Il pensiero del giorno

Ignazio di Loyola e Filippo Neri

di Hugo Rahner S.J.

 

Sono stati canonizzati insieme il 12 marzo 1622 eppure quando vivevano erano tanto differenti — e felicemente differenti — che si è sempre di nuovo tentati di misurare, facendo appunto il confronto di questi due uomini di Dio, lo spazio grandiosamente vasto nel quale può realizzarsi l’unico comune ideale della santità cristiana (1).

Il fondatore dell’Ordine dei Gesuiti e il fondatore dell’Oratorio di Roma: a un primo sguardo sono di nature talmente opposte e gli ideali delle loro istituzioni, o, per meglio dire, le loro realizzazioni nella storia della Chiesa sono tanto lontane fra loro che un confronto, di primo acchito, può sembrare quasi artificioso o risuscitare qualcosa di quei malumori politico-curiali che negli anni dei preparativi della canonizzazione regnavano fra la casa professa del Gesù e l’Oratorio della Vallicella (2) e che ancora fremevano, quando, nell’epoca barocca, si discuteva con serietà erudita la questione se, di fatto, Ignazio [1491-1556] avesse un giorno sollecitato Pippo Buono ad entrare nella Compagnia di Gesù, e avesse dovuto subire da lui un allegro rifiuto, o se, invece, la cosa non si fosse svolta così, che Filippo avesse pregato d’essere ammesso, e Ignazio cortesemente ma seriamente avesse detto di no (3).

E quando si sa questo, ci si può immaginare che Ignazio e Filippo, col sorriso che, sulla terra, era proprio di ambedue, guardassero giù verso quella Roma tanto poco illuminata, l’allegro Filippo ed Ignazio “il piccolo spagnolo che zoppicava un poco ed ha occhi tanto lieti” (4). Ed appunto immaginando questo incominciamo a comprendere che questi due santi, nonostante tutti i contrasti, formano gruppo fin dalla loro vita ed esistenza terrena e si rassomigliano in una comune profondità.

S’incontrarono a Roma, sicuramente, già in quel terribile inverno di fame 1538-1539, quando i compagni d’Ignazio raccoglievano gli infermi ed i poveri nella casa Frangipani e li distribuivano poi fra i vari ospedali della città. Allora Filippo conobbe Ignazio e Francisco de Xavier (5) [san Francesco Saverio (1506-1552)] e ancora parecchi anni dopo, nelle sue serate spirituali presso San Girolamo della Carità, dalle quali ebbe origine l’Oratorio, egli leggeva ad alta voce, con ardente entusiasmo, le lettere del Saverio dall’India (6). Per tutti gli anni (1537-1556) trascorsi da Ignazio a Roma, Filippo — il quale, dal 1534 al 1595, per 60 anni del suo lavoro nella cura delle anime, ha benedetto quello stesso suolo di Roma — si mantiene legato di rispettoso amore con il Magister spagnolo di Santa Maria della Strada e ha spesso professato d’aver veramente imparato da Ignazio a conoscere la preghiera interiore (7) e di aver veduto sul volto di lui uno splendore misterioso; anzi, più tardi ha giudicato che nessuna pittura potesse rendere tale splendore (8).

L’infallibile acuta percezione degli spiriti, che era in Filippo, vedeva in Ignazio ben oltre l’apparenza: e precisamente in queste profondità, che si nascondono, egli è uguale a magister Ignazio e perciò anche paragonabile a lui. Cerchiamo di afferrare, con rapido schizzo, questa uguaglianza nella diversità del loro essere umano e cristiano.

L’uomo

Filippo Neri giunge a Roma quattro anni prima d’Ignazio, certamente verso la fine del 1533. Un giovane di diciotto anni, che non aveva la stessa esperienza del peccato che l’elegante ufficiale Iñigo de Loyola, ma era spinto dalla forza della “conversione” ad un amore fiammeggiante ed esclusivo per le cose di Dio. Ciò significa, per Filippo, in primo luogo, un amore appassionato per la povertà, quell’ardito ripudio di tutte le sicurezze apparentemente prudenti della vita giornaliera, che era il compendio dell’evangelica sequela del Cristo anche per Iñigo de Loyola, da quando, nel 1522, aveva lasciato la patria e la famiglia, per tutti gli anni dello studio fino al beato eremitaggio di Vicenza. Nel suo romitorio a piazza di Sant’Eustachio, Filippo abitava nel 1537, quando Ignazio entrò in Roma. Di là fece un tentativo di studiare teologia alla “Sapienza”, forse ha assistito ad un paio di lezioni dei due compagni di Ignazio Fabro [beato Pierre Favre S.J., 1506-1546] e Laynez [Diego S.J., 1512-1565], i quali vi insegnarono, dal 1537 in poi; e poiché egli seguì anche conferenze teologiche nel convento di Sant’Agostino, può darsi che egli abbia anche udito quelle prediche quaresimali del famoso Agostino Mainardi [agostiniano, 1482-1563], dalle quali divampò la prima lotta in Roma contro i magistri parigini di Ignazio. Ma fin da ora balena la profonda differenziazione fra Filippo ed Ignazio. Per lo spagnolo, fin dal fallito pellegrinaggio a Gerusalemme, l’idea direttrice era: per aiutare le anime, occorre studiare; per anni egli siede sui banchi delle scuole e la lotta fra l’arida metafisica e l’ardore mistico è sempre decisa a favore della “ratio”. Filippo mette presto da parte i libri. Mentre Iñigo si guadagna a Parigi, nel 1535, con diligenza ferrea, il diploma di Magister, Filippo confessa: “Io non ho mai studiato molto e non ho potuto imparare molto, perché ero occupato alla orazione e ad altri esercizi spirituali” (9).

Tutto lo spingeva colà, dove anche Ignazio era spinto con violenza (ma Filippo si abbandona con impeto mistico a quella urgenza, alla quale Ignazio cede temporaneamente, sempre sotto fortissimo controllo di se stesso): all’amore di Dio e alla preghiera solitaria. Talvolta Ignazio, durante gli studi a Parigi, cerca un compenso, nella mistica solitudine della cava di gesso a Montmartre (10) o nell’austero salmodiare dei Certosini. Contemporaneamente Filippo è attratto nelle semidirute grotte delle Catacombe in mezzo alla dolce solitudine della campagna romana o ai vespri solenni delle chiese stazionali. Poi esce dalla oscurità della propria preghiera nella luce delle vie di Roma, precisamente come Ignazio entra nelle stesse strade dell’Urbe, dopo la mistica illuminazione ricevuta alla Storta, a placidamente e sobriamente tastare il terreno per la ponderata e prudente riforma della Chiesa.

Presso Filippo, tutto è geniale improvvisazione, egli interroga soltanto il suo cuore amante, egli girella e passa davanti alle botteghe e si fa santo vagabondo di Dio, cerca di conquistare i giovani mercanti fiorentini e i ragazzi di strada romani “con tanto bel modo” (11) che nessuno può resistergli.

Quanto il cielo dalla terra egli è lontanissimo da quella serietà circospetta, quasi direi un po’ pedantesca, colla quale, nella primavera del 1539, i “magisteri” parigini, si riuniscono di notte per discutere come congregarsi in comunità religiosa, per organizzare l’opera di assistenza spirituale a Roma ed in tutto il mondo.

In fondo hanno la stessa mira lo spagnolo solennemente serio e l’allegro Pippo: far di nuovo Roma una città santa, nella quale, dal tempo del Sacco [1527], si agita tanto di nuovo e di buono e che pure, secondo il giudizio spassionato di Ignazio, “è un suolo sterile e arido, sul quale lussureggiano i frutti cattivi” (12) e del quale, ancora, dopo sedici anni di duro lavoro, scriverà, una volta: “Noi raccogliamo qui qualche frutto per quanto Roma sia quella che è” (13). Ma nella maniera nella quale essi iniziano e proseguono quest’opera di riforma, i due apostoli di Roma sono differenti fra loro quanto è possibile immaginare. Ignazio dà gli esercizi spirituali ad umanisti e cardinali, i suoi dotti confratelli insegnano alla Sapienza, le loro prediche si distribuiscono accuratamente per le più frequentate chiese della città (14). Filippo, invece, il quale non è ancora prete (soltanto nel 1551 si lascia ordinare) rimane sulla strada e fin da ora la sua cura d’anime è caratterizzata da quella inimitabile “familiarità e domestichezza” (15) che gli conquistava i cuori di tutti, sino a quelli dei papi e dei cardinali. La vita d’Ignazio fino allora era una rinuncia progressiva a quanto di singolarità ascetiche gli era peculiare dal tempo della conversione e dai giorni di Manresa, e lunga fu la strada dal suo vestito da pellegrino di tela di sacco, fino alla “devozione al vestito ordinario” (16), che negli anni maturi egli definì come caratteristica della vera spiritualizzazione. Una ben lunga strada anche dalle sue proprie sante follie fino al primo progetto dello statuto dell’Ordine, nel quale i compagni della casa dei Frangipani con sorprendente arditezza diedero l’addio a tutto quanto fino allora si era considerato come caratteristica dell’ascesi, “al digiuno, alle discipline, alla nudità del corpo e dei piedi, alle vesti di colore” (17), tanto arditi, che i cardinali ordinarono di omettere quelle proposizioni nella Bolla di fondazione dell’Ordine. Con ragione il biografo di Filippo dice: “Ciò nonostante egli [Ignazio] fonda l’avvenire sulla totale rinunzia agli aspetti eccentrici della vita mistica e sulla subordinazione rigorosa delle persone al fine” (18).

Ed ora comprendiamo meglio perché, in quegli anni, l’incontro di Ignazio con Filippo non potesse portare ad altra conclusione, che ognuno dei due riconoscesse più precisamente e più nettamente la propria peculiarità e la propria vocazione. Filippo era onestamente impressionato dalla nuova fondazione religiosa del Magister spagnolo e, secondo una tradizione a dir vero non controllabile più esattamente, gli condusse anche un paio dei propri giovani seguaci (19).

Egli stesso però (e questa è certamente l’interpretazione esatta dei dati documentari) poteva soltanto rispondere con un allegro no al delicato invito di Ignazio di aggregarsi alla nuova comunità. Se, più tardi, Muzio Vitelleschi [1563-1645], generale dei Gesuiti, si appellò alla dichiarazione di Filippo, che egli avesse voluto entrare nella Compagnia di Gesù, ma Ignazio gli avesse rifiutato l’ammissione, tale detto di Pippo Buono deve essere stato uno di quegli scherzi coi quali egli copriva gli abissi della propria umiltà derivanti da quel modo graziosamente scherzevole, secondo una citazione che fa Pietro Tacchi Venturi (20). Ed Ignazio è pari a Filippo in questo sublime umorismo: da questo incontro che li separa ed al tempo stesso li unisce deriva quel detto scherzoso che Filippo è una campana sul campanile, che chiama col suo suono ad entrare nella chiesa, ma non vi entra essa stessa (21). No, questo Pippo non era fatto, né chiamato per divenire un figlio d’Ignazio, e la ragione fondamentale di ciò era semplicemente nella sua natura libera, nel suo umore, nel senso più profondo di questo antico termine, nel suo cuore, che non si lasciava mai acchiappare.

Ma noi non possiamo fermarci a questo punto, nel quale le vie apostoliche dei due uomini della riforma romana si separano. Esistono, nell’interiorità di questi santi, regioni beatamente vaste, nelle quali essi erano insieme, come amici, e profondità, nelle quali essi sono sorprendentemente simili, ma appunto sempre con la differenza che Ignazio non lasciava mai prorompere i tratti “filippini” del proprio naturale, mentre il cuore di Filippo, quasi torrente senza freni, aveva il permesso di battere e di giubilare e piangere con felice noncuranza, per poi realizzare in tutto precisamente quanto Ignazio perseguiva con la severa contentezza e col regolamento del proprio cuore: amare tutto in Dio ed in tutto Dio soltanto.

Proprio nel confronto di Ignazio con la natura molto meno complicata di Filippo riusciremo ad afferrare il più profondo della sua natura, che solitamente si nasconde ombrosamente. I contrasti sono quasi inconciliabili, già quando osserviamo quei due uomini nelle loro relazioni con gli uomini. Ignazio è taciturno, nemico d’ogni fumo e delle chiacchiere, sempre padrone di se stesso e sempre un po’ rigido e riconosce egli stesso (mostrando proprio con questo il grande distacco fra il suo sentire interno e il contegno esterno): “Chi misurasse lo amor mio da quello che io manifesto esteriormente, s’ingannerebbe di molto” (22). Filippo ama parlare, è gioviale, amabilmente burlone, bonariamente brusco, perspicace, spiritoso. Può capitare che dia un pugno ad un suo penitente, che dia uno schiaffo ad uno dei suoi ragazzi, con la gioviale osservazione: “Questo non era per te, ma per il diavolo in te” (23). Nessuno può resistere alla sua amabilità, quest’uomo delizioso lo si può pensare soltanto sempre “devotamente allegro” (24), per servirci d’una espressione di Goethe [Johann Wolfgang (1749-1832)].

L’inimitabile eleganza della sua natura, che pure conserva sempre l’autentico carattere popolare fiorentino, è il segreto della sua cura d’anime. Ma è stato proprio Pippo Buono che ha visto sulla faccia d’Ignazio un riflesso d’una altrettanto inimitabile gioia ed ha, perciò, per la congenialità del cuore, scorto nello spagnolo qualcosa, che sentiva vivo in sé. Ed, in effetti, se interroghiamo gli altri uomini che convivevano con Ignazio, apprendiamo forse — per esempio dal diario portoghese, che il padre Luigi Gonçalvez da Câmara S.J. [1520 ca.-1575] teneva negli ultimi anni della vita d’Ignazio — che il generale dell’Ordine, altre volte guardato con timida venerazione, “inchinava talmente verso l’amore, che egli era l’amore personificato e perciò era tanto amato da tutti quanti nell’Ordine, che ognuno per così dire si sentiva particolarmente amato da lui” (25). E quando qualcuno veniva a fargli visita, Ignazio gli dimostrava una gioia così ilare, che pareva volesse accoglierlo “nel mezzo dell’anima propria” (26). Precisamente quello che sentivano i giovani, che convenivano nella piccola cella di Pippo a San Girolamo e che egli rendeva felici con i primi suoni della poi tanto famosa musica dell’Oratorio.

Proprio quella musica, che Filippo, con l’istinto d’una musicalità, diciamo, celeste, poneva a servizio della cura delle anime, e che, al primo sguardo, lo fa apparire immensamente lontano da Ignazio e dal suo ideale per l’Ordine, proprio la musica ravvicina queste due anime nel loro profondo (27). Ignazio, il quale, fin dalla prima redazione della legislazione del proprio Ordine nel 1539, ha rinunciato del tutto ad ogni culto della musica liturgica, per quanto egli conosca esattamente l’importanza pastorale ed ascetica della musica (organa aut musicos canendi ritus … quae ad excitandas et flectendas pro ratione hymnorum ac mysteriorum animas fuerant inventa [gli strumenti o le modalità musicali del canto […] che furono inventati sono stati inventati per commuovere ed elevare le anime per mezzo degl’inni e dei misteri] [28]), è, nel profondo dell’anima, della stessa mistica musicalità di Filippo. Potrebbe essere un detto di Pippo questo che Ignazio annota un giorno nel proprio mistico diario: “Alla Messa, molte lagrime. E tutto ciò con un senso così profondo delle parole udite interiormente, che era come una somiglianza o un ricordo di parole o di musiche celesti” (29). Spesso va nella chiesetta di San Giuseppe della Pigna, per origliare il canto del vespro (30). Nel tempo pasquale, l’austriaco Peter Schörner deve cantargli qualcuno dei canti dell’alleluia della sua patria (31). E Luís Gonçalvez [de Câmara S.J. (m. 1575)] annota nel proprio diario: “Quello che più lo stimolava all’elevazione nella preghiera era la musica, il canto di argomento sacro, come vespri, Messe cantate e simili. Tanto che una volta mi confessò che, quando entrava in una chiesa, in cui si stesse cantando l’ufficio divino, egli, immediatamente, si sentiva tutto rapito fuori di sé (se trasportava totalmente de sy mesmo). E che questo giovava non solo all’anima sua, egli dice, ma gli serviva anche per guarire corporalmente. Così succedeva che, quando era malato e quando si sentiva scontento (estava com grande fastio) nulla lo consolasse come una pia canzoncina, che un confratello gli cantasse. Qualche rara volta, quando stava scontento nella propria stanza, andava a trovarlo il p. [André ] de Freux [m. 1556] e suonava per lui il suo clavicordo, oppure un molto semplice e virtuoso fratello laico, il quale sapeva molti pii canti, gli cantava una canzone” (32). In questa sfera di una umanità sublime rientra, nei due santi, anche il loro legame con la natura, nella quale essi trovano il divino. Alle stesse stelle scintillanti nel cielo di Roma guardano Ignazio dal balconcino della propria camera e Filippo dalla loggia fatta fabbricare espressamente alla Vallicella (33). Parrebbe scritto da questo Ignazio ebbro di stelle, quanto Filippo ha poetato nel solo sonetto di lui che ci sia pervenuto: “Qual prigion la ritien ch’indi partire non possa e alfin coi pie’ calcar le stelle e viver sempr’in Dio e a sé morire?” (34). E così concordi, questi due esseri perduti in Dio amano la variopinta vita quotidiana della strada di Roma e degli uomini peccatori, perché anche qui trovano la solitudine del celeste, Filippo nel ridere dei suoi ragazzi chiassosi, Ignazio quando nel trambusto delle vie vede andare tre persone in compagnia e sente immediatamente infiammarsi il cuore d’amore per la Santissima Trinità (35). Oggi giorno non si può andare per le strade della vecchia Roma senza pensare a tutti e due: a Pippo, che, ogni giorno andava di fretta dalla Vallicella a San Girolamo, con la frotta dei suoi allegri ragazzi appresso; ad Ignazio, che dava lezioni di catechismo ai ragazzi nella strada alla Zecca, a Campo de’ Fiori, presso la Rotonda. Deliziosi sono i ricordi dei vecchi, che nel processo per la beatificazione d’Ignazio rievocano ancora quei giorni.

Essi ci mostrano un Ignazio veramente “filippino”, uno sa dirci che don Ignazio gli ha tirato scherzosamente l’orecchio; un altro che “mi faceva carezze come a putti”, un terzo che egli non si scompose neppure quando i ragazzacci di strada gli tirarono appresso delle mele (36). Era quello stesso Ignazio che seppe rasserenare un uomo inconsolabile mediante un’allegra danza basca (37); era quello stesso Filippo il quale, persino davanti ai cardinali, aveva ballato una danza veramente ridicola e aveva intimato ad un fratello laico, che lo serviva, di deliziare ospiti di riguardo con un ballo contadinesco (38).

Perché erano veri santi ambedue, ambedue erano anche veri uomini. Ed ambedue erano perciò ripieni di quella serena ilarità celeste, che è il segno dell’autentica serietà cristiana. Presso Filippo era umorismo fiorentino, brioso, alle volte rabbioso o capriccioso. Presso Ignazio era silenziosa superiorità, che, all’inizio della conversione a Dio, spesso erompeva quasi da una sorta di disprezzo per gli uomini da parte di chi bene li conosceva. In ogni caso è una delle comunicazioni più caratteristiche fatteci da Pedro de Ribadeneira [S.J., (1527-1611)]: “Il Padre, all’inizio della conversione a Dio, si sentiva spesso tentato di scoppiare in una risata alla vista di certe persone. A colpi di flagello scacciò da sé questo suo ridere e precisamente con tanti colpi per quante volte aveva anche solo appena sorriso di altri” (39). Della stessa inclinazione ci informa ancora per l’anno 1555 il diario di Luis Gonçalvez ed insieme, come Ignazio avesse, per così dire, asceticamente tramutato quel sorridere degli altri in un sorriso di compiacenza per le virtù o per i doni che arricchivano la persona che lo aveva provocato al riso (40). Lo si vede: l’ilarità di Ignazio era diversa da quella di Pippo. Per così dire è più acquisita, più cosciente, più atrabiliare. Ma essa è un tratto essenziale d’Ignazio maturo, è quella “allegria e facilidade religiosa, gravidade e prudencia” (41), che, secondo la testimonianza del portoghese p. Gonçalvez, Ignazio desiderava vedere nei propri figli. E così avveniva che nessuno più d’Ignazio si rallegrasse di uno scherzo azzeccato o d’una situazione comica: tali avvenimenti erano sempre per lui “una grande festa” (42).

Il mistico

Fraintenderemmo i due santi, se volessimo paragonarli solo nella loro amabile umanità. Ambedue sono dei mistici e l’irruzione prepotente del divino nei limiti del loro umano supera ogni misura. Lì accadono, nella loro vita, cose che noi non “comprendiamo” più. E nella parte dell’anima dove il divino incontra, per così dire, la membrana divenuta sottile come il fiato di una umanità trasfigurata, i fenomeni puramente spirituali e i fenomeni parapsicologici diventano tanto simili da scambiarli fra loro e si possono distinguere soltanto per una “discrezione degli spiriti”, della quale, in ultima analisi, dispone soltanto il mistico stesso. Di qui il fatto sorprendente che tanto Filippo quanto Ignazio, ai quali toccarono i più alti doni mistici, sono pieni d’una spesso addirittura tagliente diffidenza contro questi fatti, nella persona propria ed in quelle degli altri. L’illusione è la regola, il dono soprannaturale è l’eccezione: questa è la sentenza conclusiva di Filippo (43). Egli lo ha sperimentato nel caso della mistica ingannata Orsola Benincasa [1547-1618] (44) così come Ignazio lo ha sperimentato nella donna stigmatizzata di Bologna o nella spagnola Magdalena de la Cruz [1487-1560] (45). Le massime di direzione spirituale, che i due santi hanno pronunciato soprattutto per la guida di pie donne, sono all’unisono perfetto (46).

Ambedue avevano un fiuto straordinariamente fine del divino e del diabolico nei confini delle profondità delle anime. Tanto più sorprendente è stabilire nei due santi la consonanza ed insieme anche la diversità delle loro esperienze mistiche: la differenzialità delle loro reazioni deriva appunto dalla differenza del loro naturale umano, e con ciò, della loro vocazione, nel campo immensamente grande della rappresentabilità dell’esistenza cristiana. Tentiamo di accennare un paio di questi fenomeni mistici.

Filippo Neri è un mistico dell’età moderna, nel quale rivive tutto quanto si è abituati a leggere soltanto alle volte dei Padri del deserto, i quali cercavano il proprio ideale nella “pazzia per amore di Cristo” (47). Egli è una figura mistica ascetica di somma perfezione, in veste di arlecchino per amor di Dio (48). Fin dai primi giorni della sua grazia mistica egli è quasi come scaraventato fuori da tutti i binari di quanto è puramente umano: il divino, l’amore, il fuoco interiore, la perdutezza nell’eterno che brucia il cuore, sembra esigano da lui che tutto quanto è umano sia rovesciato, per così dire, che si rida cordialmente in faccia a tutto quanto è puramente ragionevole, e che proprio in quella pazzia si profili la dimostrazione visibile che il divino è sempre del tutto diverso dall’apparentemente normale. Questi che si camuffa da arlecchino sulle vie di Roma è, invece, un uomo profondamente serio. Egli di passare per matto si fa una vera gioia, egli si permette stravaganze che si perdonano solo a Pippo, usa parole che atterriscono persino il santo cardinale Borromeo [Carlo, 1538-1584], foggia “sottites” [stupidaggini], che suonano come pazzie, ma che invece devono solo coprire la timidezza da mimosa del suo amor di Dio. Stordisce in sacrestia il dolce terrore del mistero della Messa coll’allegro chiacchierare e col giocare con uccelli e cagnolini. Se i visitatori vengono a lui nella piccola stanza alla Vallicella, per ascoltare dalla bocca dell’uomo di Dio qualche cosa di elevato, egli è capace di celarsi dietro una mordacità quasi villana e di dire: “Voi, certo, vorreste che io prendessi una posa e sputassi parole edificanti?” (49). Ed il suo addirittura trepido amore di Dio, la sua fiducia e la sua abissale chiaroveggenza dei misteri della grazia egli esprime con un paradosso apparentemente capriccioso che, ad approfondirlo, dà invece i brividi: “Quando guarirò”, disse un giorno durante una malattia, “allora voglio fare il voto di offendere sempre Iddio, perché io dalla sua bontà, mi aspetto che egli mi darà la grazia di non offenderlo mai” (50). “Io diffido Iddio dall’aspettarsi di compiere qualcosa di buono per mezzo di me”, ciò vale a dire: “io dispero di me stesso, ma confido in Dio, mi affido a Dio” (51). Veramente, questo pazzo è perduto in Dio, egli vive quanto ha cantato nel suo sonetto: egli calca con i piedi tutte le stelle della ragionevolezza, perché egli è già morto e vive soltanto più in Dio, perciò, per così dire, è sparito per lui il senso della distanza della Maestà divina. La sua orazione è un incessante “sforzare Iddio” (52) ed egli può dire a Gesù: “Signore, la ferita del tuo costato è grande, ma se tu non mi dai manforte la farò più grande”. Spernere se sperni [non far conto d’essere disprezzato], questa ultima stoltezza, follia dell’uomo irremissibilmente perduto in Dio non è stata vissuta da nessuno come da questo Pippo Buono, il quale, col suo riso matto, copre il tremendo mistero esplosivo (53).

Si ponga ora, accanto a questo arlecchino di Dio, l’Ignazio degli anni romani, che se ne va per le strade silenzioso e distinto, avverso nel più profondo del suo cuore a tutto quanto è chiassoso e dà nell’occhio. Anch’egli ha commesso le sue pazzie per amor di Dio, da pellegrino e da pazzo bastonato, una volta, nell’Italia settentrionale fra la soldatesca spagnola e sotto i randelli dei frequentatori mondani dei parlatori di monache a Barcellona fra i quali cercava di mettere disciplina. Tutto ciò è superato da un pezzo. Eppure fraintenderemmo la sua nobile umanità del tempo romano se non penetrassimo nelle profondità della sua anima ricca di grazie mistiche. Certo, Ignazio l’ha compreso e l’ha afferrato con tutta l’acutezza della sua discrezione degli spiriti che si può afferrare e venerare la maestà di Dio uno e trino, anche — e forse persino più giustamente — con una vita ordinaria, col ritorno a quanto è giornaliero, nella “devozione del vestito non appariscente” (54). E questo per amor del servizio delle anime, per conquistare il mondo, che appartiene al Cristo, nella mistica della letizia del mondo (55). Ma, al fondo del più intimo dell’anima sua, è rimasto vivo, tale e quale, il “tutt’altro”, pronto, in ogni momento, a sgorgare come lava dal ricettacolo artificiato della sua “quotidianità” assunta solo per amore della cura delle anime. E in ciò afferriamo un tratto “filippino” di Ignazio. Uno che lo conosceva bene, Diego Laynez, ce lo testimonia, nel primo saggio di una biografia di Ignazio, fin dall’anno 1547: “Ignazio, in realtà, è un dispregiatore del Mondo. Egli mi ha detto che, se dipendesse dalla sua inclinazione personale, non farebbe nessun caso d’esser tenuto per matto, girando, a piedi nudi, scalzo, mettendo in mostra la sua gamba storpiata o portando appese al collo delle corna. Ma, per amore delle anime, non ha reso noto nulla di questo” (56).

Qui Ignazio assomiglia a Filippo. La stessa cosa ci testimonia Pedro de Ribadeneira: “Egli diceva d’esser pronto, se ne andasse la salvezza delle anime, ad andare sempre scalzo e munito di corna, non si vergognerebbe, per l’utile degli uomini, di portare qualsiasi vestito ridicolo o spregevole, ed egli lo ha dimostrato, quando se ne è presentata l’occasione” (57).

A Roma, Ignazio ha, sempre, respinto questa “tentazione”, tutto rimase nascosto sotto il velo del non vistoso, non appariscente. La discrezione lo tiene, per così dire, sempre sospeso nell’abisso, nel quale, egli, ricco di grazie mistiche, vorrebbe precipitarsi, per annientarsi nel proprio nulla. Allorché Simón Rodríguez [de Azevedo S.J. (1510-1579)], il quale era meno versato in tale discrezione, scrisse ad Ignazio dal Portogallo delle “sante pazzie”, alle quali i suoi sottoposti si davano con entusiasmo, e che il vero gesuita deve essere un uomo divenuto pazzo per Cristo (loco por Cristo) (58), Ignazio rispose con molta comprensione per simili “sante pazzie”, ma aggiunse che tutto si doveva “ricondurre alla mediocrità della discrezione” e questa saggia illuminazione si può comprendere soltanto col suo amore segreto per la follia della Croce. Questo è l’autentico Ignazio, il quale silenzioso, non appariscentemente va ad una morte “quale la muoiono tutti” (59), ma del quale il p. Ribadeneira attesta che il suo desiderio era d’esser sotterrato, dopo la morte, in qualche luogo, in un letamaio, poiché egli stesso non era mai stato altro che spazzatura e letame (60). Di questo Ignazio leggiamo, nel rotulus del processo di canonizzazione, queste parole che si attagliano esattamente a Filippo: “Cupiebat omnibus ludibrio esse [Desiderava essere ridicolo per tutti] (61). No, l’uomo di Loyola non è mai stato un amabile umanista e noi non avremmo compreso le sue profondità se volessimo esaltarlo soltanto come l’uomo saggio, proprio come un giorno Goethe ha frainteso in modo abissale il suo Filippo Neri, quando lo ha detto “il santo umoristico” e quando lodò la massima di lui spernere se sperni, quale il principio “degli uomini superiori internamente più superbi e orgogliosi”. Questa invasione dell’uomo mistico in Filippo come in Ignazio ha spezzato il vaso umano dell’equilibrio dell’anima, non solo, ma anche della salute corporale. Ma in Filippo, per così dire, esso rimase in pezzi fino alla fine della sua vita, e le costole del suo lato sinistro ne sono un simbolo fatto corpo (62). In Ignazio, invece, dopo gli anni del vivisezionamento mistico prende una forma di placidezza tranquilla e spiritualizzata, che sa subordinare anche il fiume di lacrime dell’orazione estatica alla “ragione” ed all’ordine dei medici.

In quello stesso anno 1544, nel quale Ignazio annota, giorno per giorno, nel diario mistico, le lagrime e gli ardori delle sue grazie d’orazione, Filippo è colto da quell’”invasamento soprannaturale” che gli brucia il cuore e del quale egli non “guarisce” mai più. Da allora in poi esso fa parte della sua vita di ogni giorno: il tremore davanti al divino, il singhiozzare davanti a Dio, il dolce pianto, la rete d’amore che lo tiene avvinto (63). Quando — prete dal 1551 — egli celebra la Messa, spesso diventa mortalmente pallido; per intima commozione morde coi denti l’orlo del calice, quando il Sangue veramente Sangue fumante del Signore lo inebria. Esausto, stramazza nella sacrestia; più tardi, in una cappelletta, impiega ore ed ore nella celebrazione della Messa; fino alla morte, quando i rottami della sua natura non stanno più insieme.

Le stesse cose accadono nell’Ignazio del 1544: qui, di nuovo, egli è interamente “filippino”. Proprio come Filippo, durante la celebrazione dei sacri misteri, egli è d’una sensibilità dolorosamente vigile, addirittura nervosa, al rumore e ad ogni disturbo dall’esterno ed, una volta, pensa seriamente ad affittare una camera in un’altra casa “per sfuggire al rumore” (64), così come ancora il vecchissimo Filippo si riserba, all’ultimo piano della casa presso la Vallicella, una stanza per celebrare, difesa contro tutti e contro tutto (65). Nessuna parola torna più spesso, nel diario di Ignazio, che “sollozo” (singhiozzo), “calor intenso”, che si comunica anche al corpo, “ardor en todo el cuerpo”, i capelli gli si rizzano, il petto gli si stringe, il sangue entra in sensibile agitazione. Spesso, esausto, cade in ginocchio e non riesce più a rialzarsi. Non può più parlare per i singhiozzi e per la “dulçura interior” (la dolcezza interna) (66). Ma precisamente come, nella sua discrezione degli spiriti, egli aveva rinunciato alla follia, alla stoltezza, alla pazzia per Cristo, senza, con questo, rinunciare all’ardente desiderio di essa, così anche qui: in mezzo alle ricorrenti effusioni mistiche, sta scritto: “A causa dei dolori atroci, che io sentivo ad un occhio, in conseguenza del piangere, mi venne il pensiero: se io continuassi a celebrare la Messa, potrei perdere quest’occhio, mentre è pur meglio conservarlo” (67). Con questa parola del “meglio”, si insinua qui, con ferma forza, nel fatto mistico, la discrezione e la ragionevolezza e proprio questo è caratteristico per Ignazio e per lo sviluppo della sua mistica come poco altro; qui si inserisce quella spiritualizzazione, che lo distingue da Filippo e della quale, negli ultimi anni della vita, confessò al suo confidente, il p. Polanco [Juan de, S.J. (1517-1576)]: “Un tempo mi consideravo sconsolato se non riuscivo a piangere tre volte durante una santa Messa. Ma il medico mi ha proibito di piangere e io lo accettai come un comando dell’obbedienza. Da allora, senza lacrime, sento molto maggior consolazione” (68).

Certo, anche presso Ignazio fino al termine della vita sussiste la soggezione a gravi disturbi fisici nell’incontro con i divini misteri. Il p. Nadal [Jeronimo S.J. (1507-1580)] depone: “Egli aveva sempre ardente desiderio di celebrare la Messa e vi provava tanta consolazione, e per vero così straordinaria, che quando gli sopravveniva, subito ricominciava a soffrire del suo male di stomaco. Stette ammalato per quindici giorni, dopo che, a domanda della figlia di don Juan de Vega [viceré di Sicilia, m. 1558], ebbe celebrato tre Messe” (69). Ma anche qui Ignazio lascia intervenire sempre più vigorosamente la “ragione”; preferisce tralasciare la celebrazione della Messa per sfuggire alla scossa psichico-fisica “vehemens commotio” (70) ed è in verità un detto “non filippino”, quanto è annotato in un ricordo del p. Codretti [Annibale (1525-1599)]: “Ignazio, più tardi, celebrava soltanto più nelle domeniche e nelle feste, ob metum visionum (71). Ma, alla fine della vita, Ignazio è pieno di dolce spiritualizzazione, tutte le visioni, le lagrime e gli ardori d’un tempo sono lasciati dietro di sé, soltanto l’amore ardente e la contemplazione dello Spirito Santo. “Versatur in pure intellectualibus” dice di lui il p. Nadal (72). Ed il p. Ribadeneira attesta che Ignazio, già trasfigurato nell’attesa della morte, negli ultimi anni a Roma: “Egli sentiva di progredire sempre più e che il suo fuoco interno diveniva più ardente. E perciò non esitava, quando trascorreva a Roma gli ultimi anni della vita, di chiamare ora propria scuola primaria e proprio noviziato il tempo di Manresa, che in altri tempi, per l’illuminazione meravigliosa aveva detto la propria Chiesa primitiva” (73). Ciò nondimeno, questa differenziazione dell’evoluzione mistica presso Ignazio e presso Filippo non è l’ultima cosa che noi possiamo dire a questo proposito. Tutto è giunto alla quiete, nel fondo mistico dell’anima, toccata una volta da Dio ed inguaribilmente ferita, per quanto il corpo possa ancora subire o meno le passioni; l’anima sta in misteriosa immediatezza davanti a Dio, percepisce i suoi immediati influssi (Ignazio ne ha parlato nelle regole, di difficile interpretazione, per la discrezione degli spiriti, nella seconda settimana degli esercizi spirituali) (74), ed è perciò sempre desta prontezza a prorompere nell’orazione ed a trovare Iddio in ogni cosa. Il cardinale Tarugi [venerabile Francesco Maria C.O. (1525-1608)], uno dei maggiori discepoli di Filippo, disse una volta del proprio maestro: “Haveva l’oratione pronta: che, più tosto, era provocato dal spirito che bisognasse, con la meditazione, eccitare la fiamma” (75). In ciò stava anche uno dei segreti del successo della direzione spirituale nell’Oratorio: tutti sentivano che qui parlava uno che era pieno, saturo, di orazione e che ad ogni parola di Dio dava un nuovo timbro.

Esattamente la stessa cosa attestano i discepoli d’Ignazio. Quando, una volta, uno di essi gli disse che egli nell’orazione mattutina si ricollegava sempre a quello che aveva riconosciuto nel giorno precedente, Ignazio gli rispose: “Ma io trovo l’orazione in tutto e dovunque voglio” (76). Spesso, lo sollevava a Dio, nel bel mezzo d’una conversazione e, una volta, balbettò quasi fosse ebbro: “Or ora, per un istante, sono stato più in alto del cielo” (77), per poi ricoprire questa confessione con taciturna timidezza. Il p. Nadal, che, meglio di ogni altro, conosceva i segreti mistici del p. Ignazio, scrisse più tardi di lui: “Trovava lo slancio da qualunque cosa, come per esempio, nel giardino, dalla vista d’una foglia d’arancio (ero presente io stesso), dalla quale fu stimolato a profonde considerazioni ed elevazioni sulla Santissima Trinità” (78). Questa mistica presenza, questo, per così dire, ininterrotto potere di disporre del divino era comune ad Ignazio ed a Filippo, e il santo fondatore dell’Oratorio, di questa meravigliosa scuola di preghiera, avrebbe potuto esattamente affermare quanto Ignazio disse, una volta, di se stesso: “Mi pare, che io non potrei assolutamente più vivere, se io non percepissi nell’anima una qualunque cosa che non ha origine in me stesso e che non è puramente umana, ma, anzi, viene soltanto da Dio” (79).

Quando Filippo vedeva sul volto d’Ignazio il riflesso di questa unione con Dio, “la bellezza interna dell’anima sua” (80), egli sospettava quanto i confratelli, nei due anni precedenti la morte del p. Ignazio, percepivano in lui con timido amore. “Egli aveva la grazia di percepire la presenza di Dio in ogni cosa, in ogni azione, in ogni conversazione, con fine senso per lo spirituale. Sì, egli guardava quella presenza e perciò divenne contemplativus in actione. Egli usava tradurre ciò nel motto: Dobbiamo trovare Iddio in ogni cosa. Con profonda meraviglia e con dolce consolazione del cuore noi vedevamo che questa grazia, questa luce, che era nell’anima sua, era sparsa sul suo volto come un bagliore e si manifestava nella prudenza e nella sicurezza in tutte le sue azioni” (81).

I fondatori d’ordini

Ma questi due uomini, questi due mistici furono anche fondatori d’Ordini ed ambedue impressero alle loro fondazioni, indelebilmente, qualcosa della loro personalità. La loro somiglianza e la loro diversità continuano anche nella Compagnia di Gesù e nella Congregazione dell’Oratorio. Già la storia dell’origine delle due comunità è quasi riflesso della storia del cuore di Iñigo e di Filippo.

In primo luogo, la storia degli inizi della Compagnia di Gesù. I compagni che Iñigo a Parigi ha conquistati, sono, fin dal principio, dediti al loro maestro con una unione del tutto personale: simili, in questo, ai compagni che, più tardi, Filippo riunisce intorno a sé e lega a sé col fascino del suo cuore. I “magistri” parigini vogliono, appunto, solo seguire “il modo di vivere di Iñigo” (82), che egli ha loro posto innanzi negli Esercizi Spirituali. Ma, fin dall’inizio, c’è qui anche un vigore nell’operare, che distacca nettamente gli inizi della Compagnia di Gesù e quelli della Congregazione dell’Oratorio: Iñigo non è soltanto il cuore, ma — al contrario di Filippo — anche la volontà della nuova comunità. Iñigo è l’uomo davanti agli occhi del quale, già negli Esercizi Spirituali, sta sempre la parola “regola di vita”, un uomo della netta ordinatezza, della “pianificazione”, dell’infallibile istinto per la gerarchia, per la subordinazione, per la potestà di comando. Ciò diviene evidente da quando i compagni, nel 1539, si ritrovano a Roma per discutere il problema che alcuni decenni più tardi venne in discussione anche nella comunità degli Oratoriani: dobbiamo rimanere un libero gruppo di preti secolari, dediti all’apostolato, o dobbiamo riunirci in una famiglia regolare? Questa “deliberatio primorum Patrum” porta ancora per così dire tratti “filippini” in molte parti. Nella espressamente rilevata “pluralitas sententiarum” (83), con la quale incominciano le vivaci discussioni, pulsa ancora il principio democratico, per così dire, della libera comunità dei fratelli di Parigi e di Vicenza. Ma poiché tutti sono d’accordo, in forza degli ideali tratti dagli Esercizi Spirituali, di mettere a disposizione le loro vite, in sacrificio totale per il Cristo, per il suo Vicario in terra, immediatamente, dall’amorfo movimento degli spiriti, si cristallizza la risoluzione guidata da Iñigo: costituirsi in famiglia regolare, sotto l’obbedienza ad un superiore elettivo (84). Fra i motivi, che, in primo luogo, sembravano opporsi e che furono discussi minuziosamente, troviamo considerazioni che più tardi ritorneranno nelle discussioni dell’Oratorio alla Vallicella: la leggera diffidenza nella Chiesa di fronte a nuove fondazioni di Ordini e, soprattutto, il desiderio di conservare la massima libertà possibile nella cura delle anime che, per i figli di Iñigo, consisteva allora quasi esclusivamente nel catechismo ai ragazzi e nel servizio negli ospedali: precisamente quanto, anche per Filippo, fu sempre l’essenziale. Nel circolo di Iñigo la decisione cadde a favore dell’obbedienza e la motivazione più profonda a suo favore è di nuovo addirittura filippina: “A favore dell’obbedienza, disse uno di noi: l’obbedienza produce gesta eroiche e sentimenti duraturi. Perché chi vive veramente sotto l’obbedienza, è pienamente pronto ad eseguire tutto quanto gli venga comandato, anche se fossero cose molto ardue, che suscitano beffe, risa e meraviglia presso i mondani, come, per esempio, se mi fosse ordinato di girare, per quartieri e per vie, nudo o vestito di abiti che diano nell’occhio. Anche se, in pratica, una cosa simile non fosse mai comandata, ognuno dovrebbe esser pronto a farlo, in quanto mortifica il proprio giudizio e la propria volontà” (85). Da questo comprendiamo come (lo abbiamo già notato), ancora anni dopo, Simon Rodriguez potesse designare simili pazzie ascetiche “fondamenti del nostro Ordine”. Ignazio lo richiamò allora alla “mediocrità della discrezione”. Ma che, nel 1539, gli sia piaciuta l’esemplificazione della sua idea fondamentale dell’obbedienza quale ordinamento di vita, come la presentò uno dei suoi compagni, non c’è il minimo dubbio, se ricordiamo quanto egli stesso ha confessato di sé e del suo ardente desiderio di commettere pazzie per Iddio. Tanto più sorprendente — anche in considerazione delle primitive discussioni sulla fondazione dell’Ordine — la discrezione, con la quale egli prende il fatto che, nella redazione della vera e propria bolla di fondazione del 27 settembre 1540, si sopprimono le proposizioni “antiascetiche”, che egli aveva accolte nella prima minuta dell’agosto 1539, per porre un argine, fin dal principio, in forza dell’obbedienza, colla discrezione dell’”ordinario”, alla brama di quegli eroismi della “pazzia per il Cristo”. Il suo Ordine vive, da allora in poi, di questo interno equilibrio delle forze fra la croce ed il vivere giornaliero, fra la follia e la discrezione, fra il libero corso del comandamento dell’amore e l’obbedienza: e tutto è accompagnato e regolato dall’ideale dell’obbedienza considerata con inesorabile rigore, che garantisce la giusta mira allo scopo di ogni formazione delle anime e di ogni direzione spirituale.

Non è forse ora del tutto comprensibile che Pippo Buono, tanto libero — il quale pure aveva tanto profonda intelligenza per tutte le pazzie per amor di Dio, e che realmente destava nei “mondani beffe, risa e meraviglia” — non abbia avuto nessun desiderio di unirsi a questa comunità di “magister” Ignazio? Le pazzie in onore presso questi preti di Santa Maria della Strada — essi avevano con lui in comune le canzonature dei ragazzi di strada, il popolo li chiamava collitorti e spazzatura ed escremento della città di Roma (86) — sarebbero state un godimento anche per Filippo. Ma egli, per tutta la vita, conobbe un solo principio: “Vivere suo arbitrio” (87). Ed egli lo sapeva: tale era la volontà di Dio, era la sua vocazione, nell’ampio paese della libertà dell’uomo cristiano. E perciò non aveva proprio nessun gusto per l’”ordine”, per la “regolamentazione” basca di “magister” Ignazio. E se pure egli suonava la campana per lui, egli personalmente voleva restare libero e riunire intorno a sé, con libera, per così dire, capricciosa improvvisazione, quegli uomini, che trovasse abbastanza forti, per avere quella libertà. Così si formò, a poco a poco, intorno a lui, quasi da sé, quasi senza accorgersene, una piccola comunità, da quando, nel 1548, egli, con Persiano Rosa [m. 1558], aveva formato la cellula originaria del futuro Oratorio, in quei convegni di spontanea, ardente e tuttavia infinitamente semplice orazione, o nell’assistenza ai romei, alla Ciambella, presso le terme di Agrippa (88). E, da quando, nel 1551, era divenuto prete, la sua angusta camera presso San Girolamo della Carità divenne l’ambito beato della sua libertà e della sua ardente direzione spirituale. “Ognuno vi abitava a modo suo, isolato in un piccolo appartamento… Niente pasto in comune. Niente di superiore… Per il suo temperamento e per l’opera a venire erano le condizioni ideali” (89). Da San Girolamo il nostro sguardo va alla “casa professa” di “magister” Ignazio presso la piccola chiesa di Santa Maria della Strada, e, con questo sguardo, afferriamo quanto divergano ora le vie dei fondatori.

Già prima dell’autunno decisivo 1551, nella cerchia di Filippo c’erano stati alcuni malintesi relativamente agli “Ignaziani”, proprio perché questi, allora, ancora in modo invadente si occupavano degli stessi compiti caritativi e catechetici ai quali si dedicava Filippo. È vero che si leggono anche i nomi di alcuni amici di lui, nella lista dei promotori della casa di Santa Marta, fondata da Ignazio (90). Ma nell’Oratorio di Filippo e di Persiano Rosa, che andava lentamente nascendo, non si aveva certo molta comprensione, per il progettare ed eseguire dell’opera di riforma di quella compagnia di Ignazio, progettare ed eseguire che miravano bensì allo scopo, ma apparivano pur sempre un po’ troppo rigidi. Senza dubbio, la si pensava come il francescano Fray Barberán si esprimeva, nel 1546, nella sua querela a Paolo III [1534-1549] contro la casa di Santa Marta: “Questi preti vogliono riformare il mondo intero” (91). In ogni modo, leggiamo, nel 1547 — o un po’ dopo — nel libello d’accusa del domenicano fra Teofilo di Tropea “Contro i preti, li quali se fanno chiamare de la Compagnia de Jesu, o vero Reformati, o preti Theatini, o vero Illuminati, o vero Ignatiani” (92), di un certo prete Francesco da Arezzo, abitante presso San Girolamo, che egli era stato per un certo tempo, presso la comunità d’Ignazio e che poi, disilluso, l’aveva di nuovo lasciata (93). Ora, questi è senza dubbio, Francesco Marsuppini [1512-1568], amico intimo di Filippo e, più tardi, suo venerato confessore (94). Evidentemente il Marsuppini trovò più di proprio gusto la cerchia piena d’intimità dell’Oratorio incipiente che l’austera disciplina sotto “magister Ignazio” nella casa professa. Da ciò comprendiamo ancora una volta anche perché Pippo, quasi istintivamente e con un amabile sorriso (è probabile), abbia rifiutato di unirsi ad Ignazio.

Dal 1551 in poi, le diversità fra gli ideali delle due congregazioni si fanno ancora più chiare. Il biografo di Filippo ha, con ragione, designato proprio quell’anno della ordinazione sacerdotale di Pippo e dell’inizio della sua vita a San Girolamo, quale un taglio nello sviluppo dell’Ordine dei Gesuiti (95). Ignazio ha finito di scrivere il proprio statuto dell’Ordine e lo presenta ai professi riuniti a Roma. Le bolle di papa Giulio III [1550-1555] danno la sanzione canonica all’opera. Ignazio può ora veramente cedere a una tendenza “filippina” del suo intimo cuore e scrive, il 30 gennaio 1551, la sua famosa lettera di dimissioni, che però resta senza effetto (96). Le attività del suo Ordine sono cresciute fino ad abbracciare tutto il mondo, a Roma stessa le opere d’un tempo, volte all’assistenza caritativa delle anime ed all’apostolato dei catechismi ai ragazzi, passano in secondo piano, mentre, al loro posto, sorgono ora il Collegio Romano ed il Collegio Germanico; educazione e culto delle scienze, teologia al Concilio di Trento [1545-1563] e Missioni, fino al Giappone ed al Brasile, devono essere guidate ed ispirate.

Il numero e la formazione dei membri dell’Ordine richiedono rigorosissima concentrazione, ed Ignazio scrive la sua lettera sull’obbedienza (1553) e, proprio dal 1551 in poi, la corrispondenza del generale dell’Ordine cresce smisuratamente: quella, che era una volta una cerchia di amici, in dieci anni è diventata una vera monarchia, che tocca tenere in pugno fortemente e saggiamente. Uomini, come, poniamo, Nicola Bobadilla S.J. [1511-1590], nonostante l’entusiasmo per il loro “magister” Ignazio d’un tempo, sentono questo mutamento come in contrasto ai beati inizi “democratici” dei primi tempi, e proprio quel Bobadilla, poco dopo la morte d’Ignazio, scriverà a Papa Paolo IV [1555-1559]: “Ignazio era finora padre e padrone assoluto e faceva quello che voleva” (97). Gli stessi più affezionati fra i figlioli del primo generale, come il Laynez ed il Polanco, avevano difficoltà, alle volte, a scoprire il cuore pieno d’amore e la raggiante bontà del padre, sotto la coperta dell’autoritario, che dava loro in cibo “pane duro e vivande da uomini fatti” (98). Per quanto sussista ancora interamente il legame personale allo spirito di “magister” Ignazio, proprio in forza delle sue genialmente immaginate Costituzioni, il generale dell’Ordine Ignazio diviene, per così dire, sempre più “superfluo”, egli sparisce dietro l’opera sua, e si dilegua nella morte, con piena coscienza di non lasciare nessun “vuoto”. Proprio questa impressione è quella che manifestano i confratelli nelle loro lettere dopo la morte d’Ignazio, avvenuta il 31 luglio 1556. Così il fedele Polanco scrive al Ribadeneira, figlio prediletto di Ignazio: “Egli non ci ha convocati intorno a sé, per darci la benedizione, egli non ha nominato nessun successore e neppure nessun vicario, egli non ha dato nessun segno, come sogliono darne, alla loro morte, i Servi di Dio. No, perché egli voleva, proprio perché pensava tanto bassamente di sé stesso, che la Compagnia di Gesù non fondasse la propria speranza su nessun altro che il Signore Iddio” (99).

Filippo vide questo sviluppo della Compagnia di Gesù negli anni benedetti da lui passati a San Girolamo della Carità, dal 1551 in poi. Egli ha lealmente ammirato la Compagnia e leggendo le lettere di Francesco de Xavier dall’India, in lui e nei suoi amici sorse un ardente desiderio di collaborare a quell’opera grandiosa. Ma erano desideri, che non si adattavano all’anima di lui e perciò neppure alla sua divina vocazione. Il mistico monaco delle Tre Fontane, al quale ricorse per consiglio, gli disse: “Le tue Indie sono a Roma” (100). Filippo tornò nella sua cameretta e visse, come prima, “suo arbitrio”. Nella casa professa vicino a Santa Maria della Strada non sarebbe stato a posto ed a persuadercene basta che leggiamo, accanto alle relazioni della vita deliziosamente libera presso San Girolamo, dove si pregava e ci si beava delle musiche degli Oratori, il regolamento di casa stabilito, negli ultimi anni della vita, dal generale Ignazio, amico dell’ordine, nel quale tutto era regolato, persino la forma comune delle scarpe (101), eppure tutto tendeva alla rigorosa formazione di uomini, che si potevano mandare nel Giappone o al Congo, senza che battessero ciglio. Di qui comprendiamo anche perché Ignazio sia stato così ferreamente contrario alle proposte di unire al proprio Ordine i teatini o i barnabiti (102), quei buoni barnabiti di Milano che si sentirono tanto a loro agio e compresi nell’Oratorio di Filippo alla Vallicella (103).

E così proprio in confronto col sorgere e svilupparsi della Compagnia di Gesù, il lento formarsi, canonicamente, della vera e propria Congregazione dell’Oratorio di s. Filippo Neri è un’ultima prova della incommensurabile larghezza di ideali cristiani nella Chiesa una ed in vista dell’unica meta comune. Filippo visse più di vent’anni a San Girolamo, prima che, dal 1575 in poi, venisse in discussione l’idea della fondazione di una famiglia “organizzata” di preti secolari viventi in comune. Che differenza con la “deliberatio primorum Patrum” dei compagni d’Ignazio nel 1539! In ogni modo per i confratelli della Vallicella, fin dall’inizio, una cosa è già stabilita: non si tratta in nessun modo della fondazione di un nuovo Ordine; non entrano in questione i voti. Anzi, presso Filippo, non ci fu mai una vera e propria, riflessa intenzione di fondazione (104). Egli è, in vero, e rimane, fino alla sua santa morte, il cuore della comunità, ma le deliberazioni per così dire lo travolgono, lo sommergono. Egli stesso prende appena parte alle lunghe sedute, perché, fra i suoi figli, sorge già la seconda generazione, che, cosciente, cerca una forma per la nuova comunità quale un “chiostro in mezzo al mondo” ed un “aureo mezzo” fra Ordine religioso e libertà. Per dieci anni, dopo l’inizio delle discussioni, egli persiste ad abitare, pertinace, e quasi un po’ contrariato, nella sua cella presso San Girolamo. Soltanto l’ordine del Papa lo costringe al trasloco alla Vallicella e Pippo, sempre uguale a se stesso, sa dare a questo trasloco la forma di un delizioso corteo di pazzi per amor di Dio (105). Quasi indispettito, respinge la questione, se non si debba dar forma di voto alla povertà della vita comune (106). Lo sviluppo della Congregazione romana e la fondazione di Congregazioni fuori Roma, che egli deve dirigere quale padre nello spirito da tutti amato con venerazione, gli danno preoccupazioni, scrive di rado e poco volentieri lettere e, per quanto riguarda l’obbedienza, preferirebbe lasciar fare allo spirito ed arriva alla sublime massima (che bisogna gustare accanto alla lettera di Ignazio sull’obbedienza): “Se vuoi che ti si obbedisca, non dare ordini” (107). Soltanto molto tempo dopo la morte di Filippo, nel 1612, la Congregazione dell’Oratorio trova quella forma stabile, nella quale si poté conservare fresco il profumo dello spirito filippino. Perciò ha ragione il biografo di Filippo quando dice: “Tratto per tratto, la Congregazione dell’Oratorio è il contrario della celebre istituzione della Compagnia di Gesù” (108). Perché lo Spirito di Dio soffia dove vuole.

Quando, il 31 luglio 1956, ricorderemo la morte di Ignazio, il nostro sguardo andrà anche ai rilievi dorati dello splendido altare, sotto il quale egli riposa: in uno di quei rilievi è raffigurato Ignazio, mentre, con grande affetto, abbraccia il suo Filippo Neri (109). Nell’anticamera della stanzetta, nella quale Ignazio morì, è appeso un quadro, che rappresenta, fraternamente uniti, i due eroi della riforma romana. Essi furono canonizzati insieme, e, per sempre vicini, appartengono al regno dello Spirito. Perché essi, fin di quaggiù, con lo sguardo penetrante, che è proprio degli uomini di Dio, si sono riconosciuti l’un l’altro per uomini perduti nell’amore di Dio. Il nostro tentativo di afferrarli in questi abissi è stato goffo e incompleto. Consoliamoci con quanto scrisse, dopo un incontro con Filippo, il p. Oliver Manare [S.J. (1523-1614)], che ancora Ignazio aveva accolto alla propria scuola: “Il venerabile don Filippo Neri, il preposito dell’Oratorio, mi disse d’aver visto, un giorno, il volto del beato padre Ignazio inondato di splendore soprannaturale e che perciò egli era del parere che nessuna opera di pittura possa rappresentarlo così, come egli era in realtà” (110).

 

(1) Per la vita di san Filippo Neri [1515-1595] usiamo la migliore biografia finora [1956] comparsa, Louis Ponnelle [C.O. (1879-1918)] e Louis Bordet [C.O. (1874-1963)], Saint Philippe Néri et la société romaine de sons temps (1515-1595), Bloud, Parigi 1929.

(2) Cfr. ibid., p. 520. Sui malumori, già al tempo di Francesco Borgia [san Francisco de Borja y Aragón S.J. (1510-1572)], cfr. ibid., pp. 264 e 58.

(3) Cfr. ibid., p. 54 e ss.; e Pietro Tacchi Venturi [S.J. (1861-1956)], Storia della Compagnia di Gesù in Italia narrata col sussidio di fonti inedite, 5 voll. in 7 tomi, Edizioni della Civiltà Cattolica, Roma 1943-1950, vol. II, t. 1, pp. 300-304.

(4) Cfr. Fontes Narrativi de Sancto Ignatio de Loyola (d’ora in poi FN), 2 voll., Roma, Edizioni della Civiltà Cattolica 1943-1951, vol. II, p. 637 (riedizione critica e aumentata delle fonti contemporanee su Ignazio in [Dionysius Fernández Zapico S.J. (1877-1948) (a cura di)], Monumenta Ignatiana, ex autographis vel ex antiquioribus exemplis collecta (d’ora in poi MI), Monumenta Historica Societatis Jesu, Roma 1934-1948, vol. 4, t. I).

(5) Cfr. G[eorg]. Schurhammer [S.J. (1882-1971)], Franz Xaver. Sein Leben und seine Zeit, 2 voll., Herder, Friburgo i. B. 1955, vol. I, p. 427 e ss [trad. it., San Francesco Saverio. Apostolo delle Indie (1506-1552), Apostolato della Preghiera, Roma 2005]. Sull’incontro di Filippo con Ignazio e Francesco Saverio, cfr. ibid., p. 481.

(6) Cfr. Monumenta Historica Societatis Jesu (d’ora in poi MHSJ), Epistolae S. Francisci Xaverii, vol. I, p. 17; vol. II, p. 5.711 e ss.; e L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 163 e ss.

(7) Cfr. [Societé des Bollandistes,] Acta Sanctorum Julii, vol. VII [Jean Baptiste Du Collier S.J. (1669-1740) (a cura di), Anversa 1731, rist. anast. Culture et civilisation, Bruxelles 1970], p. 532 (n. 588).

(8) Cfr. MI, vol. IV, t. 2, pp. 423 e ss.; e vol. IV, t. I, p. 513.

(9) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 34. “Egli stesso confidò a Zazzara [Francesco S.J. (1575-1626)] che aveva studiato poco e che non aveva potuto imparare perché occupato in preghiere e in altri esercizi spirituali” (G. Incisa della Rocchetta, N. Vian e C. Gasbarri C. O. [a cura di], Il primo processo per san Filippo Neri nel Codice vaticano latino 3798 e in altri esemplari dell’Archivio dell’Oratorio di Roma, cit., f. 39 v.)

(10) Cfr. MI, vol. IV, t. 1, p. 524.

(11) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 88.

(12) MI, vol. I, t. 1, p. 138. Cfr. ibid., p. 143.

(13) Ibid., vol. I, t. 7, p. 256.

(14) Cfr. G. Schurhammer, op. cit., vol. I, p. 397 e ss., e p. 407 e ss.

(15) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 524.

(16) FN, vol. I, p. 609.

(17) MI, vol. III, t. 1, p. 20. Cfr. ibid., p. 30.

(18) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 51.

(19) Cfr. ibid., p. 54; e G. Schurhammer, op. cit., vol. I, p. 489, nota 4.

(20) Cfr. P. Tacchi Venturi, op. cit., vol. II, t. 1, p. 303.

(21) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 54, e [Societé des Bollandistes,] Acta Sanctorum Maii, vol. VI [Daniel van Papenbroeck S.J. (1628-1714) e Godefroy Henschen S.J. (1601-1681) (a cura di), Anversa 1688, rist. anast. Culture et civilisation, Bruxelles 1969], p. 525.

(22) FN, vol. I, p. 588.

(23) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 91. Cfr. G. Incisa della Rocchetta, N. Vian e C. Gasbarri C. O. (a cura di), op. cit., f. 113.

(24) Cfr. Johann Wolfgang von Goethe, Italienische Reise, Napoli 26 maggio 1787 [trad. it., Viaggio in Italia. 1786-1788, con Introduzione e commento di Lorenza Rega, Rizzoli, Milano 2007].

(25) MI, vol. IV, t. 1, p. 423.

(26) FN, vol. I, p. 637. Cfr. H. Rahner, Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, Herder, Friburgo i. B. 1956, p. 484 [trad. it., Ignazio di Loyola e le donne del suo tempo, Paoline, Milano 1968].

(27) Cfr. Carl Alois Kneller [S.J. (1857-1952)], Das Oratorium des heiligen Philipp Neri und das musikalische Oratorium [L’Oratorio di san Filippo Neri e l’Oratorio musicale], in Zeitschrift für Katholische Thologie, [Echter, Innsbruck] 1917, vol. 41, pp. 246-282.

(28) MI, vol. III, t. 1, p. 19.

(29) Diario di Ignazio, 11 maggio 1544, ibid., p. 137.

(30) Cfr. FN, vol. II, p. 337.

(31) Cfr. MHSJ, Litterae Quadrimestres, vol. IV, p. 328 e ss.; e James Brodrick [1891-1973], Petrus Canisius [Pieter Kanijs S.J. (1521-1597)], [trad. ted., 2 voll., Herder,] Wien 1950, vol. I, p. 384.

(32) FN, vol. I, p. 636 e ss.

(33) Cfr. MI, vol. IV, t. 1, p. 523; FN, vol. I, p. 376 e ss.; e G. Schurhammer, op. cit., vol. I, p. 462.

(34) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 525.

(35) Cfr. Diario di Ignazio, 19 febbraio 1544, in MI, vol. III, t. 1, p. 101.

(36) MI, vol. IV, t. 2, pp. 825, 828 e 831.

(37) Cfr. Nicholas Lancicius [S. J. (1574-1653)] Opuscula spiritualia, 2 voll., Apud Iacobum Meursium, Anversa 1650, vol. II, p. 639; e G. Schurhammer, op. cit., vol. I, p. 397, nota 5.

(38) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 93 (G. Incisa della Rocchetta; N. Vian; e C. Gasbarri C. O. (a cura di), op. cit., f. 388 e f. 373); e Pietro Giacomo Bacci [C.O. (1575 ca.-1656)], Vita di S. Filippo Neri Fiorentino, fondatore della congregatione dell’Oratorio. Scritta già dal p. Pietro Giacomo Bacci … et accresciuta di molti fatti, e detti dell’istesso santo, cavati da i processi della sua canonizatione. Con l’aggiunta d’vna breue notitia di alcuni suoi compagni … per opera del reu. p. maestro f. Giacomo Ricci, Tizzoni, Roma 1678.

(39) Pedro de Ribadeneira S.J., Vita P. Ignatij Loiolae, qui religionem clericorum Societatis Iesu instituit; autore R.P. Petro Ribadeneira eiusdem Societat. sacerdote nunc denuo recognita & locupletata, Birckmann, Coloniae Agrippinae 1602, p. 636 [trad. it., Vita di Sant’Ignazio di Loyola, a cura di Bartolomeo Sorge S.J. e introduzione di Max Bruschi, Claudio Gallone, Milano 1998].

(40) Cfr. FN, vol. I, p. 542.

(41) Ibid., p. 642.

(42) Ibid., pp. 643. Cfr. ibid., pp. 656, 701, 703 e 713; e G. Schurhammer, op. cit. vol. I, p. 470.

(43) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 530 e ss.

(44) Cfr. ibid., pp. 85-87.

(45) Cfr. ibid., p. 645 e ss.; MI, vol. IV, t. 1, p. 407; FN, vol. II, p. 328 e ss.; Bruno Wilhelm O.S.B., Die Stigmatisierte in Bologna, in Zeitschrift für Aszese und Mysti, [Franz Wegner, Innsbruck] 1930, vol. V, pp. 176-178; Anton Huonder [S.J. (1858-1926)], Ignatius von Loyola. Beiträge zu seinem Charakterbild [Ignazio di Loyola. Contributi per un profilo del suo carattere], Tat, Colonia 1932, p. 298; e H. Rahner, Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, cit., pp. 28-30.

(46) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 527; e H. Rahner, Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, cit., pp. 14, 16 e ss. e 23 e ss.

(47) Stephan Hilpisch [O.S.B. (1894-1971)], Die Torheit um Christi Willen, in Zeitschrift für Aszese und Mystik, cit., 1931, vol. VI, pp. 121-131.

(48) Cfr. Josef Schmitz [C.SS.R.], Neri, Filippo, in [mons.] Michael Buchberger [(1874-1961) (a cura di)], Lexikon für Theologie und Kirche, Herder, Friburgo i. B. 1930-1938, vol. VIII (1936), p. 232.

(49) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 96. “Che volete, che io mi metta in sussiego, et che si dica: questo è il padre Filippo, con sputar belle parole?… Se ci viene, io farrò peggio” (G. Incisa della Rocchetta, N. Vian e C. Gasbarri C. O. [a cura di], op. cit., f. 129 v.). “Non vedi, bestia, che diriano poi: ecco, messer Filippo è un santo” (ibid., f. 388).

(50) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 529. Un giorno in cui era malato l’ho sentito dire: “Se la scampo, faccio voto di offendere Dio per sempre”. E aggiunse: “Giacché attendo dalla sua bontà che mi faccia la grazia di non offenderlo mai”” (Archivio di Roma, Fascicolo di alcuni ricordi cavati dalli processi, n. 215). Cfr. Notes de Frédéric Borromée (Biblioteca Ambrosiana, Argumenta, riprodotto dal periodico San Filippo Neri, vol. 26, n. 7, 1923), che contiene un testo pressoché identico: “Egli diceva spesso: “Prometto a Dio di non fare mai da me stesso alcun bene; io dispero di me stesso, ma confido in Dio””.

(51) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 529, nota 7.

(52) Ibidem. Cfr. Archivio Roma, Scritture originali. Alcuni ricordi et consegli del B. Filippo Neri, fondatore della Congregazione dell’Oratorio, n. 156, e Ponnelle-Bordet, p. 531. “Sforzare Iddio” (G. Incisa della Rocchetta, N. Vian e C. Gasbarri C. O. [a cura di], op. cit., ff. 72, 188, 197 e 284.

(53) Il motto, famoso per l’interpretazione che ne dà Goethe (cfr. Italienische Reise, In viaggio 4-6 giugno 1787): “Spernere mundum, spernere neminem, spernere seipsum, spernere se sperni” [disprezzare il mondo, non disprezzare alcuno, disprezzare sé stesso, non far conto d’essere disprezzato], che finora si attribuiva a san Bernardo [di Chiaravalle (1090-1153)], è di Ildeberto di Lavardin [vescovo di Le Mans e poi di Tours (1055-1133)] (cfr. don Jacques Paul Migne [1800-1875] [a cura di], Patrologiae Latinae Cursus Completus, 221 voll., 1844-1865, vol. CLXXI, p. 1.437).

(54) FN, vol. I, p. 609. Cfr. H. Rahner, Ignatius von Loyola und das geschichtliche Werden seiner Frömmigkeit, Anton Pustet, Graz-Salzburg 1949, pp. 60-62 e p. 84 [trad. it., Come sono nati gli esercizi. Il cammino spirituale di sant’Ignazio di Loyola, 2° ed. rivista, ADP, Roma 2004].

(55) Cfr. Karl Rahner [1904-1984], Die ignatianische Mystik der Weltfreudigkeit [La mistica ignaziana della gioia del mondo], in Zeitschrift für Aszese und Mystik, vol. XIII, 1937, pp. 121-137; e Burkhart Schneider [S.J. (1917-1976)], Der weltliche Heilige. Ignatius von Loyola und die Fürsten seiner Zeit [Il santo del mondo. Ignazio di Loyola e i principi del suo tempo], in Geist und Leben, vol. XXVII, 1954, pp. 35-58.

(56) FN, vol. I, p. 140.

(57) P. de Ribadeneira S. J., op. cit., p. 549.

(58) MHSJ, Mon. Rodr., p. 548.

(59) FN, vol. I, p. 768.

(60) Cfr. MI, vol. IV, t. 2, pp. 571, 851 e 1.009; e P. de Ribadeneira S. J., op. cit., p. 562.

(61) MI, p. 571.

(62) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., pp. 79-82.

(63) Cfr. ibid., p. 79: “Vorrei saper da te com’ella è fatta questa rete d’amor che tanto abbraccia”.

(64) MI, vol. III, t. 1, p. 124.

(65) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 467 e ss.

(66) MI, vol. III, t. 1, pp. 88, 91, 93 e 99 e ss. Cfr. il testo tedesco in Alfred Leonhard Feder [S.J. (1872-1927)], Aus dem mystichen Tagebuch des heiligen Ignatius von Loyola [Dal diario mistico di sant’Ignazio di Loyola], Anton Pustet, Regensburg 1922, p. 39; p. 43; p. 46; p. 55; e p. 57; Victoriano Larrañaga S. J., Obras completas de San Ignacio de Loyola, 2 voll., Bac. Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 1947, vol. I, p. 687, nota 10; e H. Rahner, in Zeitschrift für Aszese und Mystik, vol. X, 1935, p. 266.

(67) MI, vol. III, t. 1, p. 114. Cfr. A. L. Feder, op. cit., p. 77.

(68) FN, vol. I, p. 638 e ss.

(69) Ibid., vol. II, p. 158. Cfr. H. Rahner, Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, cit., p. 533.

(70) FN, vol. II, p. 122.

(71) MI, vol. IV, t. 1, p. 573.

(72) MHSJ, vol. IV, p. 645.

(73) MI, vol. IV, t. 1, p. 353 e ss.

(74) Cfr. Ignazio di Loyola, Exercitia spiritualia, nn. 330 e 336; e MI, vol. II, t. 1, p. 528 e p. 534.

(75) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 34 e ss. “Fece, molti anni, vita come heremitica, mangiando cose grosse, frutti et pane, dormiva vestito per le chiese, et altri luoghi devoti, et haveva l’oratione pronta, che più tosto, era provocato dal spirito, che bisognasse con la meditazione, eccitare la fiamma” (Extra Urbem, f. 27). Cfr. anche il giudizio del card. Tarugi sulla santità d’Ignazio, in MI, vol. IV, p. 487 e ss.

(76)FN, vol. II, p. 122 e ss.

(77) Ibid., p. 125.

(78) FN, vol. II, p. 158.

(79) MI, vol. IV, t. 1, p. 470.

(80) MI, vol. IV, t. 2, p. 425 e ss. Cfr.ibid., vol. IV, t. 1, p. 499 e p. 513.

(81) MHSJ, vol. IV, p. 651 e ss.. cfr. H. Rahner, in Zeitschrift für Aszese und Mystik, cit., vol. X, 1935, p. 203 e ss.

(82) FN, vol. I, p. 183. Cfr. ibid., vol. II, p. 82.

(83) MI, vol. III, t. 1, p. 2.

(84) Cfr. ibid., vol. III, t. 1, pp. 4-7; e G. Schurhammer, op. cit., vol. I, p. 437 e ss.

(85) MI, vol. III, t. 1, p. 6 e ss.

(86) Cfr. MI, vol. IV, t. 2, p. 828; e Benedetto Palmio [S.J. (1523-1598)], Autobiografia, p. 14, cit. in P. Tacchi Venturi, op. cit., vol. I, t. 2, 1950, p. 247.

(87) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 95. Cfr. p. 317 e ss.

(88) Cfr. ibid., pp. 58-62.

(89) Ibid., p. 122.

(90) Cfr. ibid., p. 54, nota 6; il testo dell’elenco in P. Tacchi Venturi, op. cit., vol. I, t. 2, 1950, pp. 296-307; i nomi dei tre amici di Filippo e membri del futuro Oratorio che compaiono nell’elenco della Compagnia della Grazia, fondata da Ignazio per la casa di Santa Marta, sono Enrico Pietra (cfr. ibid., p. 305, nota 5), Teseo Raspa [m. 1507] (ibid., p. 305, nota 6) e Prospero Crivelli (ibid., p. 306, nota 1). Sulla miracolosa guarigione di Crivelli per opera di Filippo, cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 110.

(91) MI, vol. I, p. 447. Cfr. H. Rahner, Ignatius von Loyola. Briefwechsel mit Frauen, cit., p. 21 e ss.

(92) Cfr. P. Tacchi Venturi,op. cit., vol. I, t. 2, 1950, p. 278, che data il libello fra il 1547 e il 1552.

(93) Cfr. ibid., p. 281. Non è del tutto sicuro che si possa credere a questa notizia, perché la relazione di fra Teofilo è piena di dicerie e di favole. In ogni caso fra Teofilo, il quale abitava presso Santa Maria sopra Minerva, dove Filippo andava tanto spesso a pregare con i suoi amici, potrebbe in questo caso esser il meglio informato. Al punto 7 del suo libello all’Inquisizione è detto: “Ancora sta uno prete de Arezo in Santo Hyeronimo, lo quale se domanda maestro Francesco d’Arezo, lo quale si è stato con loro. Quistui sa il cotto et il crudo, lo quale l’hanno fatto fare professione, cioè tre voti, et dopo, videndo quello che vide, se partio”.

(94) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 57, nota 3, e p. 58.

(95) Cfr. ibid., p. 144 e ss.

(96) Cfr. MI, vol. I, t. 3, p. 303 e ss.; Leonard von Matt [1909-1988] e H. Rahner, Ignatius von Loyola, Echter, Zürich-Würzburg-Wien 1955, p. 289; e la riproduzione dell’ultima pagina di questa lettera in ibid., tav. 201 [trad. it., Ignazio di Loyola, con introduzione storica di Paul Imhof, 52 tavole a colori di Helmuth Nils Loose e 42 incisioni tratte dalla biografia di Ignazio del 1609, Paoline, Roma 1979].

(97) MHSJ, p. 732 e ss. Cfr. P. Tacchi Venturi, op. cit., vol. II, t. 2, p. 543.

(98) FN, vol. I, p. 588. Cfr. MI, vol. IV, t. 1, p. 424; e FN, vol. I, pp. 87 e 673.

(99) MI, vol. IV, t. 2, p. 21.

(100) L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 164.

(101) Cfr. MI, vol. IV, t. 1, pp. 483-490.

(102) Cfr. ibid., p. 439 e ss. Per l’unione con i teatini cfr. ibid., t. 6, p. 84 e MHSJ, vol. III, p. 182. Per l’unione con i barnabiti cfr. la lettera di Ignazio a mons. Girolamo Sauli [m. 1559] in MI, vol. I, t. 4, p. 495 e ss. e l’insistente domanda di Sauli, ibid., p. 497 e ss.

(103) Cfr. L. Ponnelle e L. Bordet, op. cit., p. 264 e ss.

(104) Cfr. ibid., p. 268 e ss.

(105) Cfr. ibid., p. 353.

(106) Cfr. ibid., p. 327.

(107) Ibid., p. 317.

(108) Ibid., p. 58. Il paragone fra la prassi della preghiera degli esercizi dell’Oratorio con gli esercizi spirituali di Ignazio (cfr. ibid., p. 273 e ss.) sembra non riuscito in tutto felicemente.

(109) Cfr. una riproduzione in Charles Clair [1860-1930], La vie de Saint Ignace de Loyola, Plon-Nourit, Parigi 1891, p. 310. Per un arazzo della chiesa del Gesù con una simile rappresentazione dei due santi amici, cfr. Pio Pecchiai [1882-1965], Il Gesù di Roma, Società Grafica Romana, Roma 1952, p. 203.

(110) MI, vol. IV, t. 1, p. 513.

Il Timone parla della nostra comunità

Il mensile di apologetica “Il Timone”, al quale collaborano Don Pietro Cantoni e Don Giovanni Poggiali, nel numero di aprile 2012 ha dedicato un servizio alla nostra comunità, a firma di Andrea Galli. Riportiamo le scansioni delle 2 pagine.

 

 

Conferenza a Pontremoli

Un conferenz sull’ “ermeneutica della discontinuità”

di Simone Ziviani

Si è tenuta nella serata di martedì 27 marzo, nel salone del Vescovado di Pontremoli, un incontro organizzato dalla locale sezione di Alleanza Cattolica e incentrato sul cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, che cadrà il prossimo ottobre. Patrizio Bertolini di AC ha introdotto i relatori, Monsignor Antonio Costantino Pietrocola, preside del liceo vescovile di Pontremoli, e don Giovanni Poggiali, sacerdote dell’Opus Mariae Matris Ecclesiae. “Il Papa” ha affermato Monsignor Pietrocola “nel discorso alla curia romana del dicembre 2005, tracciando un bilancio del Concilio a quarant’anni dalla chiusura, ha spiegato come vi siano due modalità diverse di interpretare il Vaticano II: la prima, corretta, è l’ermeneutica della continuità, e consiste nell’interpretare il Concilio come una riforma che si pone in continuità con la storia della Chiesa; l’altra, sbagliata, è l’ermeneutica della discontinuità, e afferma esattamente il contrario. Questi problemi di interpretazione, più che al Concilio e alle sue deliberazioni, sono dovute all’errata esegesi dei documenti prodotti dai Padri. Gli stessi cattolici spesso non li conoscono, e invece di leggerli si affidano a quanto riportato dai mass-media, sempre pronti a fare riferimento ad un fantomatico “spirito del concilio”, una volontà di modernismo a ogni costo che in realtà non era stato previsto e voluto dai protagonisti della grande assise. Comunque questa confusione non è una novità, ma è capitato spesso che dopo un concilio la Chiesa abbia vissuto una fase convulsa di assestamento. Se ne lamentava persino san Basilio dopo il concilio di Nicea del 325 d.C ! Di certo, il Vaticano II fu convocato dal legittimo Papa, e i vari documenti prodotti sono stati approvati dai 2500 vescovi presenti a Roma. Pensare che in questi documenti vi siano dei passi eretici, come fa qualcuno, è assurdo: ciò implicherebbe che il Concilio stesso sia stato eretico, cioè che lo Spirito Santo sia, per così dire, andato in vacanza, mancando di sostenere e assistere i pastori della Chiesa ”
“L’ermeneutica della discontinuità” ha proseguito don Poggiali “può a sua volta essere divisa in due categorie, opposte ma speculari. Da una parte stanno coloro che, nell’ importante discorso tenuto al clero di Belluno-Feltre e Treviso nel 2007, il Papa ha definito “progressisti sbagliati”, ossia quei teologi o quei semplici fedeli per i quali il Concilio ha (o avrebbe dovuto) rappresentare una cesura netta con la storia precedente della Chiesa, e aprire una fase nuova, che tagliasse i ponti con il passato, visto come un’esperienza sostanzialmente negativa. A questa corrente, che annovera il teologo svizzero Hans Küng tra i suoi esponenti di punta, si contrappongono i cosiddetti “anticonciliaristi”, convinti anch’essi che il Concilio abbia rappresentato una traumatica rottura col passato, ma che, proprio per questo, debba essere rifiutato. La figura più significativa di questo gruppo è stato il vescovo francese Marcel Lefebvre, fondatore della Fraternità San Pio X. Ma il panorama del mondo anticonciliare non si limita ai lefebvriani. Anche in Italia c’è chi mette in discussione la validità del Concilio, sostenendo, in modo anche molto ricercato, l’impossibilità di una riforma nella continuità. Ecco allora i riferimenti alla distinzione tra magistero ordinario e infallibile (il Concilio non ha prodotto documenti infallibili, quindi non si è tenuti a riconoscerlo ecc). Invece, come ha ricordato don Pietro Cantoni in un suo recente libro, intitolato proprio “Riforma nella continuità” e volto a dimostrare la piena legittimità del Vaticano II, già Pio IX avvertì, nel Sillabo, (un documento che in teoria dovrebbe essere caro ai tradizionalisti) come sia sbagliato affermare che i cattolici sono tenuti ad ubbidire al solo magistero infallibile. Per i progressisti sbagliati le regole della Chiesa e la verità stessa vanno cercate nella “volontà del popolo”, cioè nella moda del momento; per gli anticonciliaristi in un vago concetto di “tradizione”. Ma, di fatto, chi ci dice cos’è la “tradizione della Chiesa”? In realtà sbagliano entrambi: l’unica tradizione è quella di cui si fa interprete il magistero romano, guidato dal legittimo successore di Pietro, il quale in questo momento è Benedetto XVI”.

Fonte: Vita Apuana

L’Annunciazione

di Don Giovanni Poggiali

 

Un’idea centrale della Bibbia è l’alleanza che Dio vuole stringere con tutti gli uomini. Un’alleanza d’amore, descritta dall’inizio alla fine della Sacra Scrittura attraverso l’immagine dell’unione matrimoniale: Dio è lo sposo e Israele la sua sposa, spesso purtroppo infedele. Quest’alleanza tra Dio (JHWH) e Israele viene realizzata nei tempi messianici per la relazione tra Cristo e la Chiesa e ha il suo punto focale nella pienezza del tempo (Gal 4,4) con l’Incarnazione, cioè «il Mistero dell’ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell’unica Persona divina del Verbo» (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 86). Dio si è fatto carne (cf. Gv 1,14) per la nostra salvezza, condividendo tutto con noi fino alla morte di croce (cf. Fil 2,8) per donarci la sua stessa vita e così renderci partecipi della sua natura divina (cf. 2 Pt 1,4).

Questo evento incredibile, segno distintivo della fede cristiana, è avvenuto grazie a una ragazza ebrea, Maria, di cui Dante canterà la bellezza con un verso che ne ha descritta completamente l’essenza: Vergine Madre, figlia del tuo Figlio (Paradiso XXXIII, 1).

Se apriamo il Nuovo Testamento, tra gli evangelisti è solo Luca che descrive il fatto dell’Annunciazione a Maria (1,26-38). I Vangeli non raccontano solo degli avvenimenti storici sulla vita di Gesù, storia che, tra l’altro, è fondamentale nel Cristianesimo, ma la Chiesa ci insegna che dagli eventi è possibile sondare in profondità il mistero di salvezza che tali fatti rivelano. Ora, Maria la madre di Gesù è la persona più coinvolta nel mistero di Dio con tutta la profondità del suo essere. San Luca, con poche pennellate, racconta l’evento centrale della storia della salvezza in cui quasi tutti gli aspetti del mistero di Maria sono messi in luce: Maria, semplice figlia del popolo di Israele (la figlia di Sion) riceve dall’Arcangelo Gabriele l’annuncio che sta per diventare la Madre del Messia atteso, Figlio di Davide (della stirpe di Giuda) e Figlio di Dio.

A Nazareth di Galilea, un villaggio sperduto all’interno della Palestina e sconosciuto agli stessi occupanti Romani, viveva Colei per la quale Dio è entrato nel mondo e che ha dato alla luce l’Autore della vita. Le parole dell’Angelo a questa Donna sono ripetute ogni giorno da milioni di persone che si svegliano e addormentano con la preghiera dell’Ave Maria: «Rallégrati, piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28). Il termine greco kaire, rallégrati, si presenta nella Bibbia sempre in un contesto in cui Sion, Gerusalemme, è invitata alla gioia messianica: nell’annuncio a Maria l’Angelo Gabriele (nome che significa fortezza di Dio e che annuncerà anche a Zaccaria la nascita di Giovanni il Battista da Elisabetta) usa proprio la formula che gli antichi profeti (in particolare Sofonia 3,14-15) utilizzavano per invitare la Gerusalemme del futuro, la Figlia di Sion, alla gioia per la salvezza che Dio le avrebbe accordato. Il Cristianesimo comincia con un annuncio di gioia! Maria, infatti, è ricordata nelle litanie lauretane come causa nostrae laetitiae, causa della nostra gioia. Il cristiano non può vivere nella tristezza. È ciò che aveva sperimentato Clive Staples Lewis (1898-1963), l’autore inglese delle Lettere di Berlicche e delle Cronache di Narnia, che intitolò il racconto della sua conversione: Sorpreso dalla gioia. Anche i Padri della Chiesa lo avevano compreso così, meditando questo passo evangelico di Luca: come nell’Antico Testamento i profeti avevano augurato la gioia al popolo dell’alleanza, così Maria raccoglie, nella sua persona, tutti i desideri e le speranze di questo popolo d’Israele. Maria, Madre di Dio, è la città gloriosa, la Gerusalemme divina, la Nuova Sion, il primo Tabernacolo per cui Dio riempie della sua presenza di amore e gioia ogni dimora e ogni cuore.

Il saluto angelico contiene un termine che si può tradurre piena di grazia ma anche gratificata o ricolma di grazia: il greco kekaritoméne. Sia la tradizione Orientale che quella Occidentale hanno visto in questa parola la perfetta santità di Maria. La radice di questa parola è karis, grazia, e il verbo corrispondente esprime l’idea di un cambiamento operato dalla grazia di Dio. Questa trasformazione di Maria è stata possibile per la grazia che l’ha resa gradita a Dio. In che cosa consiste la trasformazione? Come dice un famoso biblista, il gesuita belga Ignace de la Potterie (1914-2003), la grazia toglie il peccato: Maria è trasformata dalla grazia perché ne era santificata. La piena di grazia significa allora essere senza peccato sin dal suo concepimento. Questa santificazione operata in Maria dall’amore di Dio, che lei stessa ha cantato nel Magnificat (cf. Lc 1,46-56), questa pienezza di grazia annunciata dall’Angelo, sarà il fondamento biblico più forte per la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione da parte del beato Papa Pio IX (1846-1878) con la Bolla Ineffabilis Deus del 1854: Maria, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, è concepita immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento. Maria fu piena di grazia in vista della maternità divina e, insieme, fu preparata da Dio a essere verginalmente la madre del Signore. L’annuncio dell’Angelo ha dunque due valenze: Maria diventerà la Madre di Dio restando vergine; come madre darà alla luce il Figlio dell’Altissimo (Lc 1,32), ma ciò avverrà per la potenza dell’Altissimo (Lc 1,35), ossia in modo verginale, senza concorso di uomo. Dio è il vero Padre di Gesù.

L’Angelo Gabriele, nel saluto alla Vergine, le dice: «Il Signore è con te». Questa formula è frequente nella Bibbia e indica l’assistenza divina per missioni particolarmente difficili che vanno oltre le forze umane. Maria, infatti, non potrebbe concepire un bambino senza l’intervento di un uomo. Ecco che allora la frase «Il Signore è con te», introduce un altro annuncio del messaggero di Dio: «Lo Spirito Santo scenderà su di te» (Lc 1,35). La potenza divina ricopre Maria con la sua ombra perché possa concepire e generare verginalmente «colui che nascerà» e che «sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio». Il Signore è con Maria, perché lo Spirito Santo è Dio e solo Dio può operare in lei il concepimento verginale. Maria è così la nuova Arca dell’Alleanza, luogo stesso della presenza di Dio, di cui la nube che copriva la tenda del convegno contenente l’Arca ne era un simbolo (cf. Es 40,34-35).

Nei pochi versetti del saluto angelico e nelle sue dense parole, è presente tutto il mistero di Maria: Madre di Dio, Immacolata, Vergine, Figlia di Sion. La domanda che la Vergine pone all’Angelo sul modo del concepimento: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Lc 1,34), indica il suo proposito e decisione di verginità e la frase finale del brano: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), il fiat di Maria, è pronunciato gioiosamente, con viva accettazione, infatti il termine «avvenga» (genòito) è un verbo di desiderio, una forma greca che non significa semplice accoglienza o rassegnazione, ma il desiderio pieno di gioia di collaborare con Dio, abbandonandosi alla sua volontà. L’angelo le dice: «Non temere Maria» (Lc 1,30), e Lei risponde con piena fede in Dio: «Eccomi!». Ogni nostra vocazione è racchiusa in questa parola di Maria: eccomi! Maria è modello e figura della Chiesa e dei credenti. In Lei si realizza il progetto di Dio su ogni uomo.

Qual’è il ruolo di san Giuseppe in tutto questo? L’annuncio a Giuseppe nel Vangelo di Matteo (1,18-25) getta luce anche sul mistero di Maria e sull’Incarnazione. Mentre Luca descrive il mistero dal punto di vista di Maria, Matteo lo racconta da quello di Giuseppe, «figlio di Davide», e i due annunci sono complementari. Giuseppe ha una missione delicata: adempiere nel matrimonio al compito di padre legale di Gesù – presentato da Matteo come il Messia d’Israele – essendo sposo legittimo di Maria, anche se il figlio non nasceva da una relazione coniugale ma «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Nel testo leggiamo del dubbio di Giuseppe all’annuncio della gravidanza di Maria: «Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (1,19). Lo studioso Ignace de la Potterie propone invece: «Ma Giuseppe, suo sposo, che era giusto e non voleva svelare [il suo mistero], decise di separarsi da lei in segreto». Che cosa significa, anzitutto, la parola «giusto» (dìkaios)? Alcuni la interpretano nel senso che Giuseppe rispettava scrupolosamente la Legge ebraica, per altri significa «buono», per altri ancora significa che Giuseppe era giusto di fronte a Dio, egli cioè rispettava pienamente la volontà divina. Il Santo Padre Benedetto XVI unisce i significati interpretando così questo vir iustus: «San Giuseppe viene presentato come “uomo giusto” (Mt 1,19), fedele alla legge di Dio, disponibile a compiere la sua volontà» (Angelus, 19 dicembre 2010).

Ma è l’altra parte del versetto che presenta interpretazioni più divergenti, infatti le normali traduzioni («non voleva diffamarla», «non voleva accusarla [denunciarla] pubblicamente», «non voleva esporla al pubblico ludibrio») sembrano presupporre che Giuseppe considerava, in fondo, Maria colpevole. L’interpretazione, vista sopra, del biblista de la Potterie e di diversi altri Padri antichi e autori moderni, svela che invece Giuseppe conosceva il mistero che era avvenuto nella sua sposa e sapeva che Lei attendeva un figlio per intervento divino. Si suppone allora che Giuseppe sia stato informato dell’annuncio a Maria, sicuramente dalla Madonna stessa, e che era a conoscenza del concepimento verginale: «Pieno di timore religioso davanti al mistero che si è compiuto in Maria sua sposa, Giuseppe non vede in questo momento nessun’altra via d’uscita che quella di ritirarsi discretamente. Se interpretiamo il versetto in questo modo, allora le ultime parole diventano molto belle: “Decise di separarsi da lei in segreto“. Dunque l’idea stessa di una denuncia svanisce completamente… Giuseppe è pronto a cederla [Maria] totalmente a Dio» (I. de la Potterie). Giuseppe e Maria hanno detto all’Incarnazione del Verbo, con umiltà, fede e amore. Rimangono per noi un modello di abbandono a Dio, noi che preferiamo scegliere così spesso la nostra volontà. Grazie a san Giuseppe e alla sua paternità legale, Gesù sarà integrato nella linea messianica di Davide e sarà il Messia d’Israele, della tribù di Giuda, Figlio di Davide, Figlio di Dio.

 

Fonte: Il Timone

 

Riferimenti bibliografici

Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 456-511.

Ignace de la Potterie, Maria nel mistero dell’alleanza, Marietti, Genova 1992.

Beato Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Redemptoris custos, 15 agosto 1989.

Beato Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptoris Mater, 25 marzo 1987.

Il Volto, la Riparazione

di Pietro Damian

Di fronte allo spettacolo blasfemo di Romeo Castellucci occorre regaire. Ci permettiamo di indicare una modalità, a Milano, perché a questa aderisce anche la redazione de La Bussola Quotidiana: domani, martedì 24 alle ore 21, nella chiesa di San Pio X (Piazza Leonardo da Vinci, Città Studi), il parroco don Marco Barbetta celebrerà una Messa di riparazione, a cui invitiamo tutti i nostri lettori che potranno.

Immaginiamo di imbatterci in una situazione dove una persona viene offesa gratuitamente, in modo assolutamente immeritato. Anche se quella persona ci è estranea, se in noi c’è un minimo di dignità, ci facciamo avanti prendendone le difese e, dopo, confortandola con qualche parola buona; magari dicendole – e mostrandole – che non tutti nel mondo sono così cattivi e insensibili. Mettiamo il caso che la persona offesa è un nostro amico o un parente, oppure addirittura la nostra mamma (anche offendendone la sola memoria… ): stento a credere che vi sia qualcuno che rimanga insensibile a un fatto simile. Viene naturale, volendo bene a questa persona, mostrarle la nostra vicinanza, il nostro affetto; e se la cosa è particolarmente grave, dedicandole più tempo e attenzione, quasi a voler compensare in qualche modo il male ricevuto con un sovrappiù d’amore.

Ammettiamo che questa persona non sia una persona qualunque, ma la Persona (con la “p” maiuscola): Colui che sostiene l’universo e a tutto ha dato origine; Colui che gli angeli e i santi adorano eternamente acclamandolo tre volte santo; Colui che per nostro amore si è incarnato e ha subìto i più grandi tormenti per salvarci; Colui che più di tutti merita il nostro amore e la nostra eterna riconoscenza; Colui che siamo chiamati ad amare «con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,5); Colui il cui Volto ci è più caro di qualunque volto perché è il volto di Dio stesso, a noi manifestato nella persona di Gesù Cristo…

Ebbene che sentimenti sorgerebbero nel nostro cuore al vedere questo Santissimo Volto imbrattato di escrementi? Anche se tale gesto si ammantasse della scusa dell’arte (ma l’arte, quella autentica, non era legata al Bello? Dove sta la bellezza in tale gesto?), il nostro cuore di credenti in Gesù Cristo sarebbe trafitto di dolore di fronte a una così terribile scena.
Pur non dovendo assistere a un atto infame di questa portata, al solo pensiero che queste cose accadono nel mondo, se abbiamo fede, restiamo male, molto male.

Ma poi, non potendo impedire un simile fatto (e sarei tentato di dire, e lo dico, non appartenendo ad altre religioni che ricorrerebbero a ben altri gesti), che cosa possiamo fare per “riparare” a questo male? Che cosa possiamo fare per controbilanciare, per così dire, l’offesa che viene fatta a Nostro Signore Gesù Cristo?

La risposta a questa domanda, nella storia della spiritualità cristiana è molteplice, ma si potrebbe compendiare in una parola: riparazione.  Anzitutto il miglior atto riparatorio nei confronti di Dio è la conversione personale, nostra.
Di fronte al male che ci aggredisce dobbiamo anzitutto rispondere con un sussulto di vita cristiana, sul piano cultuale e culturale (approfondire il Catechismo della Chiesa Cattolica, leggere qualche libro di buona apologetica, chiarire anzitutto a noi stessi alcuni aspetti più combattuti della nostra fede).

Ma, tornando all’aspetto cultuale, il miglior modo per “riparare” alle offese ricevute da Dio è proprio quello di offrire al Padre la migliore “riparazione” per i nostri peccati, cioè l’offerta di Suo Figlio Gesù Cristo sulla Croce, che si ri-presenta a noi in ogni santa Messa.
A questo scopo, vengono organizzate in vari luoghi “Messe di riparazione”.

Che cos’è una Messa di riparazione? Di per sé ogni santa Messa contiene l’aspetto riparatorio che è intrinseco al sacrificio eucaristico. Però, così come vengono celebrate Messe in occasioni particolari, belle e meno belle della vita, così anche in questo caso è giustificata una santa Messa fatta con un’intenzione speciale. È sempre la santa Messa, però con un’intenzione e con una consapevolezza diverse. Il rito è sempre lo stesso, ma il motivo con cui si è presenti a “quella” Messa, magari in “quel” luogo particolare è un altro.
Ciò che cambia è anche l’omelia del sacerdote che verterà su quel tema specifico; magari anche le letture cambiano, così come sicuramente le intenzioni nella preghiera universale, e così via.

È importante anche manifestare come Popolo di Dio, non solo a livello personale, intimo, la ferita ricevuta e la riparazione pubblica che si vuol fare in occasione di Messe di riparazione; una dimensione pubblica della fede, questa, che oggi sentiamo come urgente da ricuperare.
Quella di riparazione è poi anche una Messa in cui ci ricordiamo di pregare proprio per coloro che con i loro atti sono stati la causa di questo “moto riparatore”.
«Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (Ez 33, 11), dice la Scrittura. La conversione del peccatore è infatti la più grande riparazione che si possa e si debba desiderare. «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34): anche noi cristiani dobbiamo avere nel cuore queste parole di Cristo morente in Croce!

Fra pochi giorni, il 25 gennaio, celebreremo la Festa della Conversione di san Paolo. Se lui, da persecutore di cristiani è diventato uno dei più grandi apostoli, perché non può ripetersi anche oggi questo miracolo?
Santa Teresa di Gesù Bambino, nell’imminenza dell’esecuzione della condanna a morte di un criminale del suo tempo, pregò per quell’uomo di cui lesse nei giornali che rifiutava qualunque  discorso religioso , e quell’uomo miracolosamente si convertì chiedendo di confessarsi poco prima di morire. Se la preghiera e i sacrifici di una santa hanno ottenuto da Dio questo miracolo, non lo potranno forse ottenere anche la preghiera e il sacrificio del Figlio di Dio in Croce?

Per questo è importante offrire una santa Messa di riparazione e parteciparvi.

* * *

 

«In quanto sacrificio, l’Eucaristia viene anche offerta in riparazione
dei peccati dei vivi e dei defunti, e al fine di ottenere da Dio benefici
spirituali o temporali» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1414)

«Sebbene la copiosa redenzione di Cristo, con sovrabbondanza “ci condonò tutti i peccati“, tuttavia, per quella mirabile disposizione della divina Sapienza secondo la quale nel nostro corpo si deve compiere quello che manca dei patimenti di Cristo a favore del corpo di Lui, che è la Chiesa, noi possiamo, anzi dobbiamo aggiungere alle lodi e soddisfazioni “che Cristo in nome dei peccatori tributò a Dio”, anche le nostre lodi e soddisfazioni. Ma conviene sempre ricordare che tutto il valore espiatorio dipende unicamente dal cruento sacrificio di Cristo, il quale si rinnova, senza interruzione, sui nostri altari in modo incruento, poiché “una stessa è la Vittima, uno medesimo è ora l’oblatore mediante il ministero dei sacerdoti, quello stesso che si offrì sulla croce, mutata solamente la maniera dell’oblazione“. Per tale motivo con questo augusto sacrificio Eucaristico si deve congiungere l’immolazione dei ministri e degli altri fedeli, affinché anche essi si offrano quali “vittime vive, sante, gradevoli a Dio”» (Pio XI, Enciclica Miserentissimus Redemptor, 8 maggio 1928).

«Si aggiunga che la passione espiatrice di Cristo si rinnova e in certo qual modo continua nel suo corpo mistico, la Chiesa. Infatti, per servirci nuovamente delle parole di Sant’Agostino: “Cristo patì tutto ciò che doveva patire; né al numero dei patimenti nulla più manca. Dunque i patimenti sono compiuti, ma nel capo; rimanevano tuttora le sofferenze di Cristo da compiersi nel corpo”. Ciò Gesù stesso dichiarò, quando a Saulo, “spirante ancora minacce e stragi contro i discepoli”, disse: “Io sono Gesù che tu perseguiti”, chiaramente significando che le persecuzioni mosse alla Chiesa, vanno a colpire gravemente lo stesso suo Capo divino. A buon diritto, dunque, Cristo sofferente ancora nel suo corpo mistico desidera averci compagni della sua espiazione; così richiede pure la nostra unione con lui; infatti, essendo noi «il corpo di Cristo e membra congiunte», quanto soffre il capo, tanto devono con esso soffrire anche le membra» (Pio XI, ibidem)

Fonte: La Bussola Quotidiana