A quarant’anni dalla Sacrosanctum Concilium

4 dicembre 1963 – 4 dicembre 2003

don Pietro Cantoni

Gli anniversari costituiscono un luogo comune dello stile del Magistero. Non si tratta solo – ovviamente – di una esteriore e vuota celebrazione di eventi del passato, ma dell’espressione di quello che il Magistero è nella sua intima essenza: organo guida della Tradizione. Non che la Tradizione si compia solo attraverso il Magistero, perché è tutta la Chiesa nel suo insieme che trasmette, ma la trasmissione è garantita nella sua unitarietà, coerenza e fedeltà dall’organismo costituito dal collegio dei pastori che succedono agli apostoli, collegio organicamente strutturato che non si può mai dare senza il suo capo: il successore di Pietro e che questo stesso successore, anche quando parla singolarmente, sempre impersona. Il procedimento tradizionale è caratterizzato da una continua ripresa di quanto detto prima, ripresa che è riproposizione, rilettura, interpretazione e approfondimento. In una parola: attiva e penetrante memoria.

È alla luce di queste premesse che dobbiamo leggere la lettera apostolica Spiritus et Sponsa nel IX anniversario della costituzione “Sacrosanctum Concilium” sulla sacra liturgia del 4 dicembre 2003. La lettera apostolica è stata inviata al prefetto della Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti card. Francis Arinze in occasione del convegno commemorativo della “Sacrosanctum Concilium” promosso dalla stessa Congregazione nel giorno stesso dell’anniversario (1).

La provvidenza ha voluto che a questo anniversario si aggiungesse – per stretta concomitanza di tempo – anche il centenario del motu proprio di san Pio X “Tra le sollecitudini” sulla musica sacra, pubblicato il 22 novembre 1903, a cui ha corrisposto un chirografo del Papa, datato appunto 22 novembre 2003. Anch’esso è stato soggetto di studio nella stessa giornata commemorativa.

Ma il discorso si amplia, perché questo inizio di millennio ha visto e vede infittirsi i documenti del Magistero in tema di liturgia e di Eucaristia (e parlare di liturgia e di Eucaristia è – per tanti versi – la stessa cosa). Il 28 marzo del 2001 esce l’istruzione della Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti “Liturgiam authenticam” sul delicato problema della traduzione dei libri liturgici; il 9 aprile 2002 abbiamo il “Direttorio su pietà popolare e liturgia”, sempre della stessa Congregazione; il 17 aprile del 2003 viene pubblicata l’enciclica “Ecclesia de Eucharistia”, a cui ha fatto seguito il 25 marzo 2004 l’istruzione della Congregazione competente “Redemptionis sacramentum” che traduce in normativa concreta (peraltro non nuova) quanto l’enciclica chiede per il rispetto dell’Eucaristia. C’è poi stata, il 18 marzo 2002 la promulgazione dell’editio typica tertia del Messale Romano, con significativi aggiustamenti, soprattutto nella Institutio generalis. Credo che per rendersi conto di che cosa stia succedendo occorra prestare attenzione ad un passaggio dell’istruzione “Liturgiam authenticam”: “Questa istruzione predispone e si sforza di preparare una nuova fase del rinnovamento” (n. 7). Una nuova fase (“novam ætatem”): una fase dunque si è chiusa e se ne apre un’altra, evidentemente di assestamento, approfondimento e aggiustamento.

Che poi non si tratti di qualcosa di puramente congiunturale o circoscritto lo dimostra l’indizione dell’ anno dell’Eucaristia, con la lettera apostolica Mane nobiscum Domine del 7 ottobre 2004. Esso si apre con il congresso eucaristico internazionale di Guadalajara (10-17 ottobre) e si chiuderà con l’assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi (Vaticano, 2-29 ottobre 2005), per la cui preparazione sono già stati resi di pubblico dominio i Lineamenta.

Paolo VI diede un valore particolare all’inizio del Concilio Vaticano II proprio con la Costituzione sulla sacra liturgia: incominciare così voleva dire dare un significato concreto e solenne al primato delle preghiera:

“Noi vi ravvisiamo l’ossequio alla scala dei valori e dei doveri: Dio al primo posto; la preghiera prima nostra obbligazione; la liturgia prima fonte della vita divina a noi comunicata, prima scuola della nostra vita spirituale” (2)

Nella Novo millennio ineunte anche Giovanni Paolo II ha posto con decisione la preghiera a fondamento del cammino di evangelizzazione per il terzo millennio cristiano: “c’è bisogno di un cristianesimo che si distingua innanzitutto nell’arte della preghiera” (n. 32). Appare allora del tutto logico che i primi passi del cammino siano contrassegnati da una rinnovata attenzione alla liturgia, nella quale “ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine” (3).

Il Papa fissa la sua attenzione innanzitutto sui principi teologici che la Sacrosanctum Concilium delinea a proposito delle liturgia:

“La Liturgia viene collocata dai Padri conciliari nell’orizzonte della storia della salvezza, il cui fine è la redenzione umana e la perfetta glorificazione di Dio. La redenzione ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine dell’Antico Testamento ed è stata portata a compimento da Cristo Signore, specialmente per mezzo del Mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione dalla morte e gloriosa ascensione” (n. 2). Così come il popolo di Dio dell’Antico Testamento è nato attraverso l’azione di Dio che lo ha liberato dalla schiavitù dell’Egitto, lo ha condotto nel deserto per dargli una legge e un culto e infine una terra, così il nuovo popolo di Dio che è la Chiesa nasce dall’azione di Dio che – fatto uomo – muore sulla croce e con la sua morte vince la morte, realizzando così il passaggio vero e definitivo alla città celeste, cioè la vera Pasqua. A questa sua azione, Dio vuole associare l’uomo e per questo lo “convoca” in assemblea (Chiesa viene dal greco ek-kaleo, “convoco”) e pone al centro e a fondamento di questa assemblea un rito. Il rito è un insieme ordinato di azioni che pongono in contatto con le realtà divine. Qui l’azione è innanzitutto di Dio, ma tale che non si compie senza la partecipazione dell’uomo: “fate questo in memoria di me”. Il mistero dell’azione di Dio e il rito fanno un tutt’uno inscindibile. Nella liturgia “massimamente nel divino sacrificio dell’eucarestia si attua l’opera della nostra redenzione” (SC n. 2). Qui il Concilio ha perfezionato quella visione teologica e catechistica che vedeva nelle azioni liturgiche e nei sacramenti soltanto un’applicazione dei frutti di quanto compiuto da Gesù. Qui infatti non c’è più solo l’applicazione dei frutti di qualcosa che rimane però estraneo, ma la sua ri-attuazione, la sua ri-presentazione. La correzione è avvenuta per approfondimento, riprendendo il senso delle espressioni più forti del Concilio di Trento e del Catechismo Romano che autenticamente lo interpreta. Secondo quest’ultimo infatti: “il sacrificio della Messa e quello offerto sulla croce non sono e non devono essere considerati che un solo e identico sacrificio (unum et idem)” (n. 238) (4).

Da questo derivano importanti conseguenze.

Prima di tutto sul “soggetto” della liturgia. Essa infatti è “opera di Cristo Sacerdote e del suo Corpo mistico” “culto pubblico integrale” (n. 2). Si tratta di un’azione divino-umana, dove si manifesta soprattutto il mistero della Chiesa e il mistero della vita cristiana intesa come partecipazione alla vita divina, come “sinergia”.

Quindi sul “fine”: prendendo parte a questa azione divino-umana infatti “si partecipa, pregustandola, alla Liturgia della Gerusalemme celeste” (Ibidem). Non si comprende il mistero della liturgia se non lo si inserisce nella grande visione teologica di un’azione che ha la sua sorgente in Dio, coinvolge la libertà umana in Cristo e in tutti coloro che sono chiamati ad aderire a lui nella fede e nell’amore, per ricondurre tutto a Dio. Lo schema neoplatonico exitus-reditus trova nel mistero cristiano il suo definitivo inveramento.

Diventa allora più chiaro il senso di una formula tante volte ripetuta e quindi divenuta famosa, che il Papa a questo punto opportunamente richiama: “la Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (SC 10).

Al fine di sottolineare le reali dimensioni del mistero che si attua nella liturgia e quindi della responsabilità che investe la Chiesa e ogni singolo fedele nel celebrarla, il Papa allarga immediatamente la prospettiva. Se la liturgia è azione sacerdotale di Cristo e del Christus totus, cioè di Cristo e del suo corpo mistico, non dobbiamo per questo pensare che si tratti di un qualcosa che riguardi solo la Chiesa, intesa come comunità dei credenti.

“La prospettiva liturgica del Concilio non si limita all’ambito intra-ecclesiale, ma si apre sull’orizzonte dell’intera umanità. Cristo infatti, nella sua lode al Padre, unisce a sé tutta la comunità degli uomini, e lo fa in modo singolare proprio attraverso la missione orante della “Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo intero non solo con la celebrazione dell’Eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente con la recita dell’Ufficio divino” (SC n. 83). La vita liturgica della Chiesa, nell’ottica della Sacrosanctum Concilium, assume un respiro cosmico e universale, segnando in modo profondo il tempo e lo spazio dell’uomo. In questa prospettiva si comprende anche la rinnovata attenzione che la Costituzione dà all’anno liturgico, cammino attraverso il quale la Chiesa fa memoria del Mistero pasquale di Cristo e lo rivive” (n. 3). Se il mondo è creato da Dio e a Dio è chiamato a ritornare, allora è evidente che la preghiera è il respiro del mondo e ciò su cui il mondo poggia. La figura dell’intercessione ha un’importanza centrale nel mistero cristiano. Nella lettera agli ebrei il sacerdozio dell’Antico Testamento viene così descritto: “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati” (Eb 5,1) e tutto il senso dell’epistola è quello di dimostrare come questo ideale del sacerdote mediatore tra Dio egli uomini, pontifex cioè “facitore di ponti”, si realizzi in modo perfetto e insuperabile nel sacerdozio di Cristo “secondo l’ordine di Melchìsedek”. Il sacerdote è il mediatore tra Dio e il popolo e Cristo, mediante la sua azione sacerdotale culminata nel mistero pasquale della morte e della resurrezione è diventato il perfetto e l’unico mediatore. “Uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1 Tim 2,5). L’unicita del mediatore però – come l’unicità del sacrificio in cui la mediazione si compie (cfr. Eb 7,27) – non deve essere intesa in modo esclusivo ma inclusivo. Da questa unica mediazione scaturiscono, come da una inesauribile sorgente, tante altre mediazioni. Lo scopo infatto della mediazione di Gesù è quello di far partecipare l’uomo “sinergicamente” all’azione di Dio. Innanzitutto abbiamo la mediazione di Maria, la cui adesione orante al piano di Dio è stata condizione essenziale per il realizzarsi stesso dell’opera di redenzione di Cristo, quindi quella della Chiesa (di cui Maria è il membro eminente), dei santi e di tutti i fedeli. Questa mediazione si esprime soprattutto nella liturgia ed è rivolta non ai soli fedeli, ma all’intero mondo.

Poste queste premesse l’azione liturgica si propone come “sacra” per eccellenza. Cioè come “altra”, “diversa” dall’agire comune, quotidiano e “profano” di questo mondo. Diversa però di una diversità che non è estraneità. Sta qui, come si suol dire familiarmente, il “bello”. Altra perché in essa l’azione principale e fondamentale è azione di Dio, “irruzione” di Dio nello spazio e nella storia di questo mondo. Non estranea però perché in essa l’uomo è associato a questa azione. L’uomo non solo come individuo, ma come essere sociale, perché è un’azione “pubblica” (tale è infatti il significato etimologico del termine greco leitourgia (5)) essendo azione di Cristo capo (uomo e Dio) e di tutto il suo corpo che è la Chiesa: culto integrale.

Nessuna azione è sacra come questa:

“Se tutto questo è la Liturgia, a ragione il Concilio afferma che ogni azione liturgica “è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (SC 7). Al tempo stesso, il Concilio riconosce che “la sacra Liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa” (SC 9)”. Anche qui abbiamo un’unicità non esclusiva ma inclusiva.

La liturgia non è l’unica azione della Chiesa, perché è necessariamente preceduta dall’annuncio del Vangelo e deve essere seguita dalla testimonianza dei cristiani nella storia.

C’è un qualcosa che deve necessariamente precedere la liturgia. Si tratta ovviamente della fede e quindi del sacramento della fede che è il Battesimo, detto ianua Ecclesiæ “porta della Chiesa”. Quando un fedele entra in chiesa è bene che si faccia un segno di croce con l’acqua benedetta: è una memoria del Battesimo. La chiesa di pietre è segno della Chiesa corpo di Cristo. Così come in questa Chiesa si è stati inseriti con il battesimo, che è stato aspersione di acqua “nel nome del Padre, del figlio e dello Spirito Santo”, così nella chiesa edificio si entra ripetendo simbolicamente quel gesto. La Chiesa antica aveva una pratica che – con il passare del tempo e il mutare delle circostanze – è andata in disuso: quella di non ammettere i catecumeni (cioè gli aspiranti al Battesimo) che alla prima parte della celebrazione eucaristica, detta per questo anche “Messa dei catecumeni”. Al momento dell’inizio della liturgia eucaristica vera e propria i catecumeni venivano invitati ad uscire. Questa pratica si trovava intrinsecamente e logicamente intrecciata con un’altra, detta anche “disciplina dell’arcano”, per cui i riti e le parole dell’eucaristia venivano circondati da un’estrema discrezione, stimando che – per capirli adeguatamente – non era sufficiente cogliere il senso immediato delle parole, ma occorreva una vera e propria iniziazione, che è qualcosa di soprannaturale nella sua intima essenza. Pur nell’innegabile somiglianza di vocabolario, questa pratica è ben diversa da quella analoga propria alle antiche comunità gnostiche, spesso riproposta in varie forme – sempre però piuttosto “artificiali” – nella lunga storia dei movimenti esoterici e magici. Non si tratta infatti di dividere gli uomini in più categorie, gli “spirituali”, gli “psichici” e i “somatici”, tali da determinarli definitivamente come adatti o meno per loro natura a cogliere il mistero, ma di riconoscere che “cristiani si diventa” e che questo comporta obbligatoriamente un cammino, una “sinergia” in cui l’azione determinante è quella libera e gratuita di Dio, che però non si compie senza lo storico dispiegarsi della libertà dell’uomo. Accanto alla figura del “catecumeno”, l’antica disciplina ne prevedeva un’altra, quella del “penitente”. Come è noto il sacramento della penitenza è quello che, nella storia della Chiesa, ha conosciuto il più grande sviluppo ed evoluzione di forme (non ovviamente di sostanza). Solo lentamente si è imposta nella Chiesa la prassi di una riconciliazione frequente, mediante un colloquio con il sacerdote senza un procedimento canonico che coinvolgesse tutta la comunità, soprattutto con una penitenza che segue l’assoluzione e non la precede. Anticamente i penitenti dovevano sottoporsi ad una penitenza lunga e impegnativa – in proporzione ovviamente alle colpe commesse – che sfociava in una solenne riammissione nella comunione piena il giorno del giovedì santo. Nel frattempo potevano partecipare solo ad una parte della liturgia, posti in un luogo a loro riservato e quindi separati da resto dell’assemblea. Come i catecumeni.

Queste considerazioni mi inducono ad una breve digressione di carattere pastorale. “Il vecchio slogan “sono credente ma non praticante” dovrebbe anch’esso essere oggetto di discernimento. Dal punto di vista pastorale, ci si trova davanti o a un battezzato “prematuro”, dunque un catecumeno, oppure a un penitente inconsapevole. Le assemblee primitive prevedevano queste due categorie di persone e le facevano partecipare solo gradualmente alla liturgia eucaristica. Si pensi a come, prima i catecumeni e poi i penitenti, venivano mandati fuori dall’assemblea prima che iniziasse l’anafora” (6). Oggi, preso finalmente atto che la nostra cristianità è finita (7) e rimangono solo elementi residuali, più che da “cristiani anonimi” siamo ancora circondati da “catecumeni” e “penitenti anonimi”. L’atteggiamento giusto nei loro confronti non è quello di “sgridarli”, ingiungendo loro di “andare a Messa”! Certamente è il procedimento per tanti versi più facile, ma non certamente il più opportuno e fruttuoso. Si tratta prima di spiegare (o ri-spiegare) loro che cos’è la Messa: ma non solo, perché la liturgia non è una dottrina che si lascia apprendere con una breve conversazione e neppure con un semplice “corso”, per quanto lungo e sofisticato esso sia. Si tratta piuttosto di avviarli ad un “percorso”: di iniziazione e conversione. Essi sono a volte presenti – quasi casualmente – nelle nostre chiese come spettatori inerti e annoiati dei “divini misteri”. Un celebrante che si sforzasse di rendere a tutti i costi interessante la liturgia per questo genere di persone fraintenderebbe il suo compito, confondendo i ruoli: la celebrazione liturgica – nel suo insieme – non è né evangelizzazione né catecumenato (8). Oggi dunque più che sforzarsi di moltiplicare le celebrazioni, bisognerebbe moltiplicare le occasioni di iniziazione ai santi misteri. Certo occorre che le persone sufficientemente preparate e desiderose di partecipare all’eucaristia, anche quotidianamente, abbiano la possibilità di farlo – nella misura del possibile – senza dover ricorrere a sforzi eroici. Ma occorre soprattutto che l’innumerevole schiera dei catecumeni e penitenti anonimi escano dal loro anonimato e percorrano un itinerario iniziatico per partecipare in pienezza alla liturgia. Non si tratta ovviamente di fare dell’archeologismo, riesumando puramente e semplicemente l’antica dottrina dell’arcano e l’antica prassi penitenziale, ma di comprendere che queste antiche pratiche hanno ancora qualcosa di molto importante da insegnarci, che diventa tanto più importante e attuale in una società multiculturale in cui il cristianesimo è spesso assolutamente minoritario. La promulgazione di un articolato rito per il Battesimo degli adulti costituisce uno degli elementi più positivi della riforma liturgica e un esempio di opportuno “recupero” della prassi antica (9).

Per questo il Papa pone una particolare enfasi nel sottolineare l’importanza di una adeguata preparazione alla liturgia:

“Occorre tuttavia che i Pastori facciano in modo che il senso del mistero penetri nelle coscienze, riscoprendo e praticando l’arte “mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa” (n. 12).

Il senso del mistero poi è strettamente connesso con l’adeguato apprezzamento del silenzio: “Un aspetto che occorre coltivare con maggiore impegno all’interno delle nostre comunità è l’esperienza del silenzio” (n. 13) e con il conseguimento di un autentico “gusto della preghiera” (n. 14). A questo scopo la preghiera liturgica, pur conservando tutto il suo primato, ” non si pone in tensione con la preghiera personale, anzi la suppone ed esige ” (Ibidem).

Oggi – in una società ampiamente secolarizzata, in cui convivono un’ambiente e un ritmo di vita ampiamente profani e una ricerca confusa ma a tratti spasmodica di pratiche e dottrine che evochino il sacro – la necessità del sacro e del mistero appare sempre di più come ovvia. Si rende però nello stesso tempo anche chiaro che questo richiede una adeguata preparazione, appunto un’”arte mistagogica” (n. 12) cioè un’introduzione progressiva al senso profondo dei misteri cristiani che comporta necessariamente un’educazione al senso del sacro e al senso del mistero. Non solo quella mistagogia assicurata all’interno della liturgia o costituita dalla liturgia stessa, ma precedente e susseguente ad essa. Un po’ come il necessario parco, giardino, siepe, zona “di rispetto”, attorno ad un edificio che altrimenti risulterebbe privo di vita e di ambiente, “avulso”. Un’impatto con la liturgia senza preparazione – soprattutto in un ambiente che vive di altri valori; oggi per lo più di valori, sentimenti, atteggiamenti che le sono radicalmente entitetici – è disastroso. Dimenticata la necessaria preparazione, lo sforzo susseguente di renderla comprensibile – nonostante le buone intenzioni – si risolve inevitabilmente in una sua banalizzazione.

Ritornando a quanto detto precedentemente dunque, la liturgia non è l’unica azione sacra della Chiesa, perché qualcosa la deve precedere. Ma non è l’unica anche perché qualcosa la deve seguire: la testimonianza dei cristiani nella storia.

Qui chiediamo soccorso al Catechismo della Chiesa Cattolica, che costituisce un eccezionale e ancora troppo poco utilizzato strumento di interpretazione dei documenti del Concilio. Nel Catechismo infatti troviamo i principi di una profondissima teologia della liturgia (10). Il cuore della liturgia consiste nella ri-attualizzazione di un evento: il mistero pasquale di Cristo morto e risorto. Non si tratta di sostenere l’assurdo che un evento storico passato non sia passato, annullando il trascorrere del tempo. Si tratta di comprendere che – se la storia ha un senso – deve avere un telos, un orientamento. Se tutti gli eventi della storia si situassero allo stesso identico livello, mancherebbe l’indispensabile punto di riferimento per questa tensione. Se il punto di riferimento fosse esclusivamente trascendente, allora la storia in sé non potrebbe che sforzarsi di imitare l’eternità ripetendo indefinitamente le stesse cose… La fede ci dice che c’è una “pienezza del tempo”. In questa pienezza si sono dati eventi che – per loro natura – non passano più:

“Nella Liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principalmente il suo Mistero pasquale. Durante la sua vita terrena, Gesù annunziava con il suo insegnamento e anticipava con le sue azioni il suo Mistero pasquale. Venuta la sua Ora, [Cf Gv 13,1; 1085 Gv 17,1 ] egli vive l’unico avvenimento della storia che non passa: Gesù muore, è sepolto, risuscita dai morti e siede alla destra del Padre “una volta per tutte” ( Rm 6,10; Eb 7,27; Eb 9,12 ). E’ un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma è unico: tutti gli altri avvenimenti della storia accadono una volta, poi passano, inghiottiti nel passato. Il Mistero pasquale di Cristo, invece, non può rimanere soltanto nel passato, dal momento che con la sua morte egli ha distrutto la morte, e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell’eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente. L’evento della croce e della Risurrezione rimane e attira tutto verso la Vita” (11).

Come questo “unico avvenimento della storia che non passa” può diventare attuale anche per me? Appunto, mediante la partecipazione alla liturgia. Ma, se esso diventa attuale per me, vuol dire che io lo debbo in qualche modo “riprodurre” nella mia vita:

“Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. […]:

Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i Misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa… Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un’estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi Misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso i suoi Misteri. E con questo mezzo egli vuole completarli in noi(12).

La liturgia dunque non esime dall’impegno concreto nella vita cristiana e neppure – ovviamente – l’esaurisce, ne costituisce piuttosto l’indispensabile ordinario presupposto. Nel quasi inesauribile repertorio delle banalità post-conciliari abbiamo certamente tutti incontrato la sentenza per cui la “vera” liturgia è quella dell’impegno sociale o politico o altro. La celebrazione liturgica allora, se vuole conservare una qualche plausibilità, deve essere il riflesso, la “celebrazione” di questo impegno. Come tutti gli errori ha ovviamente una sua componente di verità (un vecchio proverbio inglese dice che “anche un orologio rotto, almeno due volte al giorno ha ragione…”): la liturgia se è autentica per me (cioè se è fruttuosa) deve continuare anche dopo il momento della “celebrazione” stricto sensu intesa, perchè quello è il suo significato e il suo scopo. L’evento della Croce e della Resurrezione, che si è compiuto nella storia, deve diventare storico anche in me, per dare senso alla mia vita e anche attraverso di me conferire senso alla storia. Quello che la banalità dell’orizzontalismo sociologistico misconosce è che la storia è stata oscurata dal peccato e che è bisognosa di salvezza. Se io “celebro” la vita quotidiana dell’uomo, così come concretamente si dà nella storia, non porto nessuna luce e nessuna salvezza e la celebrazione è condannata e rimanere deludente e banale (se ritrovo in chiesa quello che c’è già fuori non vedo nessuna ragione di entrarvi… (13)). Misconosce poi che ciò a cui Dio ci chiama dopo il peccato è qualcosa che va oltre una pura restaurazione della natura, ma è partecipazione alla natura divina (cfr. 2Pt 1,4) e quindi tale da porsi oltre ad ogni possibilità – anche rappresentativa – della natura in sé stessa.

La liturgia trescende il tempo non perché lo “annulla”, ma perché lo compie. Essa dunque dà senso alla storia riassumendone in sé e perfezionandone tutte le componenti: passato, presente e futuro.

“La Chiesa celebra il Mistero del suo Signore “finché egli venga” e “Dio sia tutto in tutti” ( 1Cor 11,26; 1Cor 15,28 ).

[…]

San Tommaso riassume così le diverse dimensioni del segno sacramentale: Il sacramento è segno commemorativo del passato, ossia della passione del Signore; è segno dimostrativo del frutto prodotto in noi dalla sua passione, cioè della grazia; è segno profetico, che preannunzia la gloria futura(14).

Seguendo uno schema che è diventato ormai una consuetudine – soprattutto a proposito di liturgia – il Papa fa cenno nella lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia a “luci e ombre”. Le luci sono identificate in “una più consapevole, attiva e fruttuosa partecipazione dei fedeli al santo Sacrificio dell’altare”. Mentre tra le ombre sono rubricati: il fatto che in certi luoghi si sia giunti ad “un pressoché completo abbandono del culto di adorazione eucaristica”; il diffondersi di abusi e – in conseguenza di questi il manifestarsi di una comprensione riduttiva del mistero eucaristico per cui “Spogliato del suo valore sacrificale, viene vissuto come se non oltrepassasse il senso e il valore di un incontro conviviale fraterno”, “la necessità del sacerdozio ministeriale, che poggia sulla successione apostolica, rimane talvolta oscurata” e “la sacramentalità dell’Eucaristia viene ridotta alla sola efficacia dell’annuncio”. Abusi liturgici se ne sono purtroppo sempre avuti nella storia della Chiesa. Quello che però rende la situazione odierna particolarmente preoccupante è lo sfondo teologico – o meglio “ideologico” – che li sostiene. Non si tratta cioè – per lo più – soltanto di umana trascuratezza, di pigrizia e indifferenza, ma di segnali della presenza di un’altra concezione del mistero eucaristico, una concezione alternativa rispetto a quella della fede della Chiesa. Una concezione che lo priva di alcuni tratti che sono ad esso essenziali e quindi lo sfigura a volte radicalmente, in modo tale da compromettere la validità stessa del sacramento. La classificazione del Papa ci riporta a tre punti dogmatici nevralgici del mistero eucaristico: la natura sacrificale dell’eucaristica, la differenza essenziale tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, la presenza reale che perdura anche dopo la celebrazione e quindi rende possibile e conveniente atti di adorazione dell’Eucarestia anche extra Missam. Si tratta in buona sostanza della dottrina del concilio di Trento che, non a caso, viene richiamata con particolare enfasi sia nella Ecclesia de Eucharistia che nei lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi. Non si tratta – come superficialmente da alcuni si sente dire – di “tornare al concilio di Trento”, perché nella storia e anche nella storia dei dogmi non si torna mai indietro, si tratta piuttosto di avere una concezione ortodossa dello sviluppo dogmatico. Le dottrine e i dogmi hanno sempre bisogno di essere di nuovo capiti e reinterpretati e quindi anche approfonditi. Interpretazione poi non è sinonimo di cambiamento, ma significa propriamente esattamente il contrario. Io interpreto correttamente un testo quando lo traduco in modo tale da farne comprendere il suo senso proprio e oggettivo, quando lo traduco e non lo tradisco. Come ripeteva una grande maestro contemporaneo dell’interpretazione riprendendo un antico canone dell’ermeneutica giuridica: “sensus non est inferendus, sed efferendus” (15). “Con i limiti che si possono certamente trovare nei testi di Trento, Trento rimane la norma, riletto con la nostra conoscenza più ricca e più profonda dei Padri e del Nuovo Testamento, letto con i Padri e con la Chiesa di tutti i tempi” (16); “Trento non si è sbagliato, si appoggiava sul fondamento solido della Tradizione della Chiesa. Rimane un criterio affidabile. Ma noi possiamo e dobbiamo comprenderlo in un modo più profondo ricorrendo alle ricchezze della testimonianza biblica e della fede della Chiesa di tutti i tempi. Ci sono dei veri segni di speranza che questa comprensione rinnovata e approfondita di Trento possa, in particolare attraverso l’intermediario delle Chiese di Oriente, essere resa accessibile ai cristiani protestanti” (17). Non si tratta cioè di rifiutare la storia, ma proprio il contrario, cioè di difenderla. Se i dogmi mutano sostanzialmente infatti, allora non ha più senso di parlare di storia: non si dà più storia di un soggetto che ha cessato di esistere… Non si tratta neppure di rifiutare l’approfondimento, anzi, proprio di fondarne la possibilità, perchè non ha senso approfondire ciò che non si ritiene più vero.

Risulta difficile, per non dire impossibile, parlare della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium e della riforma liturgica che ha fatto seguito, senza evocare le reazioni che essa ha suscitato. A testimonianza che la liturgia si trova alla fonte e al vertice della vita della Chiesa e quindi la condiziona radicalmente e insieme ne riflette invariabilmente le tensioni e i problemi, toccare il “problema liturgico” è un po’ come mettere il dito su un nervo scoperto… È veramente difficile ricostruire attorno a questo problema un clima sereno e oggettivo, ma ciò non toglie che sia comunque sempre qualcosa di necessario e anche di urgente. Un evento in particolare ha riacceso le discussioni sul punto: Il 24 maggio 2003, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, il card. Darío Castrillón Hoyos, prefetto della Congregazione per il Clero e presidente della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, nell’approssimarsi del XXV anniversario di elevazione al Sommo Pontificato di Papa Giovanni Paolo II e nel contesto dell’Anno dedicato al Rosario, ha celebrato una Messa nel rito romano detto di san Pio V. La celebrazione della Messa tradizionale da parte di una tale personalità e in quel luogo e contesto costituiva già di per sé un evento ecczionale. A rendere però il fatto ancor più significativo sono state le parole pronunciate dal prelato nell’omelia, in particolare: “Il rito cosiddetto di san Pio V non si può considerare come estinto e l’autorità del Santo Padre ha espresso la sua benevola accoglienza verso i fedeli che, pur riconoscendo la legittimità del rito romano rinnovato secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II, rimangono legati al precedente rito e trovano in esso valido nutrimento spirituale nel loro cammino di santificazione. D’altronde, lo stesso Concilio Vaticano II dichiarava che […] la santa madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati, e desidera che, ove sia necessario, vengano prudentemente riveduti in modo integrale nello spirito della santa tradizione e venga loro dato nuovo vigore secondo le circostanze e le necessità del nostro tempo”. L’antico rito romano conserva, quindi, nella Chiesa il suo diritto di cittadinanza nella multiformità dei riti cattolici, sia latini che orientali. Ciò che unisce la diversità di questi riti è la stessa fede nel Mistero Eucaristico, la cui professione ha sempre assicurato l’unità della Chiesa, santa, cattolica ed apostolica” (18). Le parole del porporato paiono esprimere un atteggiamento dell’autorità della Chiesa che va oltre la concessione di un benevolo indulto, perché qui si parla di rito accanto ad altri riti, soggetto di diritti e di onore, invocando allo scopo le solenni parole della Costituzione Sacrosanctum Concilium.

Queste espressioni hanno suscitato forti reazioni, come era prevedibile. Perplessità anche presso i fedeli più obbedienti e aperti agli insegnamenti della Santa Sede.

C’è stata una riforma: un rito è stato legittimamente riformato dall’autorità competente, come è possibile ammettere che la sua forma precedente possa sussistere accanto a quella rinnovata come un rito autonomo? Ci si troverebbe davanti all’assoluta anomalia di due riti romani. Il carattere di “indulto” ne salvaguarda la provvisorietà, qualifica la misura come strettamente pastorale, in vista di permettere a fedeli che non hanno ben capito la portata e il valore della riforma di adattarsi con il tempo a quanto la Chiesa ha stabilito, ma un “rito” a pieno titolo rischia di trasformare un’anomalia transitoria in qualcosa di definitivo.

Credo che questo tipo di ragionamento non tenga conto di diversi fattori. Innanzitutto il fatto – perché di incontestabile fatto si tratta – che qui ci troviamo di fronte alla più vasta e radicale riforma che si sia mai data nella storia della liturgia cristiana. Verso la metà del seicento il patriarca di Mosca Nikita Minič Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino slavo celebrato dalla chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni (frantumatosi ben presto in diverse branche) che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti (19). Tenendo conto di questo e altri precedenti storici (20) nel caso della riforma attuata dopo il concilio Vaticano II c’è da rimanere piuttosto stupiti che lo scisma che ha generato sia così ridotto, certamente non proporzionato rispetto alle reali dimensioni del disagio che la radicalità e la rapidità dei cambiamenti ha comunque di fatto indotto nella Chiesa. Ma – si sa – la presenza del Magistero rappresenta nella chiesa cattolica un elemento fondamentale di equilibrio che rende improbabili – nella misura ovviamente in cui il “senso del Magistero” rimane operante – le manifestazioni di “estremismo”: le cose sarebbe andate in ben altro modo in una Chiesa o comunità ecclesiale non cattolica.

Questa riforma poi – e riforma di tali proporzioni – si è presentata sul palcoscenico della storia in un momento particolarmente delicato, caratterizzato soprattutto da due elementi. Innazitutto una difficilissima e delicatissima situazione di instabilità teologica, conseguenza della crisi modernistica di inizio novecento, non ancora veramente superata; in secondo luogo il contesto di una società ampiamente secolarizzata, in cui il senso del sacro e delle ritualità era sottoposto ad una critica radicale e quindi in stato di endemica incertezza, in preda alla “quarta Rivoluzione”, cioè alla “Rivoluzione culturale”, utilizzando le sempre feconde categorie di Plinio Corrêa de Oliveira. “Tutte le liturgie precedenti … facevano parte di una cultura essa stessa di carattere rituale. La cultura dominante che cominciò ad emergere dopo la seconda guerra mondiale, lungi dall’essere “di carattere rituale”, era una cultura per la quale rituale, gerarchia, riverenza e costume erano oggetto di sospetto”(21). Anche qui c’è da rimanere piuttosto stupiti che il rito riformato sia nella sua struttura assolutamente ortodosso, cioè conforme alla retta fede, pur prestando il fianco a legittime critiche di carattere liturgico. E anche questo è un fatto(22).

Risultano veramente illuminanti a questo proposito le osservazioni del cardinale di Chicago nell’occasione della giornata commemorativa del 4 dicembre:

“Personalmente credo che il rinnovamento liturgico dopo il concilio è stato considerato come un programma o un movimento di cambiamento, senza sufficientemente cosiderare che cosa succede in una comunità quando il suo sistema simbolico è messo sottosopra. […] Un cambiamento nella liturgia cambia il contesto della vita della Chiesa. Recentemente, introducendo i cambiamenti disposti dal nuovo Ordinamento generale del Messale Romano (terza edizione tipica), facevo notare che i cambiamenti erano “minimi”. Una laica dell’arcidiocesi di Chicago mi corresse: “Cardinale, non ci sono cambiamenti minimi in liturgia”. Aveva ragione”(23).

Le legittime perplessità riguardo alla presenza di due “riti romani” uno accanto all’altro si sciolgono facilmente se si riflette un po’ più attentamente sul significato dell’espressione “rito”. Si tratta infatti di una parola dai significati molteplici. Possiamo prendere “rito” nel suo senso più generico, ricorrendo alla storia e alla fenomenologia delle religioni. Il latino ritus corrisponde al sanscrito rta, “ordine” e designa un’”Azione sacrale compiuta secondo moduli fissi” e in base a “uno schema di comportamento sottratto alla contingenza e proposto dalle varie religioni come un’azione simbolica o un “simbolo d’azione””(24). In questo senso ampio potremmo dire che i riti fondamentali della Chiesa Cattolica e anche della Chiese orientali separate da Roma sono costituiti dai sette sacramenti. Uno sguardo più attento ci fa però subito scoprire che questi riti incontrano modalità abbastanza diverse nella loro esecuzione, quanto a lingua, gesti e formule utilizzati senza che la Chiesa li ritenga sostanzialmente diversi. Qui allora parliamo di “riti” in un altro senso, non più genericamente storico-religioso, ma “liturgico”. Volendoci limitare ai riti principali, dovremmo segnalare, nell’ambito del rito latino, il rito romano e quello ambrosiano, che è il rito della diocesi di Milano. Nell’ambito della tradizione Costantinopolitana il rito bizantino che in Russia, Serbia, Bulgaria ecc. diventa bizantino-slavo. In quella siriaca, il rito siro-antiocheno, a cui deve essere accostato il rito maronita (Libano), e quello siro-orientale (“assiro” o “caldeo”) con il rito siro-malabarese, proprio delle comunità cristiane che in India si ricollegano alla tradizione di san Tommaso Apostolo (i “cristiani di san Tommaso”). Alla tradizione Alessandrina appartiene il rito copto, a cui si ricollega anche il rito etiopico; mentre il rito armeno, espressione liturgica dell’antichissima Chiesa Armena, raccoglie influssi di diverse tradizioni, soprattutto quella antiochena e costantinopolitana.

Il termine “rito” in liturgia rivela dunque una straordinaria complessità. Può designare le grandi famiglie litugiche: ecco allora il rito latino, il rito bizantino, il rito copto, il rito siro-antiocheno, il rito siro-orientale, il rito armeno di cui abbiamo parlato. Può designare “sotto-famiglie” all’interno delle grandi tradizioni liturgiche, come il rito etiopico nell’ambito del rito copto; quelli bizantino-slavo, bizantino-rumeno e melchita nell’ambito del rito bizantino; il rito ambrosiano e mozarabico nell’ambito del rito latino. Ma questi stessi riti, come per es. il rito romano, possono conoscere a loro volta diverse varianti rituali, e qui incontriamo un ulteriore significato del termine. Prima del Concilio per es. poteva facilmente capitare ad un fedele di entrare in un convento dei frati di san Domenico (Ordo prædicatorum) ed assistervi ad una Messa celebrata in un “altro” rito, il rito appunto “domenicano”. Anche il rito domenicano era rito romano, non un altro rito come poteva essere il rito bizantino, ma ne costituiva una “variante”. Come il rito certosino per fare un esempio legato ad una famiglia liturgica o quello della diocesi di Braga (Portogallo), per richiamare l’ambito delle varianti “territoriali”(25).

È evidentemente in quest’ultimo senso che bisogna intendere le parole del cardinale Hoyos, come d’altronde lui stesso ha precisato: non si tratta di due riti come possono essere il rito bizantino e quello armeno, ma di due varianti all’interno dello stesso ed identico rito romano(26).

D’altra parte, se da un punto di vista teorico, due varianti del rito romano che coesistono non crea problemi, sussistono degli indubbi problemi dal punto di vista pastorale e anche ecclesiologico. Una generale e indiscriminata “liberalizzazione della Messa” andrebbe incontro a diverse difficoltà pratiche. Chi infatti potrebbe decidere quale Messa celebrare in parrocchia? Il parroco? Allora potrebbe succedere che un parroco imporrebbe ad una parte dei fedeli un rito che non è di loro gradimento e questo in virtù di una sua scelta personale e soggettiva: il colmo del clericalismo! I parrocchiani? Ma in che modo? Attraverso libere elezioni? Si tratta di una procedura impensabile nella Chiesa. Affronta la delicata questione con l’abituale chiarezza e profondità il cardinale Ratzinger:

“Come regolamentare l’uso dei due riti? Mi sembra chiaro che, nel diritto, il Messale di Paolo VI è il Messale in vigore e che il suo uso è normale. Bisogna dunque studiare in qual modo permettere e conservare per la Chiesa il tesoro dell’antico Messale. […] se c’era un rito domenicano, se c’era – e c’è ancora – un rito milanese, perché non anche il rito – cosiddetto – “di san Pio V”? Ma c’è un problema molto reale: se l’ecclesialità diventa una questione di libera scelta, se ci sono nella Chiesa delle chiese rituali scelte secondo il criterio della soggettività, questo crea un problema. La Chiesa è costruita sui vescovi secondo la successione degli apostoli nella forma delle Chiese locali, dunque con un criterio oggettivo. Io sono in questa Chiesa locale e non cerco i miei amici, ma trovo i miei fratelli e le mie sorelle; e i fratelli e le sorelle non si cercano, si trovano. Questa situazione di non arbitrarietà della Chiesa nella quale mi trovo, che non è una chiesa di mia scelta ma la Chiesa che si presenta a me, è un principio molto importante. Mi sembra che le lettere di sant’Ignazio vanno con decisione in questa linea che questo vescovo è la Chiesa; non è una mia scelta, come se io andassi col tal gruppo di amici o col tal altro; io sono nella Chiesa comune, con i poveri, con i ricchi, con le persone simpatiche e non simpatiche, con gli intellettuali e con gli stupidi; io sono nella Chiesa che mi precede. Aprire ora la possibilità di scegliere la propria Chiesa “à la carte”, potrebbe realmente ferire la struttura della Chiesa.

“Bisogna dunque cercare – mi sembra – un criterio non soggettivo, per aprire la possibilità dell’antico Messale. Mi sembra molto facile se si tratta di monasteri: è una cosa buona; corrisponde anche alla tradizione secondo la quale c’erano degli ordini con un rito speciale, per esempio i domenicani. Dunque dei monasteri che garantiscono la presenza di questo rito, o anche delle comunità come i domenicani di san Vincenzo Ferreri, o altre comunità religiose, o anche delle fraterniità: questo mi sembra essere un criterio oggettivo. Naturalmente il problema si complica con le fraternità che non sono degli ordini religiosi, ma comunità di preti non diocesani e tuttavia prestanti esercizio nelle parrocchie. Forse la parrocchia personale è una soluzione, ma non è anch’essa senza problemi. In ogni caso la Santa Sede deve aprire a tutti i fedeli questa possibilità e consercare questo tesoro, ma d’altra parte deve anche conservare e rispettare la struttura episcopale della Chiesa”(27).

Rimangono però perplessità di un altro e più profondo ordine, perché se “La diversità liturgica può essere fonte di arricchimento” essa “può anche provocare tensioni, reciproche incomprensioni e persino scismi”(28). Così qualcuno – considerando giustamente che un rito è sempre anche espressione di una teologia, oltre che di una spiritualità – ha avanzato il sospetto che la simpatia manifestata nei confronti del Vetus Ordo celi in realtà la professione di una ecclesiologia alternativa rispetto a quella professata dal concilio Vaticano II nella Lumen gentium. Davanti a questo genere di obiezioni non si può non provare un forte disagio, perché riesce veramente difficile – pur con tutta la consapevolezza dell’importanza che lo sviluppo dogmatico ha nella vita della Chiesa, e anche che molte eresie del passato sono state almeno in parte motivate da indebite resistenze nei confronti di un legittimo progresso – pensare che un rito praticato nella Chiesa in modo pressoché immutato per secoli e che ha nutrito la devozione di generazioni di fedeli e di santi possa improvvisamente diventare dogmaticamente scorretto! Se lo sviluppo dogmatico precludesse per principio la possibilità di utilizzare formule precedenti, non si capirebbe neppure come la riforma liturgica abbia potuto recuperare testi arcaici reinserendoli nell’uso vivo della Chiesa di oggi. Se poi in qualche caso nelle critiche al Novus Ordo si può trovare una certa debilitazione del ruolo e dell’importanza del sacerdozio comune dei fedeli, bisogna però riconoscere che questo non è mai il punto dominante; la letteratura critica indugia piuttosto sul carattere sacrificale e la presenza reale e in generale sul senso del sacro. Soprattutto si può ritorcere l’argomento. Come spiegare una opposizione così sistematica e viscerale al Vetus Ordo? Certo, presso qualche perito del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia si può scorgere la “troppo umana” preoccupazione di difendere il proprio operato, ma in altri si profila l’immagine inquietante di un’ “altra” concezione dell’Eucaristia, in cui sacrificio, presenza reale e sacerdozio ministeriale sono percepiti con disagio e fastidio…

Ma non si tratta comunque di una chiara scelta di ciò che c’era prima del Concilio e quindi di una messa in discussione del Concilio in quanto tale? La celebrazione del Vetus Ordo non rappresenta di suo un rifiuto del Concilio? Una scorsa attenta della letteratura critica sulla riforma liturgica, letteratura che cresce velocemente in quantità e qualità, è tale da mettere in luce che la posta in gioco non è affatto il Concilio, ma caso mai quale interpretazione dare del Concilio. Non dunque Concilio o anti-Concilio, ma continuità o rottura. Ciò che anima i critici non è il misconoscimento del valore e della necessità del rinnovamento conciliare, quanto la preoccupazione che qualunque sviluppo nella Chiesa si può dare solo se è ben saldamente assestato sulla base di una forte e convinta coscienza di continuità. Se le cose stanno così allora la coesistenza dei due riti – in qualunque modo poi la questione possa essere risolta dal punto di vista normativo e pastorale – appare come una pratica e persuasiva icona del corretto sviluppo della fede della Chiesa, che non si attua per rottura e sostituzione ma per viva e progressiva crescita organica, tale da confondersi con quella evangelica dello ” scriba divenuto discepolo del regno dei cieli … che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).

* * *
 

Note:
(1) Cfr. Congregazione per il Culto Divino e i Sacramenti, Spiritus et Sponsa. Atti della Giornata commemorativa del XL della “Sacrosanctum Concilium”, Roma, 4 dicembre 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004.
(2) Discorso a chiusura del secondo periodo del Concilio, 4 dicembre 1963, in: Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Edizione Dehoniane, Bologna 1981, n. 212*.
(3) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1073.
(4) Vale la pena notare che il Catechismo della Chiesa Cattolica riprende ed “enfatizza” le espressioni del Tridentino: “Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio: “Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Gesù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. “In questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo, che si offrì una sola volta in modo cruento sull’altare della croce” [Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1740]” (n. 1367). Cfr anche il n. 1545.
(5) Il termine nel suo significato classico indica “una funzione ufficiale da parte della nobiltà” (Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo, Scientia Liturgica. Manuale di Liturgia, Direzione di Anscar J. Chupungco, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1998, I vol., p. 17). Non tutti possono partecipare alla liturgia (alla sua parte più intima ed essenziale, come vedremo), ma solo i battezzati. Ora, con il battesimo si entra a far parte di una “stirpe eletta”, di un “sacerdozio regale”, di una “nazione santa”, di un “popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui” (1 Pt 2,9). “Aristocratico” o “nobile” non è solo chi vanta nobili origini (qui origini divine, cfr. 2 Pt 1,4), è anche chi non si chiude nel proprio “particulare”, ma si fa carico del bene comune della città. In questo caso, come abbiamo visto, addirittura del “cosmo”.
(6) Jean Corbon, S.J., Liturgia alla sorgente, trad. it., Qiqajon, Magnano (BI) 2003, p. 122, n. 1.
(7) “È ormai tramontata, anche nei Paesi di antica evangelizzazione, la situazione di una “società cristiana”, che, pur fra le tante debolezze che sempre segnano l’umano, si rifaceva esplicitamente ai valori evangelici” (Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte. Lettera apostolica al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000, 6 gennaio, 2001, n. 40).
(8) Fermo restando che una degna celebrazione – per il suo valore estetico, percepibile anche da chi non crede o non crede abbastanza – ha un’indubbio valore apologetico. Ma proprio nella misura in cui è disinteressata, cioè non si pone direttamente l’apologetica e l’evangelizzazione come compito.
(9) Rituale Romanum, Ordo Initiationis Christianæ Adultorum (1972); per l’edizione ufficiale italiana: Conferenza Episcopale Italiana, Rituale Romano, Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1978.
(10) “La prima sezione della Sacrosanctum Concilium […] è deliberatamente breve, i suoi importantissimi punti non sono ulteriormente sviluppati. Aspetti della teologia delal liturgia sono ripresi nella Lumen gentium e Dei Verbum, e l’area della teologia liturgica è stata oggetto di una seria riflessione in questi quarant’anni. Il più importante sviluppo magisteriale sul punto può essere trovato nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Questo entra nella categoria dello sviluppo della dottrina, perché il modo con cui il Catechismo tratta l’argomento gli fa fare un significativo passo avanti che è insieme di una semplicità disarmante e di una profondità stupefacente” (card. Francis Eugene George, O.M.I., arcivescovo di Chicago, Lecture commemorating “Sacrosanctum Concilium”, in Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, Spiritus et Sponsa. Atti della Giornata commemorativa del XL della “Sacrosanctum Concilium”. Roma, 4 dicembre 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 207-222 [210]).
(11) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1085.
(12) Ibid., n. 521. Qui il Catechismo cita San Giovanni Eudes, Tractatus de regno Iesu, testo che troviamo anche nella Liturgia delle Ore, vol. IV, Ufficio delle letture del venerdì della trentatreesima settimana.
(13) Nel 1972 la rivista americana di liturgia Worship chiese all’antropologo statunitense di origine scozzese Victor Turner (1920-1983), molto noto e assai apprezzato per i suoi studi antropologico-culturali ed etnologici sul rituale, di esprimere il suo parere – dal punto di vista della sua disciplina – sulla recente riforma liturgica. Turner, che era un cattolico praticante, senza voler assolutamente entrare direttamente in quastioni teologiche e liturgiche, fece notare che il tentativo di rendere i riti cattolici più comprensibili e aderenti alla vita di tutti i giorni rischiava proprio di intaccare il processo rituale in qualcosa che gli è essenziale, cioè il suo porsi al di fuori degli schemi ordinari della vita. Le forme liturgiche ” hanno un carattere decisamente opposto a quelle prevalenti nel campo delle strutture sociali. Uno dei modi con cui esse capovolgono le strutture secolari è la loro qualità ‘arcaica’. È un errore pensare che l’arcaico sia fossilizzato o sorpassato. L’arcaico può essere contemporaneo come la fisica nucleare. Nel rito l’arcaico è una metafora dell’antistruttura. […] Il positivismo e il razionalismo hanno ridotto il rito e il suo simbolismo a poco più che il riflesso e l’espressione di aspetti della struttura sociale, diretti o ‘velati’ o ‘proiettati’. I momenti liminali e il rito che li protegge sono le prove dell’esistenza di poteri antitetici a quelli che generano e mantengono strutture ‘profane’ di tutti i tipi, sono una prova che l’uomo non vive di solo pane. Se il rito non è necessariamente un semplice riflesso della vita sociale secolare, se la sua funzione è in parte di proteggere e in parte di esprimere verità che rendono gli uomini liberi dalle esigenze del loro stato, liberi di contemplare e pregare, di pensare e di inventare, allora il repertorio delle azioni liturgiche non potrebbe essere limitato a un riflesso diretto della scena contemporanea. Perciò la modernità autentica del rito dovrebbe esprimersi in forme che, almeno in parte, dovrebbero essere ereditate ” (Victor Turner, Simboli e momenti della comunità. Saggio di antropologia culturale, Morcelliana, Brescia 2003, pp. 8-9). Per l’importanza degli studi di Turner in vista di un approfondimento teologico della liturgia si veda: Andrea Bozzolo, SDB, Mistero, simbolo e rito in Odo Casel. L’effettività sacramentale della fede (Monumenta Studia Instrumenta Liturgica 30), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003, pp. 285-297.
(14) Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1130. La citazione di san Tommaso è tratta da Summa theologiæ, III, q. 60, a. 3. ” L’essenza della liturgia è ultimamente riassunta nella preghiera che ci hano trasmesso san Paolo (1 Cor 16,22) e la Didaché (10,6): Maran atha – nostro Signore è presente – Signore vieni! Nell’Eucaristia si compie fin d’ora la parusia, questo però indirizzandoci nella direzione del Signore che viene, precisamente insegnandoci a invocare: Vieni, Signore Gesù. Ed essa ci fa sempre ancora percepire la sua risposta sperimentandone la verità: sì, vengo presto (Ap 22,17.20) ” (Joseph Ratzinger, Théologie de la liturgie, in: Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, pp. 13-29 [29]).
(15) Emilio Betti, Teoria generale della interpretazione, Giuffrè, Milano 1990/2ª ed. [1955], vol. I, p. 305.
(16) Joseph Ratzinger, Bilan et perspectives, in: Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, pp. 173-183 [177].
(17) Joseph Ratzinger, Théologie de la liturgie, Ibid., pp.. 28-29.
(18) Cristianità, anno XXXI, n. 317 maggio-giugno 2003, pp. 5-6.
(19) Cfr. le voci Vecchiocredenti, quadro ecclesiologico e Vecchiocredenti, quadro socio-politico, in: Edward G. Farrugia, S.J. (a c. di), Dizionario enciclopedico dell’Oriente Cristiano, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000, pp. 802-804.
(20) Rimangono per es. molto istruttive le vicende della comunità di cristiani indiani noti come “cristiani di san Tommaso”, dove, a partire dal sinodo di Diamper (1599) ogni “riforma” e anche “contro-riforma” liturgica (insomma ogni sensibile cambiamento) ha prodotto scismi e incessanti resistenze. Per uno sguardo sintetico cfr.: Scientia Liturgica, cit., pp. 38-39.
(21) Stratford caldecott, Liturgie et Trinité. Vers une anthropologie de la liturgie, in: Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, p. 38.
(22) Nel 1988 ho pubblicato un libro in cui ho dimostrato questo assunto: se si situa il Novus Ordo Missae nell’ampio contesto dei documenti del magistero che lo hanno preparato accompagnato e seguito, tutte le accuse di eterodossia mosse a suo carico si scontrano con positive attestazioni del contrario (Novus Ordo Missæ e fede cattolica, Genova: Quadrivium, 1988). Il testo riprendeva sostanzialmente la mia tesi di licenza in Teologia presso la Pontificia Università Lateranense, discussa – avendo come relatore Mons. Brunero Gherardini – il 23 ottobre 1984. La sua pubblicazione è stata preceduta da diversi articoli sulla rivista genovese Renovatio (di cui il libro rappresenta la raccolta rivista e integrata) e da una sintesi in lingua tedesca: Der Novus Ordo Missæ und der katholische Glaube, Una Voce Korrespondenz 14 (6, 1984), 340-354. La reazione da parte degli ambienti tradizionalisti che hanno fatto dell’eterodossia del Novus Ordo il loro cavallo di battaglia è stata nulla. Credo di poter affermare che gli argomenti allora prodotti sono incontrovertibili. Il libro è ormai esaurito, ma lo si può leggere (ed eventualmente anche scaricare) in questo sito (qui a fianco). Una conferma mi è venuta da uno studio recente che rende di pubblico dominio parte delle memorie sulla riforma liturgica del card. Ferdinando Antonelli, perito e segretario della Commissione Conciliare della S. Liturgia (1962), membro del Consilium ad exsequendam Constitutionem de S. Liturgia (1964), segretario della Sacra Congregazione dei Riti (1965). L’importante documento viene ad affiancare, integrare e correggere Annibale Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), C.L.V. Ed. Liturgiche, Roma 1983, di cui si chiarisce la visione decisamente unilaterale. Si tratta di appunti e memorie private, quindi assolutamente “libere”. Mentre il porporato è fortemente preoccupato del clima di confusione teologica che pervade l’attuazione della riforma liturgica e trova l’Institutio generalis molto carente (verrà in effetti corretta su punti importanti), ritiene il testo del Novus Ordo Missae al di fuori di qualsiasi sospetto di ordine dottrinale. ” Ieri l’altro, 23 luglio 1968, parlando con Mons. Giovanni Benelli, Sostituto alla Segreteria di Stato, mostrai le mie preoccupazioni sulla riforma liturgica che diventa sempre più caotica e aberrante. […] In liturgia ogni parola, ogni gesto traduce un’idea che è un’idea teologica. Dato che attualmente tutta la teologia è in discussione, le teorie correnti fra i teologi avanzati cascano sulla formula e sul rito: con questa conseguenza gravissima, che mentre la discussione teologica resta al livello alto degli uomini di cultura, discesa nella formula e nel rito prende l’avvio per la sua divulgazione nel popolo. […] Quello che però è triste […] è un dato di fondo, un atteggiamento mentale, una posizione prestabilita, e cioè che molti di coloro che hanno influsso nella riforma, […], ed altri, non hanno alcun amore, alcuna venerazione per ciò che è stato tramandato. Hanno in partenza disistima contro tutto ciò che c’è attualmente. Una mentalità negativa ingiusta e dannosa. […] A sentire alcuni critici, nel nuovo Ordo Missae e soprattutto nella annessa Institutio generalis ci sarebbero perfino delle eresie: diciamo subito che errori dottrinali non ci sono, né nella Insitutio generalis né molto meno nell’Ordo Missae. L’Ordo Missae in particolare è un testo del tutto rifinito e dal punto di vista dottrinale inattaccabile. L’Institutio generalis invece, da punto di vista della redazione poteva essere più limata, più coordinata cioè nella materia e più precisa nei termini. Scendendo al particolare, l’insistenza sull’idea della cena, che sembra andare a discapito della idea di sacrificio ” (Nicola Giampietro, O.F.M.Cap., Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970 [Studia Anselmiana 121], Pontificio Ateneo S.Anselmo, Roma 1998, pp. 257-260).
(23) Card. Francis Eugene George, O.M.I., Lecture commemorating “Sacrosanctum Concilium”, in: Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei Sacramenti, Spiritus et Sponsa. Atti della Giornata commemorativa del XL della “Sacrosanctum Concilium”. Roma, 4 dicembre 2003, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 207-222 [208-209].
(24) Dario Sabbatucci, voce Rito in:Grande Dizionario Ecnciclopedico Utet, vol. XVII, UTET, Torino 1990, p. 549.
(25) Sul punto si veda: Cassian Folsom, O.S.B., Rite romain ou rites romains, in: Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, pp. 67-97.
(26) Cfr. Rapporto del Presidente della federazione internazionale di “Una Voce” Ralf Siebenbürger sull’incontro avuto col Card. Castrillón Hoyos il 13 marzo 2004, in: http://www.seattlecatholic.com/misc_20040326.html (testo in inglese).
(27) Joseph Ratzinger, Bilan et perspectives, in: Autour de la question liturgique avec le Cardinal Ratzinger. Actes des Journées liturgiques de Fontgombault 22-24 Juillet 2001, Association Petrus a Stella, Fontgombault 2001, pp. 178-179.
(28) Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1206.

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