficientemente valutato in tutta la sua emblematicità. Certamente il Papa ha presente tutta questa storia, anche se non la richiama mai direttamente, neppure in riassunto, e il titolo stesso Gesù di Nazaret e non per esempio Gesù il Cristo lo suggerisce apertamente.

Non si tratta ovviamente di una biografia di Gesù, sogno ormai – giustamente – abbandonato. Neppure di una pura e semplice meditazione spirituale sganciata dai problemi scientifici sollevati dalla persona di Gesù di Nazaret. Non è ovviamente neppure un tentativo di portare un nuovo contributo sistematico e tendenzialmente completo alla sterminata letteratura sul Gesù storico. È “semplicemente” una risposta che parte dalla fede, ma che fa uso di quanto di meglio la ricerca scientifica e l’esegesi storico-critica hanno elaborato sui testi evangelici, alla domanda emergente nel contemporaneo mondo post-moderno: chi è veramente Gesù?

“Quello che i Vangeli raccontano, così come sono interpretati dal dogma ecclesiastico, è successo veramente?” Questa domanda per il cristianesimo è capitale. Per altre religioni e visioni del mondo non è così. Che il Buddha sia veramente esistito in fondo importa poco. Quello che conta è che la sua dottrina sia vera, cioè che, seguendola, si possa entrare nel “Nirvana”. Poco importa quello che hanno veramente detto e fatto Carlo Marx o Vladimir Ilič Ulianov detto “Lenin” o Josif Vissarionovič Džugašvili detto “Stalin”, ciò che conta è che il comunismo trasformi il mondo. Questi fatti possono cioè essere idealizzati, manipolati, trasformati, magari proprio al servizio della “causa”, senza che questa ne venga troppo scossa.

Uno potrebbe dire: in fondo che cosa mi interessa se veramente Gesù è nato a Betlemme, se veramente sua madre lo ha concepito senza concorso di uomo, se veramente ha percorso le vie della Palestina, è salito sulle barche dei pescatori del lago di Galilea? Se veramente è stato messo in croce? Se tutta quella storia di morte e risurrezione descriva proprio dei fatti o sia soltanto un “mito”? Ciò che conta è il “messaggio” di Gesù: “ama il prossimo tuo come te stesso” o altri ideali sublimi dello stesso genere (“la pace, la giustizia e la salvaguardia della creazione” p. 77). Che la persona di Gesù di Nazaret, così come ci è descritta dai Vangeli, abbia una sua corposità storica non è molto importante. Anche se fosse una finzione, sarebbe pur sempre uno splendido modello da imitare, così che se non ci fosse andrebbe inventato! Cerchiamo di imitarlo e basta!

Chi ragionasse così avrebbe frainteso il cristianesimo nel modo più radicale. E infatti questo fraintendimento non è nuovo, ma ha una lunga storia. Fin dalle primissime origini del cristianesimo, alcuni, gli “gnostici”, hanno preteso di trasformare il fatto cristiano in un complicato sistema di miti e di simboli. Contro questo pericolosissimo fraintendimento dovette già lottare la primitiva comunità cristiana. “Molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo” (1 Gv 4, 1-3). La gnosi è la prima delle eresie e accompagna il cristianesimo lungo tutta la sua storia come una tentazione costante.

Per lo gnostico il cristianesimo è innanzitutto una dottrina. Il fatto si riduce a qualcosa di secondario, di soltanto decorativo e strumentale. Per il cristiano invece l’essenziale è una persona e un fatto: “Gesù Cristo è venuto nella carne”, cioè è realmente entrato nella storia degli uomini. La sua venuta è un avvenimento. “L’unità di Logos e fatto è la meta a cui mira il Vangelo” (p. 272). La lotta contro la gnosi (come in genere contro le eresie) non è per il cristianesimo una questione accademica, soltanto speculativa, ma è una questione di vita o di morte. Se non è avvenuto nulla nella storia, e se non è avvenuto come è narrato nei Vangeli, allora nulla di simile neppure può avvenire dentro di me, dentro la mia storia. E’ importante sapere che cosa si deve fare, ma più importante ancora è essere capaci di farlo: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,11-12). I primi cristiani hanno diffuso l’annuncio di un fatto. Euangelion, spiega Joseph Ratzinger, non vuol dire soltanto buona notizia, annuncio di un fatto gioioso (nel significato antico: di una vittoria), “è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo” (p. 70). Senza fatto non c’è Vangelo, quindi non c’è Cristianesimo.

Questo fatto, essendo l’avvenimento di Dio che si fa uomo per la nostra salvezza, può essere colto compiutamente solo con la fede. Dio e i suoi disegni non possono infatti essere racchiusi nella nostra mente. Un Dio che si lasciasse “inscatolare” nelle nostre idee non sarebbe più Dio. Ma in quanto fatto ha una sua corposità storica e quindi può esser colto anche con la ragione. Anche, non solo.

Per capire come la storia di Gesù è accessibile alla ragione umana è molto utile interrogare proprio la storia e ripercorrere, anche se molto schematicamente, le vicende della ricerca moderna sulle origini del Cristianesimo.

Oggi è invalso l’uso di suddividere la “ricerca sul Gesù storico” in tre fasi, individuando una prima, seconda e terza ricerca. La prima ricerca o “vecchia ricerca” (Old Quest) è quella che va dall’Illuminismo, momento di nascita di tutta la problematica, fino a Rudolf Bultmann (1778-1906). Con quest’ultimo essa giunge ad una conclusione di radicale pessimismo. La seconda fase o New Quest (1953-1975) prende l’avvio dai discepoli di Bultmann che reagiscono al pessimismo del maestro riconquistando ampi spazi della dimensione storica di Gesù sia a livello teologico che a livello di ricerca storica. Il punto di partenza è costituito senz’altro da un articolo di Ernst Käsemann (Das Problem des historischen Jesu, in “Zeitschrift für Theologie und Kirche” LI [1954], pp. 125-153). Nella terza fase (Third Quest) siamo immersi oggi, con aspetti positivi (accentuata fiducia nella possibilità di lavorare come storici attorno alla figura di Gesù, soprattutto basandosi sulle fonti giudaiche) e negativi (persistenza dei problemi metodologici causati dalla carenza di una adeguata consapevolezza filosofica). Uno dei suoi esponenti più significativi è John P. Meier che ha iniziato nel 1991 un’opera in quattro volumi (tre finora usciti) dal titolo Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico. Indubbiamente – per esempio – la questione dei miracoli è affrontata con maggiore spregiudicatezza: i pregiudizi illuministici sono ampiamente (ma non completamente) caduti.

Vista a grandi tratti l’avventura dell’esegesi razionalista o “liberale”, possiamo chiederci se esiste un cammino che possa condurci ad un risultato più positivo.

Dobbiamo innanzitutto chiarire in che senso i Vangeli sono libri di storia. Non certamente nel senso di una nuda e fredda esposizione di fatti. I Vangeli sono innanzitutto predicazione. Tuttavia una predicazione radicata nel fatto. Non sono neppure una riproduzione “fotografica” degli avvenimenti o “magnetofonica” dei discorsi. Né l’una né l’altra di queste condizioni sono d’altra parte necessarie perché un racconto possa essere detto “storico”.

Mettiamoci davanti agli occhi due immagini bibliche. La torre di Babele (Gen 11,1-9) e la scala di Giacobbe (Gen 28,12). La torre di Babele rappresenta bene – a mio avviso – l’ormai secolare impresa della ricerca sulla vita di Gesù. I passaggi attraverso cui si è articolata, tre (o due secondo alcuni), non hanno sostanzialmente mutato il quadro. Il punto di partenza rimane sostanzialmente lo stesso: mettere da parte la fede nel modo più radicale possibile e fermarsi programmaticamente a ciò che può essere comunemente ritenuto umanamente “plausibile”. Il procedimento – anche con questo presupposto – può essere più o meno ben articolato, più o meno onestamente rispettato, ma i risultati si sono rivelati molteplici e contraddittori. La varietà e la contraddittorietà dei risultati è sconcertante. La consapevolezza ermeneutica, che sostituisce forse il solo vero significativo segnale di tappa, facendo piazza pulita dall’illusione di una oggettività storica che possa fare a meno di qualsiasi presupposto, se ha spiegato meglio il perché della varietà dei risultati, non ha però fornito nessun antidoto convincente.

La torre di Babele produce fatalmente la dispersione delle lingue. Chi è Gesù? Uno, nessuno, centomila…

Altro è il risultato della scala di Giacobbe che mi sembra essere il modello del Papa. Come gli angeli salgono e scendono lungo la scala che congiunge la terra al cielo, così il pensiero va dai fatti ai principi e dai principi (che possono essere assunti come ipotesi) ai fatti. È l’andirivieni ermeneutico, che non è quello di un circolo vizioso. Il punto di partenza è quello dato dalla fede della Chiesa e quindi dei Vangeli letti con questo indispensabile criterio. Ormai si è capito che non si può rinunciare ai pregiudizi e che la rinuncia ai pregiudizi è solo l’ennesimo – ma inconsistente – pregiudizio. Partire dall’ipotesi della fede, la fede del simbolo apostolico, che è la fede del Battesimo e la fede dei semplici, è antiscientifico? No, perché la scienza procede proprio così: per mezzo di ipotesi. Quando rinuncia ad un’ipotesi è solo per sostituirla con un’altra. È espressione di fideismo? No, perché l’ipotesi è qui intesa come il criterio che sta a fondamento di una spiegazione, la quale, nell’atto di spiegare, esibisce le sue ragioni e si sottopone apertamente alla discussione e alla critica razionale. L’ipotesi della fede non potrà mai essere razionalmente “dimostrata”, perché essa sovrasta l’uomo e supera – per eccesso di luminosità – le sue capacità intellettive; potrà però – in modo assolutamente razionale – presentarsi come l’ipotesi più forte e vantaggiosa rispetto a quelle ad essa alternative. “[…] io ho fiducia nei Vangeli. Naturalmente do per scontato quanto il Concilio e la moderna esegesi dicono sui generi letterari, sull’intenzionalità delle affermazioni, sul contesto comunitario dei Vangeli e il loro parlare in questo contesto vivo. Pur accettando, per quanto mi era possibile, tutto questo, ho voluto fare il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio. Io sono convinto, e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore, che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente” (pp. 17-18).

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