Dall’Italia cattolica ai Di.Co.

1948-2007: che cosa è cambiato in 60 anni Venerdì 18 maggio 2007
Sala convegni – Casa del Pellegrino
Via Ardeatina, km. 12 – Roma

Don Pietro Cantoni, Intervento sul tema
I fondamenti della legge naturale

 

“Se la volontà del popolo, le decisioni del senato, le sentenze dei giudici fossero prese con l’unico criterio della volontà della maggioranza, si potrebbero legalizzare, paradossalmente, il latrocinio, l’adulterio, la falsificazione dei testamenti”
Cicerone, Sulle leggi I 16, 43

Il tema è complesso e mi sforzerò di svolgerlo innanzitutto con un inquadramento. Faccio parte di un associazione, Alleanza Cattolica, nella quale siamo abituati a fare sempre un quadro: si parte “da Adamo ed Eva” e la prospettiva è quella del Giudizio finale. Siamo convinti che inquadrare bene i problemi sia già averli risolti al 50%. Diceva con grande saggezza Sören Kierkegaard: “Come si causa confusione quando s’insegna la geografia con troppe carte specializzate, trascurando di far vedere sul mappamondo la posizione reciproca dei paesi (si può infatti aver l’illusione che la Danimarca per esempio sia grande come la Germania), così le minuzie disturbano il discorso religioso se la categoria della totalità non dà l’orientamento dappertutto, almeno indirettamente” (1).

Dopo l’indispensabile inquadramento (§ 1), vorrei parlare del discorso che Benedetto XVI ha tenuto all’Università di Ratisbona il 13 settembre di quest’anno e che è balzato alla ribalta delle cronache a causa di quella frasetta dell’imperatore Manuele II Paleologo che ha a che fare col nostro argomento (§ 2). Concluderò, nella terza parte, entrando nel vivo della questione della legge naturale (§ 3).

1. Lo scontro (o l’incontro…) delle civiltà

Emerge sempre di più come un problema reale, ineludibile, il fatto che ci troviamo di fronte a tante prospettive, a tante culture che convivono nello stesso pianeta. C’è stato un periodo in cui la prospettiva era fortemente ideologizzata: c’erano delle ideologie che si contrapponevano e il quadro era molto falsato da questa radicale contrapposizione. Mio fratello, Giovanni Cantoni, direttore della rivista Cristianità, fa spesso questo esempio che trovo molto calzante: “è come trovarsi di fronte ad un paesaggio tutto bianco, dopo un’intensa nevicata, poi la neve si scioglie e riappaiono i colori”. Le culture che c’erano precedentemente e che non avevano mai smesso di esistere, sono riemerse. Sono riemerse in un mondo globalizzato, perché al di là delle polemiche che si possono fare sulla “globalizzazione”, ci troviamo davanti ad un fatto: il mondo è sempre di più “un villaggio globale”, un mondo sempre più unificato e in questo mondo unificato ci sono diverse culture, esse ci sono sempre state, ma ora sono riemerse dalla coltre ideologica che le aveva nascoste e sono riemerse in un contesto in cui tutto è “contiguo”.

A questo punto evoco un personaggio che molti citano, ma pochi hanno letto, perché viene citato sempre come il diavolo: Samuel Hungtinton col suo famoso libro Lo scontro delle civiltà. Il diavolo, perché, soprattutto da parte di chi ha letto solo il titolo del suo libro, viene divulgato come quello che fa il tifo per lo scontro, per cui ci si premura sempre di chiarire che non si prende le distanze da lui… Hungtinton in realtà descrive semplicemente una situazione nell’ottica ovvia e scontata di prevenire ed evitare il disastroso scontro tra le diverse culture e civiltà. Provenendo da un’area non religiosa, si professa agnostico, ma fa una proposta di lettura di queste civiltà, proprio per questo, molto interessante: il fondamento delle civiltà – di ogni civiltà – è la religione che si è diffusa in una determinata area e ha conquistato l’anima di un determinato popolo la quale, poi, producendo una cultura, origina una civiltà.

Se vogliamo dunque capire qual’è l’anima profonda di una cultura dobbiamo indagare qual’è la religione che l’ha originata. Questo rovescia una prospettiva sociologica, di origine ottocentesca, che era diventata molto dominante negli anni sessanta e settanta, secondo cui la religione va sempre interpretata e capita alla luce di altri fattori, perché la religione non incide mai profondamente nella vita dell’uomo. Si tratta di un caso particolare della prospettiva “riduzionista”, componente essenziale di ogni ideologia: per poter ricondurre la ricchezza della realtà alla povertà astrattiva dell’idea bisogna necessariamente “ridurre”. Lo schema metodologico della prospettiva riduzionistica applicata al fatto religioso è questo: la religione non è altro che un fatto di carattere psicologico, non è altro che un evento di carattere economico, non è altro che un prodotto di interessi politici e cosi via. Se le cose stanno così, una società fortemente secolarizzata che ormai ha raggiunto un livello di alfabetizzazione molto elevato, ad un certo punto doveva arrivare a prendere congedo dalla religione. Le profezie dei sociologi degli anni ’60 erano di questo genere e furono prese per buone da molti teologi che anziché credere alle profezie delle Scritture, credevano alle profezie della “scienza”.

Per questo hanno inventato la teologia della “morte di Dio”: il mondo è secolarizzato, la religione è destinata a sparire, dobbiamo salvare il salvabile elaborando una teologia “al passo con i tempi”. I fatti si sono incaricati di smentire spietatamente queste teorie (i fatti sono notoriamente senza pietà…), per cui oggi noi assistiamo ad un mondo in cui la religione conta sempre di più. Parlando con un amico che si occupa di questioni di ordine pubblico, convenivamo che, se uno vuole occuparsi oggi a livello scientifico dei problemi di ordine pubblico, deve occuparsi di storia delle religioni e deve interrogare i teologi, cosa che in paesi dove il problema si è manifestato prima che da noi stanno già facendo.

In una società dove ci sono tante culture, con gente che la pensa in modi completamente diversi non sui dettagli ma sulle grandi questioni del senso ultimo della vita, come si fa a convivere? Che rapporti si possono avere? Che tipo di valori condivisi ci possono essere? Questo è il grande problema dell’ora presente.

2. Il discorso di Ratisbona

Il magistero della Chiesa a cui compete guidare l’annuncio del Vangelo nel contesto dei reali problemi del mondo, lo ha già affrontato e il discorso che papa Benedetto XVI ha tenuto in Germania – incentrato su una citazione di Manuele II Paleologo “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio” – ne è un momento particolarmente significativo.

Quando ho letto il discorso del Papa l’ho trovato interessantissimo e mi sono ricordato che ero in possesso del libro da cui era tratta la citazione: Dialoghi con un mussulmano (2). Mi sono precipitato in biblioteca, ho cominciato a leggerlo e, vi confesso, che, arrivato all’ultima pagina, avevo fatto notte. Ho scoperto che questo Manuele II Paleologo è un personaggio di grande spessore. L’episodio che viene raccontato è un dialogo che si svolge nell’inverno del 1391-92 o 1390-91, tra lui, imperatore di Bisanzio, e un dotto islamico, persiano di grande cultura, un mudarris (parola araba che sta per “insegnante, maestro, professore”) in Turchia. Dialogo che avviene in una situazione molto difficile, perché, in quel momento, l’impero di Bisanzio – che deriva in linea pressoché diretta dall’impero di Traiano e di Costantino – è ridotto a un territorio minimo attorno alla città di Bisanzio, grosso modo corrispondente all’attuale Turchia europea. Addirittura era diventato vassallo dell’impero turco e Manuele II si trovava nella penosa e imbarazzante necessità di dover combattere al servizio del suo nemico. Manuele II era un soldato molto valoroso e lo aveva dimostrato nella guerra contro questi stessi turchi in difesa Tessalonica. in quell’occasione suo padre, l’imperatore, gli ingiunse di abbandonare la città perché non c’era più niente da fare, e il giovane Manuele disobbedì. Ad un certo punto gli abitanti stessi di Tessalonica lo pregarono gentilmente di ritirarsi. Era nello stesso tempo anche uno degli uomini più colti del suo tempo. Il testo greco è scritto in un greco classico degno di Tucidide. Uomo colto, coraggioso, religioso, ha finito la sua vita come monaco, come facevano molti imperatori e attualmente nella chiesa greca è venerato come San Manuele II Paleologo (3).

In questo dialogo ci sono qua e là parole forti, che vanno però calate nel loro tempo. A quell’epoca la gente parlava in modo più chiaro e certi “bizantinismi” che noi oggi attribuiamo ai bizantini li usiamo in realtà solo noi… Era un linguaggio franco, sincero ed aperto, che non voleva affatto dire disprezzo nei confronti dell’interlocutore. Manuele infatti stimava molto il suo interlocutore e la stima era reciproca. Parlavano semplicemente con franchezza di quello che entrambi credevano appassionatamente essere vero. È in questo contesto che deve essere calata la frase citata dal Papa: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. La discussione verte infatti attorno alle tre “vie” che il modo condivide. Siamo nel 1391 e gli uomini erano convinti che tutto il mondo fosse quello che, in qualche modo, loro conoscevano. Marco Polo aveva già scritto il suo libro, ma Manuele II con tutta la sua cultura, ancora non lo conosceva e neppure il mudarris. Esse sono: la “via” di Mosè, seguita dagli ebrei, la “via” di Gesù, seguita dai cristiani e la “via” di Maometto. Su un punto tutti sono d’accordo: la via di Gesù è superiore a quella di Mosè. Il mussulmano ha grande stima per Gesù, che è considerato nel Corano un profeta, però Maometto lo ha – secondo lui – in qualche modo superato nel senso che, se la via di Mosé è troppo dura e Gesù l’ha giustamente addolcita, quella di Maometto si presenta con una moderazione piena di saggezza. C’è infatti certamente un estremismo della legge da parte di Mosè a cui risponde però un estremismo opposto da parte di Gesù, che si manifesta in cose inaccettabili, come ad es., la verginità, la castità, il perdono dei nemici, tutte cose che un uomo di buon senso non può accettare, perché non sono proponibili come leggi per tutti. Maometto che tiene il giusto mezzo fra Mosè e Gesù, e quindi è migliore degli altri due.

Ecco allora il senso della risposta di Manuele II Paleologo: Maometto non ha detto nulla di nuovo, le uniche novità che ha portato sono cose assolutamente disdicevoli e disumane. Questa è la frase che poi ha suscitato le reazioni che conosciamo, situata nel contesto non risulta poi così offensiva. Perché “cose disumane”? Perché Maometto propone di diffondere la propria fede mediante la spada. Notate bene che a parlare è un soldato. Diffondere la fede con la spada – prosegue il Paleologo – è qualche cosa che è contrario alla natura di Dio, perché è qualcosa di irragionevole. “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”, è questa la frase che interessava a Benedetto XVI. E così argomenta il Paleologo: se devo costringere a fare una cosa un cavallo o un bue, che sono esseri irragionevoli, allora posso usare la frusta, posso usare gli speroni, ma se voglio che faccia qualche cosa una persona ragionevole, devo usare il logos, la ragione, la persuasione, perché mi devo adeguare alla natura del soggetto che ho davanti (4).

La citazione del Paleologo ha prodotto una reazione violenta del mondo islamico accompagnata anche da disapprovazione di buona parte della cultura occidentale. L’articolo più significativo, quello del New York Times, chiedeva al Papa di chiedere perdono e scusa ai musulmani perché aveva esagerato, ma anche in casa nostra ci sono state tante disapprovazioni. Qualche giornalista, improvvisatosi islamologo, si è premesso di correggere il Papa (e Manuele…) perché avrebbe interpretato male il termine islamico jihad, guerra santa, in quanto jihad in realtà non vorrebbe dire guerra ma sforzo spirituale. Basta però avere anche una minima infarinatura di arabo e aprire i dizionari più diffusi per constatare come la voce jihad si trovi sempre tradotta con “guerra santa” per non parlare dei testi specialistici e della letteratura accademica.

Ma la cosa che al Papa stava a cuore è questa: “Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio“. Se vogliamo affrontare seriamente il problema della convivenza fra culture diverse e quindi fedi diverse, abbiamo soltanto una strada percorribile, quella della ragione, del dialogo condotto secondo ragione. Non possiamo quindi fare altro che stimolare e provocare al dialogo razionale anche chi non lo vuole fare.

Il caos che si è prodotto a causa di questa parola del Papa mi ha fatto venire in mente una famosa espressione di Hegel, “l’astuzia della ragione” (die List der Vernunft). Da cristiano la reinterpreto come “l’astuzia della provvidenza”, perché il discorso di Ratisbona sarebbe scivolato via come tanti altri discorsi del Magistero senza nuocere, invece la confusione che c’è stata ha attirato l’attenzione e ha in qualche modo costretto ad una certa riflessione. Benedetto XVI ne era consapevole? Se l’ha voluto intenzionalmente dobbiamo solo ascriverlo a suo merito.

La parte più importante del discorso non è però rivolto agli islamici, riguarda l’Occidente. Il Papa mette in guardia l’Occidente, in cui la ragione ha prodotto dei risultati meravigliosi, in relazione ad un suo progressivo allontanamento da questa stessa ragione. In che senso? Nel senso che la ragione, in Occidente, si è ridotta ad occuparsi esclusivamente del fattibile, di ciò che è tecnico. Ormai usiamo la ragione solo per costruire macchine sempre più potenti, computer sempre più efficienti e in questo siamo dei maestri, stiamo addirittura usando la ragione per manipolare la vita, senza porci più problemi etici. E questo può accadere perché riteniamo che il problema etico sia una cosa che esula da una indagine propriamente razionale. La ragione non intende più occuparsi – il Papa usa questa espressione – “del senso ultimo delle cose”, si occupa soltanto dei mezzi e non vuole più occuparsi dei fini e degli scopi. I fini, gli scopi, vengono indagati alla luce della religione e la religione è ridotta a una scelta soggettiva, è una questione di opzione sentimentale.

Il Papa delinea la storia di questo processo, che definisce di “deellenizzazione”, cioè di allontanamento dalla tradizione filosofica greca, con tutta la sua fiducia nel lógos e nella sua capacità di indagare tutto il reale, anche la dimensione che trascende i sensi, la “metafisica”. Fin dagli inizi della sua storia, il cristianesimo ha incontrato il mondo ellenico e la sua filosofia e non si è trattato di un evento puramente casuale.

Benedetto XVI evoca un episodio molto bello e significativo tratto dagli Atti degli Apostoli (Atti scritti da San Luca che dà sempre una grande importanza allo Spirito Santo) dove si legge che San Paolo, che si lasciava guidare dallo Spirito Santo, dovendo decidere da che parte andare, se dirigersi verso la provincia dell’Asia o dirigersi verso l’Europa, viene impedito dallo Spirito di dirigersi verso l’Asia (cfr. At 16,6-7). Arriva a Troade e in sogno gli appare un macedone, che abitava dall’altra parte del mare, che gli dice: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr. At. 16,9). Paolo decide di andare verso la Grecia e questa scelta – dice Benedetto XVI – fu epocale: il cristianesimo va verso l’Occidente, il cristianesimo accoglie il mondo greco e la filosofia come una componente fondamentale del suo sviluppo, della sua inculturazione. Di questo troviamo tracce potenti nella scrittura. Benedetto XVI fa riferimento al prologo di San Giovanni, nel quale l’apostolo reinterpreta l’inizio della Scrittura: in principio Iddio creò il cielo e la terra – in principio era il Lógos. “In principio c’era il logos, il logos era rivolto verso Dio e il logos era Dio”.

La parola logos aveva un mare di significati, evocava tutta una serie di elementi che sono quelli propri del mondo greco. Logos vuol dire ragione, significato, senso. In questo contesto vuol dire: Dio ha creato il mondo, ma in Dio c’è il progetto di questo mondo, questo mondo ha un senso, un significato. Vale la pena indagarlo, vale la pena cercarlo perché Dio ce l’ha messo. È l’assunzione di tutto lo sforzo dell’uomo di cercare il senso ultimo delle cose.

La prima tappa del processo di deellenizzazione è stata la Riforma protestante: il protestantesimo ha posto ragione e fede in una contrapposizione dialettica, per cui la fede è come disturbata dalla ragione, perché la ragione viene vista come la pretesa dell’uomo di accedere al senso ultimo delle cose con le sue forze. Sola fide: è solo mediante la fede che ci si può arrivare. La seconda ondata è quella della teologia liberale, di cui Adolf von Harnack è rappresentante emblematico, dove, dopo Kant di cui segue i principi, Gesù viene spogliato di tutti i suoi attributi divini. Tutti quegli elementi che risalivano alla riflessione dei grandi Concilii dei primi secoli sulla cristologia, sulla natura di Cristo, sulla sua divinità, vengono cancellati e Gesù si riduce ad essere un predicatore di morale.

L’ultima fase, la terza, è quella in cui siamo immersi, in cui la inculturazione del cristianesimo mediante la filosofia ellenica, viene vista come un episodio. La fede si è sì inculturata mediante la ragione ellenica, ma, a contatto di altre culture deve inculturarsi in un altro modo, la filosofia viene vista come un vestito che in quel momento la fede ha assunto, ma che potrebbe togliersi per indossarne un altro.

Il Papa insiste nel dire che non è un semplice vestito, che è stato invece un incontro provvidenziale, quindi voluto da Dio. Certamente il discorso dell’inculturazione è vero: non è detto che tutte le modalità che ha assunto la fede a contatto col mondo greco-romano debbano essere proiettate nelle altre culture, però il suo sposalizio con la ragione non è un fatto secondario, accidentale, è qualche cosa che gli compete strutturalmente.

Il cristianesimo è la religione della ragione e non è un caso che il razionalismo sia nato nella cultura cristiana, un’idea cristiana impazzita secondo la felice espressione di Chesterton (5). Il crisiano non può non usare la ragione: “Il cristiano è quell’uomo che, per fede, deve filosofare” (6).

3. La legge naturale

Cosa c’entra tutto ciò con la legge naturale? C’entra perché posto che la convivenza fra persone che la pensano in modi così diversi deve avere dei punti di riferimento e che questi devono essere dei punti comuni da tutti accettati, si tratta di chiederci quali possono essere questi punti di riferimento.

La dottrina del diritto naturale, che il cristianesimo ha sempre portato avanti con convinzione, poggia su questa consapevolezza: ci sono delle leggi che precedono qualunque legislazione positiva, leggi che non sono scritte, che non troviamo nei codici, ma sono un punto di riferimento quando l’uomo si trova davanti a dei problemi critici di convivenza o a delle leggi che mettono in discussione le fondamenta del vivere civile.

La legge non scritta ha un legame molto chiaro con la nostra cultura greca. Tutti ci ricordiamo L’Antigone di Sofocle: le “leggi degli dei non scritte (ágrapta theôn nómima” sono quelle a cui fa appello Antigone di fronte al tiranno Creonte per giustificare il fatto che lei ha sepolto il suo fratello Polinice contro l’editto emanato dal tiranno.

Le leggi non scritte sono in qualche modo anch’esse scritte: San Paolo infatti ne parla nella lettera ai romani dicendo che sono “scritte nel cuore dell’uomo”. Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori [graptón en taîs kardíais autôn] come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono (Rm 2,14-15).

L’obiezione sempre ricorrente è questa: se ci sono delle leggi che sono a monte di una legislazione positiva, le dovremmo ritrovare dappertutto. Se noi invece giriamo il mondo e ci guardiamo attorno vediamo che le leggi, gli usi e i costumi sono diversissimi, gli uomini hanno sempre fatto le leggi più strane e diverse e questo è un evidente un controfatto che smentisce l’esistenza di una legge da tutti condivisa. Già i sofisti (V secolo a.C.) ragionavano così: le leggi hanno come fondamento l’imposizione del più forte. Forte fisicamente, economicamente o propagandisticamente. Protagora di Abdera diceva: ” L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono“. La verità è come sembra ad ogni uomo.

Ancora più radicale la posizione di Gorgia di Leontini: “niente esiste, se per caso esistesse non sarebbe dicibile, se per caso fosse dicibile non sarebbe comunicabile”. Come si sono sforzati di rispondere i cristiani, gli uomini di buon senso e di buona volontà? Il problema della legge naturale non è un problema statistico, altrimenti ritorneremmo a una posizione di diritto positivo. Come identifichiamo i fondamenti di diritto positivo? Li stabilisce la maggioranza si risponde, ma non può essere questa la risposta. Si tratta di una posizione facilmente confutabile. Quali sono i valori condivisi che fondano il consenso su cui necessariamente deve fondarsi una democrazia? Quelli che la democrazia stabilisce a maggioranza. Su quale consenso può fondarsi una tale democrazia? Su quello costituito da ciò che la democrazia stabilisce… È evidentemente un circolo vizioso. Kurt Gödel ha dimostrato – con il suo famoso teorema di completezza – che nessun sistema è in grado di fondare, con i suoi propri procedimenti, tutti gli asserti che lo compongono. I fondamenti devono venire dal di fuori.

È una questione di buon senso, di senso comune, di ragionamento, non tutto può essere deciso da una maggioranza. In un dialogo che l’allora card. Ratzinger, prefetto della Sacra Congregazione delle Dottrina della Fede, il 21 settembre 2000 tenne a Roma, con Paolo Flores D’Arcais, essendo moderatore Gad Lerner, la cui sbobinatura è stata pubblicata su un Quaderno di Micromega, si trova un interessantissimo confronto proprio su questa tematica.

Flores D’Arcais dice: Io non credo nel diritto naturale. I diritti dell’uomo che tutti dobbiamo riconoscere per convivere, sono diritti civili, stabiliti da un organismo rappresentativo il quale fa le leggi. Il card. Ratzinger, da tedesco, risponde ricordando come i tedeschi, con una procedura assolutamente regolare dal punto di vista legislativo, sono arrivati a decidere che un popolo doveva sparire. Adolf Hitler è andato al potere regolarmente, vincendo le elezioni, e ha deciso di sopprimere un popolo. Al che l’ interlocutori ha fatto marcia indietro dicendo che un parlamento non può decidere tutto, ci sono dei limiti. Ma quali sono questi limiti? Un limite può essere la Costituzione. Gad Lerner è intervenuto dicendo che però anche la Costituzione può essere cambiata. È semplicemente più difficile, ma non impossibile.

Allora Flores D’Arcais è arrivato a dire quello che qualunque persona in quella situazione può dire: i fondamenti immodificabili nascono semplicemente dal fatto che noi li riteniamo – in base ad una nostra libera scelta – essere giusti. Noi li “ipotizziamo” come giusti. Il problema è che qualunque ipostesi ha senso solo se c’è qualcosa – a fondamento – di non ipotetico, un anypótheton, come diceva Platone (Resp. VI, 20: 510b).

Tanti anni fa in un’intervista, Norberto Bobbio ha detto più o meno la stessa cosa, cioè che il fondamento di certe sue posizioni, ad esempio il suo essere contrario all’aborto – anche se a qualche condizione – era emotivamente quello di essere a favore di una società in cui ci siano dei diritti umani e quindi un diritto alla vita. Tutti colgono facilmente quanto sia fragile un tale fondamento.

Il moderatore chiese allora al card. Ratzinger: Lei che fondamento propone? Ratzinger rispose illustrando la posizione cristiana di sempre, la quale crede che il mondo è stato creato liberamente. Il principio di creazione emerge in tutta la sua chiarezza riflessa solamente nella rivelazione giudaico-cristiana. Il mondo è qui visto come un prodotto di Dio, che lo ha creato liberamente, con un comando, con delle parole. Un comando presuppone un pensiero che lo precede, un pensiero antecedente, originario, che si riflette poi nell’opera. La conseguenza è che le cose nella loro struttura fondamentale, nella loro natura, hanno un senso. Se le cose hanno un senso, noi dobbiamo indagare questo senso e sul senso fondamentale delle cose dobbiamo poter convenire per stabilire una convivenza civile.

A quel punto Flores D’Arcais ha ovviamente obiettato che non tutti credono nella creazione e lì, purtroppo è successo che il tempo del dibattito era scaduto. Io però mi permetto di continuare quanto è rimasto in sospeso.

La proposta che il cristiano fa è molto seria: la creazione non è solo un fatto di fede. La rivelazione (Vat. I) non ci comunica soltanto delle verità di pura fede, ma anche delle verità che sono di ragione. Nel 2004, un notissimo filosofo inglese, Anthony Flew, forse il discepolo prediletto di Bertrand Russel (il filosofo di riferimento delle associazioni ateistiche), alla veneranda età di 81 anni, dopo aver professato l’ateismo per tutta la vita, ha dichiarato di averci ripensato. Per questo ha riscritto la prefazione al volume God and philosophy, in cui smontava tutte le dimostrazioni dell’esistenza di Dio e sosteneva che l’ateismo è la posizione più ragionevole. Nella nuova prefazione dice di essersi sbagliato. Non dice di essersi convertito ad una religione, anzi, puntualmente insiste nel dire di non aderire a nessuna religione positiva, dice soltanto che, a livello puramente razionale, è arrivato – anche se con molte persistenti esitazioni – alla conclusione che deve esistere un “progetto intelligente” che ha presieduto all’origine dell’universo e ne pervade le strutture. Ci possono essere degli atei, anche molto convinti, che, nel caso dell’aborto, assumono una posizione di rifiuto, perché ritengono che esista un diritto originario alla vita della persona. Ma come fanno a dire una cosa del genere se non accettano la creazione?. Il principio di creazione è ciò che dà ragione del fatto descritto da San Paolo nel cap. 2 della lettera ai Romani: “i pagani, la legge, la portano scritta nel cuore”. Esistono delle convinzioni che sono radicate nella mente, nel cuore dell’uomo, tali da offrire certezze superiori qualitativamente alle certezze che possono dare tutte le riflessioni successive. Le puoi negare, ma rimangono sempre lì perché le porti dentro.

Di questo si era reso ben conto Aristotele, il quale, nel quarto libro della Metafisica, istituisce una splendida difesa del principio di non contraddizione: è un principio e in quanto tale non lo possiamo dimostrare. Si parte da un principio per arrivare ad una conclusione, se il principio diventa la conclusione di un ragionamento, vuol dire che non è più un principio.

Per questo Aristotele dice: io non dimostro, confuto. Se tu dici di negare il principio di non contraddizione e parli, allora dici qualche cosa di determinato e non dici il suo contraddittorio, usi il principio di non contraddizione. Questo è un esempio che si può fare per tanti altri casi: esistono delle convinzioni che sono racchiuse nel cuore degli uomini al di là delle loro convinzioni filosofiche. Uno può anche dire di non credere nella creazione, dire che Dio non esiste, però – che lo voglia o no – ha sempre questa convinzione nel tuo cuore, perché si comporta come se essa fosse vera. Può poi arrivare alla consapevolezza di comportarsi come se fosse vera (etsi Deus daretur) e che questo comportamento è di gran lunga più soddisfacente per la ragione e per il cuore. Da questo alla convinzione riflessa che Dio esiste il passo è veramente breve…

Ma allora come la mettiamo con le tante differenze di comportamenti morali tra le diverse culture, non solo livello di trasgressioni – peccati – ma a livello di convinzioni morali? Prendiamo una popolazione indiana, pellerossa, i Pawnee, popolo delle praterie alleati degli Stati Uniti (per una ragione molto pratica, erano tradizionali nemici dei Dakota, i Dakota erano nemici degli Stati Uniti e pertanto i Pawnee erano loro alleati). Come i Pawnee chiamavano sé stessi nella loro lingua? “Uomo di uomo” (“Chaticks-si-Chaticks”). Tra molte popolazioni primitive vi era la convinzione che gli uomini fossero solo i componenti della tribù; il diritto alla vita valeva solamente tra gli appartenenti alla tribù dei Pawnee, non si applicava agli altri. E qui mi ricollego al discorso di Ratisbona, cosa dice il Papa, “dobbiamo usare la ragione per riapplicarla con rigore al senso ultimo della vita”. Se applichiamo la ragione in questo modo non possiamo usarla soltanto la ragione calcolante che si appoggia sul fenomeno per trarre, dalla concatenazione dei fenomeni, delle leggi per poi usarle per sfruttare le forze della natura, ma dobbiamo andare dal fenomeno al fondamento. Per il Pawnee è lecito uccidere l’altro perché l’altro non è un uomo. Qui abbiamo un principio: l’uomo non deve essere ucciso. Ci sono è vero delle eccezioni: la guerra o la pena di morte, ma sono eccezioni per modo di dire perché il diritto alla vita rimane e proprio in virtù di questo diritto posso difendermi e se per difendermi sono costretto ad uccidere qualcuno non è in quanto sono io a volerlo fare. Semplicemente: l’ingiusto aggressore e il criminale diventano i veri responsabili della loro uccisione. Il principio semplicemente si precisa: la vita dell’innocente è sacra in modo tale da non tollerare eccezioni di sorta.

Il principio è che la vita dell’uomo è sacra e come tale lo ritroviamo nell’Antico Testamento, nel Libro della Genesi, espresso in una filastrocca: “chi versa il sangue dell’uomo dall’uomo il suo sangue sarà versato” (Gen 9,6). Questo lo avevano nel cuore anche i Pawnee, ma identificavano l’uomo solo con quelli della propria tribù.

Il furto. Presso un beduino non è più tale quando avviene in un’altra tribù. Se un beduino si permette però di rubare nella tenda del vicino viene processato e condannato.

Ci sono dei crimini considerati tali in tutte le lingue e la lingua è la prima struttura che dobbiamo interrogare per cercare di capire che cos’è questo senso comune che alberga nel cuore dell’uomo. In tutti i vocabolari di tutte le lingue troviamo la parola “furto” ed è una parola negativa. Le differenze nascono dall’applicazione di come viene inteso il rapporto che io devo avere con la proprietà dell’altro che, se non lo considero un uomo, allora sono autorizzato a rubare.

Allora il Papa dice anche che la ragione va approfondita; quello che nel cristianesimo e nel modo occidentale è avvenuto, è stato un progressivo approfondimento di questi principi, per arrivare, in fondo – ed oggi ci possiamo arrivare con una notevole chiarezza – a dire: l’unico fondamento che noi possiamo porre per una convivenza civile è il fatto di riconoscere nell’uomo un soggetto di diritti tali che non gli sono conferiti da un’autorità civile, ma che li ha in quanto uomo, sorgivamente, per “natura” (natura da nascor, come fúsis da fúô). Il cristiano ha delle motivazioni interpretative molto forti, sia dal punto di vista delle filosofia cristiana che, aiutata dalla fede, fornisce queste motivazioni, sia a livello di fede. Noi sappiamo che Dio, quando crea l’uomo, lo crea a sua immagine e somiglianza, un motivo in più per dire che la persona umana ha un valore trascendente.

Questi sono dei fondamenti, tali da permetterci di indagare in una prospettiva che può permetterci di raggiungere un loro possesso riflesso più pieno e definito. La legge naturale non la troviamo già fatta, non è un codice scritto da qualche parte: noi semplicemente vediamo che ci sono dei principi che possono essere applicati in modi diversi, ma una volta che c’è il principio posso migliorare la sua applicazione.

Prendiamo il caso dell’aborto, di cui si è discusso moltissimo specialmente sull’affermazione del diritto alla vita dell’uomo innocente. Tommaso d’Aquino dice che per i primi quaranta giorni l’uomo non è ancora uomo, quindi un aborto procurato in questo periodo, non è un vero assassinio. San Tommaso non ha mai messo in dubbio che l’uomo innocente abbia un diritto incondizionato alla vita, semplicemente aveva degli strumenti di osservazione limitati. Vedeva che fintanto che non compariva il cervello non ci poteva essere una vita razionale, e, secondo i principi aristotelici, perché la forma possa informare la materia, la materia deve essere a ciò disposta.

Noi oggi siamo in possesso di elementi più precisi, sappiamo che quando due gameti si incontrano col loro progetto genetico ciascuno diverso dall’altro e si fondono, danno vita ad un soggetto genetico diverso dall’uno e dall’altro, con un progetto suo proprio fin da subito. Quindi non abbiamo nessuna plausibile ragione per sopprimere la vita. San Tommaso d’altra parte ragionava in questi termini: se anche io posso dubitare che quello sia un uomo, non gli posso togliere la vita perché il processo che si è ormai avviato lo condurrà a diventare uomo: homo est qui futurus est (Tertulliano).

Concludo con una barzelletta. Primo giorno di caccia, due tizi stanno andando a caccia e ad un certo punto si vede muoversi un cespuglio e uno dei due spara, l’altro va a vedere. Chi ha sparato chiede con entusiasmo: che cosa ho preso? L’altro da dietro il cespuglio gli risponde: Mah! Dai documenti si direbbe un geometra.

Chi ha sparato in quelle condizioni – secondo le norme giuridiche in vigore in tutto il mondo civile – ha commesso un omicidio colposo perché ha posto in essere un comportamento rischioso senza avere elementi certi – anche solo di una certezza morale – per essere sicuro di non ledere il fondamentale diritto di altri alla vita. Il dibattito sul diritto naturale, non nasce dal fatto che ho dei principi da cui deduco determinate conclusioni, io so solo che nel cuore dell’uomo albergano dei fondamenti, se indago attentamente la storia, la lingua, la cultura, trovo che questi principi ci sono. Anche se poi diverse sono le applicazioni che posso sottoporre ad un’indagine ed anche ad una critica razionale.

Se quindi mi trovo dinanzi al problema di che atteggiamento tenere davanti ad un embrione, devo ragionare in questi termini: sei tu che devi dimostrarmi che non è un essere umano e non viceversa. Perché fintanto che non siamo sicuri che non lo è dobbiamo trattarlo come se lo fosse e questo costituisce un modo concreto di applicare e vivere il diritto naturale, l’unica possibilità di convivenza fra persone che hanno ideologie diverse e religioni diverse.

Domande (sintesi)

rapporti tra il diritto naturale e la famiglia, rapporti tra persone dello stesso sesso. La famiglia è un istituto di diritto naturale?

Risposta: la domanda mi offre la possibilità di precisare ancora meglio la natura del diritto naturale. Questa espressione la raccogliamo da una lunga tradizione che è iniziata nei primi secoli cristiani e la cui terminologia si è forgiata a contatto della filosofia greca e del diritto romano. Il riferimento alla natura aveva un preciso significato nell’impero romano, perché c’era una filosofia, molto diffusa soprattutto nella classe colta, lo stoicismo, in cui la natura aveva un significato molto forte. Per natura si intendeva l’insieme di tutte le cose, uomini compresi, che veniva colto come pervaso dal logos, da una razionalità. Quando si parlava di natura si faceva dunque leva su qualcosa di cui tutti capivano il senso. Oggi la cosa è più problematica, perché quando uno parla di natura vengono subito in mente gli animali, che, a volte fanno cose decisamente riprovevoli da un punto di vista umano. L’uomo è certamente un animale, ma non solo un animale. È un animale razionale, cioè dotato di lógos (7).

Il senso comune è radicato nella ragione dell’uomo. La definizione che San Tommaso dà di legge naturale è: “partecipazione della creatura razionale alla legge eterna” (8). La sacralità, il senso del sacro, è il modo con cui l’uomo percepisce questa partecipazione ai principi eterni. Se noi indaghiamo la storia delle religioni, la storia dei popoli, scopriamo, con molta facilità, che ci sono dei punti della vita dell’uomo che sono riconosciuti da tutti come pervasi da una speciale sacralità, e sono proprio due: l’inizio e il fine della vita, connotati da celebrazioni sacre, i matrimoni e i funerali. Di un popolo come gli Etruschi, se non avessimo trovato le tombe, non avremmo saputo niente.

L’idea era questa: la fine e l’inizio della vita sono sacri. L’inizio della vita è una cosa molto delicata e trova il suo luogo privilegiato nel consorzio familiare, nella famiglia fondata sul matrimonio che è quel consorzio tra persone di sesso diverso che presiede all’origine della vita. Perché non immaginare un altro consorzio tra persone di sesso uguale? Per una ragione di senso comune: siamo diversi e certe cose possono funzionare solo tra sessi diversi, è nella natura delle cose. Solo l’unione tra sessi diversi genera vita. Ormai il matrimonio lo dobbiamo definire così: consorzio stabile tra soggetti di sesso diverso appartenenti entrambi alla specie umana…

I popoli hanno sempre ragionato così: il matrimonio è qualche cosa di sacrale che presiede all’origine della vita e lo Stato se ne deve prendere cura perché costituisce, in qualche modo, il fondamento e la sorgente di tutta la sua convivenza.

La Sacra Scrittura e la fede ci vengono in soccorso e ci danno ulteriori elementi di interpretazione: il primo abbozzo di società e di incontro avviene quando Dio trae da una costola di Adamo addormentato Eva e Adamo, che si era guardato molto attorno, ma non aveva trovato niente di soddisfacente, finalmente esclama: “carne della mia carne, osso delle mie ossa!” (Gen 2,23).

Perché, dice la Scrittura, l’uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. In Cristo abbiamo scoperto l’esistenza di tre persone in Dio e quindi la sua natura relazionale Ne deduciamo che anche l’uomo ha – analogicamente – una natura relazionale. Se volete far soffrire in modo terribile un uomo mettetelo in una cella di isolamento e lasciatelo in quella condizione per un po’ di tempo, finirà con impazzire perché ha strutturalmente bisogno di parlare con qualcuno cioè di stabilire relazioni con quelacuno capace di recepirle e di reagire ad esse. È “un animale che ha il lógos, cioè la parola”, che ha bisogno di parlare con qualcuno.

La relazione fondamentale e fondante è quella fra uomo e donna da cui soltanto può nascere un’altra persona. Se la persona è così importante, è il pilastro su cui si costruisce tutto (9), deve nascere da un rapporto tra persone. Se poi la relazionalità più profonda dell’uomo è l’amore, la persona deve nascere da un atto d’amore, non in un laboratorio, come un prodotto artificiale. Ogni persona ha diritto a nascere non fabbricato, ma come uno dono accolto e ricevuto se Dio lo concede, altrimenti vuol dire che Dio non ti ha chiamato a questo compito. Non è una cosa che si sceglie o si prende perché questo è contro la dignità della persona.

Note:
(1) Cfr. S. KIERKEGAARD, Postilla non scientifica, trad. ital. Ed. Zanichelli, Bologna 1962, II, p. 240, cit. in: CARLOS CARDONA, Metafísica de la opción intelectual, Rialp, Madrid 1973, p. 76, nota 173.
(2) MANUEL II PALEOLOGUE, Entretiens avec un musulman. 7e Controverse, Introduzione, testo critico, traduzione e note di Théodore Khoury (Sources chrétiennes n. 115), Editions du Cerf, Parigi 1966.
(3) Cfr. Pietro Cantoni, L’imperatore e il musulmano, in: Il Timone VIII (2006), pp. 28-29.
(4) «La fede è frutto dell’anima e non del corpo. Chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno di una lingua abile e di un pensiero corretto, non della violenza, né della minaccia e neppure di qualche strumento di offesa o di terrore. Perché, come quando si deve forzare una natura irrazionale non avrebbe senso ricorrere alla persuasione, così per persuadere un’anima razionale non ha senso ricorrere alla forza del braccio, né alla frusta, né ad alcun’altra minaccia di morte» (MANUEL II PALÉOLOGUE, Op.cit., p. 145).
(5) «Il mondo moderno è pieno di vecchie virtù cristiane diventate folli – The modern World is full of the old Christian virtues gone mad» (Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936), Ortodossia, cap. III).
(6) «Der Christ ist jener Mensch, der von Glaubens wegen philosophieren muß» (HAN URS VON BALTHASAR, Herrlichkeit. Eine theologische Ästhetik, Band III Im Raum der Metaphysik, Teil 2 Neuzeit, Johannes Verlag, Einsiedeln 1965/2ª ed., p. 974).
(7) «Lógon dè mónon ánthropos échei tôn zôon» (Pol., I, 2, 1253 a 9). Cfr anche Pol., VII, 13, 1332 b, 5. L’uomo è dunque per Aristotele «zôon lógon échôn» «un animale avente il lógos».
(8) «Participatio legis æternæ in rationali creatura» (I-II, q. 94, a. 2).
(9) «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura» (Somma Teol. I q.29 a.3).

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