Dossier: Quella Messa si può fare

Dossier: Quella Messa si può fare
Summorum Pontificum

Il Timone, settembre-ottobre 2007

don Pietro Cantoni

Il contenuto e le prospettive di u documento tanto atteso. Che cosa dice e come si può applicare nella vita delle parrocchie? Alcune considerazioni e qualche indicazione sul Motu proprio di papa Benedetto XVI.

Attesa da molti con ansia, da non pochi con angoscia, da tutti con curiosità è finalmente stata pubblicata – “frutto di lunghe riflessioni, di molteplici consultazioni e di preghiera” – la lettera apostolica che amplia le facoltà di celebrare la liturgia romana secondo il rito anteriore alla riforma del 1970.

Il contesto storico e dottrinale
E’ stata spesso presentata come un atto improvviso, dall’aria un po’ arbitraria, frutto di ma decisione tutta personale del papa Benedetto XVI, motivata – nella migliore delle ipo:esi – dalla volontà di favorire il rientro nella pienezza della comunione cattolica della Fra:ernità San Pio X, fondata dall’arcivescovo francese mons. Marcel Lefebvre (1905-1991).
Le cose non sono andate così. Il Motu proprio “Summorum Pontificum” ha una lunga storia antecedente che – per tanti versi – trascende l'”affaire” Lefebvre. Quando fu fatta la riforma liturgica non si pensò di dover abrogare la liturgia precedente. Si era infatti convinti che la cosa sarebbe andata da sé: la nuova liturgia avrebbe insensibilmente ed inesorabilmente sostituito l’antica, come era successo spesso nella lunga storia della Chiesa. Gli eventi presero invece decisamente un’altra direzione. Non si era tenuto conto del fatto che la riforma era avvenuta – o, perlomeno, era stata percepita – come qualcosa di “fatto a tavolino” da un gruppo di esperti e non come il frutto maturo di una impercettibile evoluzione storica. Inoltre si era sottovalutato che si trattava della più imponente riforma liturgica di tutta quanta la storia del cristianesimo. Verso la metà del XVII secolo, il patriarca di Mosca Nikita Miniè Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino slavo celebrato dalla Chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni (frantumatosi ben presto in diverse branche) che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti.
Toccare la liturgia è sempre molto rischioso! Così la riforma liturgica non si affermò affatto in modo “indolore”. Da una parte, essa fornì l’occasione ad una serie di scandalosi abusi, dove l’abuso principale – quello strisciante – era l’idea che la liturgia fosse qualcosa di continuamente da inventare, da “fare” e non piuttosto l’accoglienza e la celebrazione del dono e dell’azione di Dio in mezzo agli uomini: “Tutte le volte che celebriamo questi santi misteri si compie l’opera della nostra redenzione” (Preghiera sulle offerte della II Domenica durante l’anno). Dall’altra, suscitò una reazione a volte violenta e a volte nascosta, ma comunque reale e fastidiosa, tale da generare un clima di disagio che finì per rendere problematici i suoi innegabili effetti positivi là dove essa era applicata e vissuta in ossequio alle norme e – soprattutto – in conformità con la teologia liturgica che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium aveva così profondamente delineato.
Questa reazione critica era arrivata – in qualche caso – addirittura a mettere in discussione l’ortodossia della riforma. Cosa assurda e teologicamente molto debole, soprattutto se esaminata dal punto di vista di una corretta ecclesiologia, ma che era resa molto credibile dai tanti abusi liturgici che finivano per addolorare e spazientire i fedeli.
Questo è l’indispensabile contesto in cui va letto il documento.
Innanzitutto, dunque, va considerato che l’antico rito non è mai stato abrogato. Tant’è vero che, ad un certo punto, vista l’inattesa reazione alla riforma, il presidente del Pontificio Consiglio per l’esecuzione della riforma liturgica mons. Annibale Bugnini (1912-1982) si adoperò per ottenerla, ma senza successo. Ci si rese infatti subito conto che si trattava di un atto molto problematico. I canonisti avevano ipotizzato la possibilità di una obrogatio, cioè di una eliminazione di fatto dovuta al totale riordino della materia: si sarebbe comunque trattato di qualcosa di inaudito, cioè dell’abolizione mediante un atto giuridico di un rito liturgico ortodosso e immemoriale. Ci si doveva allora obbligatoriamente riferire al canone 21 del Codice di Diritto Canonico: “Nel dubbio la revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è possibile”.
Il Motu proprio non fa dunque che sanzionare questa situazione di fatto: “questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso” (Benedetto XVI, lettera di accompagnamento).
La Chiesa, davanti al rito antico, si trova a riconoscere, come in altri casi analoghi (per es. l’ordinazione di donne al ministero presbiterale), di non avere con certezza la facoltà di procedere. Questo non significa affatto una limitazione indebita del potere della Chiesa, ma solo il riconoscimento che la consuetudine liturgica, ortodossa ed immemoriale, costituisce una delle espressioni della sua stessa sacra potestas.
La legittima esistenza del rito, che deve essere inteso come forma straordinaria dell’unico rito romano, configura un corrispondente diritto dei fedeli. Per cui se un sacerdote decide di celebrarlo nella forma “sine populo” (cioè al di fuori delle Messe di orario parrocchiali o comunque pubbliche) qualunque fedele può accedere alla sua celebrazione, senza che né il sacerdote né i fedeli debbano chiedere l’autorizzazione a chicchessia. (Cfr. Summorum Pontificum, art. 2 e 4). Per le Messe parrocchiali bisogna che i fedeli costituiscano un gruppo stabile e facciano richiesta al parroco. Se i fedeli legati alla liturgia tradizionale appartengono a diverse parrocchie, è prevista anche la possibilità – a prudente giudizio dell’ordinario di una parrocchia personale (cfr. art. 10). Tutto ciò, assieme alle altre norme che si possono leggere nel documento, aiuta a capire che se si configura un diritto dei fedeli, esso però deve essere vissuto non in un clima da “rivendicazione sindacale” ma nella prospettiva del bene comune della Chiesa e dell’ordine che ad esso intrinsecamente appartiene (cfr. 1 Cor 14,40; 11,16).
È riduttivo dunque leggere il documento solo in una prospettiva di riconciliazione con la Fraternità S. Pio X. Se è vero che la carità ecumenica non è credibile se non si manifesta innanzitutto con il prossimo più prossimo, tuttavia non si deve misconoscere che i punti di frizione con questi fratelli non si riconducono solo al problema liturgico, ma abbracciano altri punti molto delicati: la libertà religiosa, il dialogo interreligioso, l’ecumenismo. In definitiva la Chiesa stessa e il suo magistero, con la tematica a ciò connessa della Tradizione e dello sviluppo dottrinale. “Tutti sappiamo che, nel movimento guidato dall’Arcivescovo Lefebvre, la fedeltà al Messale antico divenne un contrassegno esterno; le ragioni di questa spaccatura, che qui nasceva, si trovavano però più in profondità” (Benedetto XVI, lettera di accompagnamento).
I fedeli direttamente interessati dal Motu proprio poi non si riconducono nella loro stragrande maggioranza a quel movimento e non si tratta affatto di persone anziane legate al loro passato, ma spessissimo di giovani affascinati dal tono ieratico e sacrale dell’antica liturgia.

Un documento nell’ottica della continuità e della riconciliazione
Mi pare invece assai chiaro vedere nel documento una sconfessione visibile, direi “vessillare” dell’ermeneutica della rottura. L'”in principio” remoto è costituito dal Discorso alla Curia Romana tenuto da Benedetto XVI il 22 dicembre 2005, quello in cui il Papa ha identificato la causa principale della crisi in atto nella Chiesa nell’interpretazione errata del Concilio Vaticano II: “due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro”.
Due e non tre… Con quel discorso siamo finalmente usciti dal modello ternario conservatori-progressisti-moderati che rifletteva di fatto anch’esso una lettura ideologica della vita della Chiesa.
Il modello binario di Benedetto XVI è – come deve essere – puramente teologico. Il Motu proprio in questo contesto ha un significato che va ben al di là di un atto di carità ecumenica nei confronti di una minoranza, sebbene ci sia certamente anche quello. È molto più ampio: significa esemplarmente, con quell’esemplarità che compete di suo alla liturgia, la sconfessione dell’ermeneutica della rottura.
Questo fatto fornisce anche a tutti coloro che vogliono assecondare il Magistero nella sua opera di “riforma” un criterio interpretativo prezioso: il Motu proprio deve essere interpretato – e quindi anche applicato e vissuto – in un ottica di continuità e non di rottura. Non è una “rivincita” ma un approfondimento.
Tutto ciò che mette in contrapposizione le due forme di quello che il Papa definisce un unico rito romano porta acqua al mulino dell’ermeneutica della rottura e non risponde all’intentio profonda dell’atto magisteriale. Certamente è legittimo – di per sé – fare confronti. lo posso esprimere un’opinione sul fatto che – poniamo – la liturgia sirooccidentale esprima meglio l’idea di adorazione rispetto a quella copta-alessandrina. O viceversa. Nel caso però, anche se legittime, considerazioni del genere risultano inopportune. Certamente non hanno né possono avere un valore che va oltre a quello di una pur legittima opinione teologica. Così come l’lmitatio Christi sconsiglia caldamente di far confronti tra i santi, credo non sia il tempo e il momento per lanciarsi in disquisizioni su quale sia la liturgia migliore. Il che non toglie nulla al fatto che – per rimanere nell’esempio – uno abbia le sue devozioni preferite. Né che una convivenza di varianti rituali nel contesto dello stesso rito – nel comune convincimento che tutte sono sacre e sante, in quanto dalla Chiesa recepite – faccia del bene sia all’una che all’altra e possa favorire una intelligente e non arbitraria “contaminazione”, il che andrebbe nel senso di quella “riforma della riforma” da tanti auspicata come l’esito proprio e felice delle aspirazioni più profonde e vere del “movimento liturgico” e del rinnovamento promosso dal concilio ecumenico Vaticano II.
La Summorum Pontificum rappresenta dunque anche un implicito invito a dar vita ad un “nuovo movimento liturgico”. Solo un movimento spirituale e culturale di vaste proporzioni può ridare alla liturgia – prendendo come “manifesto” proprio la costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium con i profondi e troppo poco considerati commenti e sviluppi del Catechismo della Chiesa Cattolica – il suo ruolo di fonte e culmine della vita della Chiesa con tutta la bellezza e lo splendore che le competono di diritto. Così come molti nel 1970 pensarono che con un nuovo rito tutto fosse fatto, ora dobbiamo stare attenti a non pensare che adesso, con la possibilità di celebrare il vecchio rito, tutto sia risolto. Pensare, o lasciar credere, che il rito possa sostituire la formazione liturgica è mettere il carro davanti ai buoi, è un incentivo alla pigrizia, che – come ben sappiamo – è una delle principali tentazioni dei “buoni”: “I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16,8).

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