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Mercoledì 5 aprile 2023. La croce di Cristo fa germogliare in noi la vera speranza

di Michele Brambilla

L’udienza che introduce al Triduo pasquale vede Papa Francesco ricordare, la mattina del 5 aprile, che «domenica scorsa la Liturgia ci ha fatto ascoltare la Passione del Signore» e, mentre farisei e Romani pensavano di aver chiuso i conti con il Nazareno, «nella mente dei discepoli rimaneva fissa un’immagine: la croce». E anche per loro sembrava tutto finito.

«Ma di lì a poco avrebbero scoperto proprio nella croce un nuovo inizio», perché quel Crocifisso si sarebbe ridestato dai morti, illuminando di nuovi significati i patimenti subiti davanti a tutto il popolo. «Quel legno di morte, diventato albero di vita, ci ricorda che gli inizi di Dio cominciano spesso dalle nostre fini. Così Egli ama operare meraviglie. Oggi, allora, guardiamo l’albero della croce perché germogli in noi la speranza: quella virtù quotidiana, quella virtù silenziosa, umile, ma quella virtù che ci mantiene in piedi, che ci aiuta ad andare avanti. Senza speranza non si può vivere». «Pensiamo: dov’è la mia speranza? Oggi, guardiamo l’albero della croce perché germogli in noi la speranza: per essere guariti dalla tristezza – ma, quanta gente triste», dice il Pontefice pensando a quello che vedeva per le strade di Buenos Aires, ma non è forse lo stesso anche qui? Siamo tristi perché guardiamo altrove, lontano da quel Crocifisso che solo ci dà la salvezza.

Nel suo essere spogliato Dio Figlio vince i peccati dettati dall’apparenza, perché «noi, infatti, facciamo fatica a metterci a nudo, a fare la verità: sempre cerchiamo di coprire le verità perché non ci piace; ci rivestiamo di esteriorità che ricerchiamo e curiamo, di maschere per camuffarci e mostrarci migliori di come siamo. È un po’ l’abitudine del maquillage: maquillage interiore, sembrare migliore degli altri … Pensiamo che l’importante sia ostentare, apparire, così che gli altri dicano bene di noi. E ci addobbiamo di apparenze, ci addobbiamo di apparenze, di cose superflue; ma così non troviamo pace». Oggi, dice il Papa, si ama dire che tutto è “complesso”, ma in realtà «abbiamo bisogno di semplicità, di riscoprire il valore della sobrietà, il valore della rinuncia, di fare pulizia di ciò che inquina il cuore e rende tristi».

«Rivolgiamo un secondo sguardo al Crocifisso e vediamo Gesù ferito. La croce mostra i chiodi che gli forano le mani e i piedi, il costato aperto. Ma alle ferite del corpo si aggiungono quelle dell’anima»: Gesù solo “sconta” anche le nostre solitudini postmoderne? «Dio non nasconde ai nostri occhi le ferite che gli hanno trapassato il corpo e l’anima. Le mostra per farci vedere che a Pasqua si può aprire un passaggio nuovo: fare delle proprie ferite dei fori di luce. “Ma, Santità, non esageri”, qualcuno può dirmi. No, è vero: prova; prova. Prova a farlo. Pensa alle tue ferite, quelle che tu solo sai, che ognuno ha nascoste nel cuore. E guarda il Signore. E vedrai, vedrai come da quelle ferite escono fori di luce. Gesù in croce non recrimina, ama», e così distrugge alla radice il veleno del male. 

«Fratelli e sorelle, il punto non è essere feriti poco o tanto dalla vita, il punto è cosa fare delle mie ferite», perché «tu puoi lasciarle infettare nel rancore, nella tristezza oppure posso unirle a quelle di Gesù, perché anche le mie piaghe diventino luminose. Pensate a quanti giovani non tollerano le proprie ferite e cercano nel suicidio una via di salvezza», insiste. Una periferia esistenziale di cui ci si occupa ancora troppo poco a livello sociale.

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