L’infallibilità del magistero del papa

“Come si può pretendere che degli uomini possano imporre ad altri quello che devono pensare?” (*)

di don Pietro Cantoni

 

Avete il novo e ‘l vecchio Testamento,
e ‘l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Par. 5, 76-78)

 

Un fatto di cronaca, la comparsa in un breve arco di tempo di una serie di “manifesti” di protesta ad opera di teologi di tutto il mondo, ha riportato l’attenzione dei cristiani su una componente importante della vita della Chiesa: il magistero. I commenti non hanno sempre colto il nocciolo del problema; se ne è parlato spesso in chiave sociologica, come della lotta fra “dirigenti” e “teorici”. I “teorici” preoccupati della verità e dei problemi che suscita la sua ricerca, i “dirigenti” dell’efficienza di un organismo sociale che ha bisogno di compattezza e di sicurezza. Oppure in chiave psicologica: la tensione fra chi ha un morboso bisogno di sicurezza, che solo un’autorità esterna gli può dare e chi invece non si spaventa davanti ai rischi di una piena assunzione della propria responsabilità personale. In realtà il problema è innanzitutto teologico: la posta in gioco è la natura stessa della fede che sta a fondamento della Chiesa ed è solo a partire dalla fede che può essere correttamente impostato. Non si tratta tanto allora di problemi di tensione sociale o di lotta tra sensibilità diverse (anche se c’è certamente anche questo) ma di capire che rapporto c’è tra fede e “magistero”.

1. Il clima

Capire una realtà dipende anche dal modo con cui la si guarda, dai sentimenti che suscita in noi, quasi senza accorgercene, il solo fatto di occuparcene. L’uomo non è solo intelligenza, ma anche volontà, affetto e sentimenti. C’è tutta una sfera del nostro io che è pesantemente influenzata dall’ambiente, dal “clima” culturale e che, a sua volta, influenza l’esercizio della nostra intelligenza. Ora è indubbio che una parola come “magistero”, che non vuol dire altro che autorità dottrinale, suscita in noi, in quanto immersi in un determinato clima culturale, una eco emotiva sfavorevole. La parola autorità evoca oggi l’idea di limite, di ostacolo alla libertà. Non che si voglia, per lo più, negare questa realtà. Solo che essa, più che accettata e amata come una componente della realtà umana, è piuttosto tollerata, come qualche cosa di cui non si può realmente fare a meno, ma di cui si farebbe a meno volentieri. Essendo la libertà spesso concepita come un puro “poter fare quello che si vuole”, come “assenza di limite” e – in questa luce – come un valore assoluto, ecco che l’autorità diventa un valore negativo.

Le cose però cambiano se noi cerchiamo di criticare questa “filosofia circostante”, se cerchiamo di sottoporre questi valori al vaglio dei criteri che per un credente dovrebbero essere determinanti. Il primo passo è mettere a nudo i presupposti del “si dice”, “si crede”, “si pensa”, contemporanei, per sottoporli impietosamente al vaglio della fede. Togliere i pre – giudizi dall’ombra compiacente dell’ovvio televisivo e giornalistico, per portarli al centro del tavolo e metterli sotto il riflettore della ragione e della fede. Qui si può scorgere la verità profonda di tre passi della Scrittura:

“Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8, 31-32);

“E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna.” (1 Gv 2, 27);

“L’uomo spirituale (…) giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno” (1 Cor 2, 15).

La fede dispone ad un continuo atteggiamento critico ed autenticamente anticonformista nei confronti del “mondo”. Ora, la visione delle cose che scaturisce dalla fede ci dà tutto un altro quadro rispetto a quello della “filosofia circostante”. L’uomo è uscito dalle mani di Dio. Non si è fatto da sé. Dio lo ha pensato e lo ha voluto. La “verità” dell’uomo consiste dunque nella conformità al progetto che ha presieduto alla sua creazione. Il peccato è scaturito proprio dalla pretesa di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male: “Sarete come dei, conoscitori del bene e del male” (Gn 3, 5). Il bene e il male cioè non lo desumerete più dalle cose e dalla parola di Dio, ma lo deciderete in piena autonomia, “come dei” appunto. E’ nella natura dell’uomo (e costituisce la sua “dignità”) di essere intelligente e quindi libero, di essere per questo capace di scelte che scaturiscono non da imposizioni esteriori, ma dal profondo del suo io, da quel santuario nascosto che è il suo spirito e la sua coscienza. Ma se l’uomo compie delle scelte non in obbedienza alla verità delle cose (e quindi alla verità di se stesso) – che non dipende da lui, perché non è lui che ha fatto le cose e neppure se stesso – allora fatalmente si snatura, si allontana, dalla sua verità, cioè dal suo essere intelligente e libero e cade nelle tenebre dell’ignoranza e della schiavitù. “Chi fa il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8, 34). Se invece l’uomo compie delle scelte in conformità alla verità delle cose e alla parola di Dio che ne è lo specchio e la sorgente, realizza ciò che deve essere e compie e perfeziona il suo essere libero: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi.”! Il fatto di agire in conformità a dei dati, di conformare la propria coscienza ad una legge non è contro la libertà, ma il cammino del suo inveramento e perfezionamento. La coscienza non è legislatrice autonoma, ma piuttosto araldo della legge di Dio e la libertà non è innanzitutto libertà da ma libertà per, per il vero e per il bene oggettivi che non sono un frutto del capriccio dell’uomo ma dell’intelligenza creatrice di Dio e, in definitiva, sono Dio stesso.

2. Credere

La fede è il fondamento della vita del cristiano: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2, 4; Rm 1, 17; Gal 3, 11; Eb 10, 38)1 e la fede è, per ciò stesso, il fondamento della Chiesa. Classica è l’espressione di san Tommaso: “Ecclesia instituta per fidem et fidei sacramenta – La Chiesa è stata fondata per mezzo della fede e dei sacramenti della fede” (Sum. theol. III, q. 64, a. 2, ad 3.). Tutto quello che si fa e si dice e si vive nella Chiesa è fondato sulla fede, si giustifica per la fede e vive della fede. Quando si perde di vista questo dato abbastanza ovvio, si riduce la Chiesa a una realtà umana, ad una struttura burocratica affannosamente protesa a giustificare la propria esistenza agli occhi del mondo.

A questo punto sorge spontanea una domanda: che cos’è la fede? Il concilio Vaticano II ce ne dà una bella definizione: “A Dio che rivela è dovuta l’obbedienza della fede, con la quale l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente, prestando “il pieno ossequio dell’intelletto e della volontà a Dio che rivela”[Vaticano I] e assentendo volontariamente alla rivelazione data da lui” (2). Vediamo subito che la fede è una obbedienza. E’ così che ce la descrive san Paolo: “Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza della fede (uJpakoh; pivstew”) da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome” (Rm 1, 5; cfr. 16, 26); “Distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo.” (2 Cor 10, 5).

Vediamo anche subito che è un’obbedienza di tipo particolare: essa non coinvolge soltanto il nostro agire esterno. E’ tutto l’uomo che si deve abbandonare a Dio: non solo nel suo agire e nel suo volere, ma anche nel suo pensare. Credere comporta un “pensarla” in tutto e per tutto come Gesù (3).

3. La “logica” dell’Incarnazione

L’obbedienza, poiché di obbedienza si tratta, è una obbedienza a Dio, non all’uomo. Che c’entra dunque un magistero di uomini?

Per rispondere adeguatamente a questa domanda dobbiamo innanzitutto meditare ancora un passo di san Paolo. Non si può essere “giustificati (cioè essere resi giusti)” senza credere. Credere è fondamentale, ma “Come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annunzieranno senza essere prima inviati?” (Rm 10, 14-15). Notiamo attentamente la sequenza: la fede dipende dall’annuncio, e questo si capisce benissimo. Nessuno può credere a qualcosa o a qualcuno che non ha mai visto né conosciuto. Tuttavia vediamo anche che non una persona qualsiasi può essere l’annunciatore delle cose della fede, ma solo qualcuno che sia inviato, cioè autorizzato, abilitato. La necessità del mediatore non è soltanto di ordine pratico, ma di ordine più profondo, “ontologico”. Potremmo tuttavia chiederci: ma Dio non avrebbe potuto scegliere un’altra modalità per portare gli uomini alla fede? Per esempio rivelandosi a ciascuno di essi direttamente, o abilitando di volta in volta colui che occasionalmente parla ad un altro delle cose di fede… Certamente che sarebbe stato possibile. Ma di fatto non è stato così. La fede viene dall’udito ha ripetuto sempre la tradizione cristiana, basandosi su questo passo della Scrittura, e ciò significa che ci deve essere sempre un annuncio esterno, visibile e sensibile (anche se, naturalmente, non può mancare anche una ispirazione interiore…). E inoltre ci deve essere una missio: Per parlare con autorità delle cose di Dio bisogna essere autorizzati. E scrutando il modo che Dio ha scelto per salvarci, dobbiamo dire che tutto è straordinariamente coerente e profondamente sapiente e corrisponde ad un disegno unitario bellissimo.

Come Dio si è comunicato a noi? Fra i tanti modi possibili ne ha scelto liberamente uno. E’ chiaro che lo possiamo conoscere solo perché Dio ce l’ha detto, perché dipende interamente dalla sua libertà (4). Questo modo, fra l’altro, ci è rivelato con particolare chiarezza nell’inno che fa da prologo al Vangelo secondo Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il verbo era Dio. […] E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 1. 14). Dio ha scelto la via dell’Incarnazione e rivela all’uomo di volerlo salvare così, rivelando al contempo la sua vita intima che è vita di relazioni sussistenti (Padre – Figlio, Spirito del Padre e del Figlio), che comporta una trinità di persone… E’ comprensibile che tutto l’agire di Dio sia poi coerente con questa scelta, che sia tutto comandato dalla “logica dell’incarnazione”, che è la logica di Dio che si fa “carne”, e salva l’uomo attraverso questa “carne”.

Non dobbiamo ingannarci sul significato di questa parola “carne”. Essa non sta sempre a indicare esattamente quello che noi intendiamo oggi con il vocabolo corrispondente. L’ebraico basár (rc;B;) indica piuttosto tutto l’uomo in quanto però debole ed effimero, in quanto sottoposto alla morte e a tutti i limiti che le sono connessi (5) Non mi sembra inutile osservare che, con tutta probabilità, Gesù ha utilizzato lo stesso vocabolo quando ha istituito l’Eucaristia: “Questo è il mio corpo offerto per voi…” (6).

Non soltanto la mia carne, ma la mia intera persona, in quanto, per la sua umanità, è soggetta ai limiti del dolore e della morte… Così Dio, in Gesù, si presenta all’uomo “nella carne”. Ha fame, ha sete, si addormenta in fondo alla barca. Prova compassione e tristezza e scoppia anche a piangere. Vive tutti gli aspetti dell’umanità in modo pieno: sa stare con gli uomini, al punto che è fatto spesso oggetto di invito alle feste e ai banchetti… Vive tutte le componenti dell’umanità concreta, tranne il peccato. Non solo si presenta così, ma salva così. In modo umano, nella “carne” e per mezzo della carne. Credo che non sia neppure superfluo fare un’altra osservazione: componente indispensabile di questa scelta è anche il fatto che la persona di Gesù (e quindi la persona del Verbo, che fa tutt’uno con Dio) abbia una Madre: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna” (Gal 4, 4). La nascita di Gesù poi, essendo avvenuta miracolosamente senza intervento di seme maschile, fa sì che tutta la “carne” di Gesù venga dalla Vergine. Ecco allora profilarsi un legame misterioso ma solidissimo fra Maria e la “carne” di Gesù, fra Maria e la logica dell’Incarnazione. Maria viene così ad essere come la custode discreta della “carne” dell’Incarnazione in tutto il suo sviluppo nella storia.

Dio procede con logica!

Ecco allora che Gesù compie i miracoli attraverso dei segni, a volte delle cose (come quando impasta della terra con la saliva…). Ecco che ci lascia la sua presenza sacramentale (cioè attraverso segni misteriosi) mediante i gesti dell’ultima cena, il pane e il vino, l’imposizione delle mani, l’acqua del battesimo, ecc. In un’opera a lungo attribuita a san Tommaso d’Aquino (in perfetta conformità d’altronde con il suo pensiero) troviamo questa bellissima espressione: la Chiesa e i sacramenti sono come delle reliquie dell’Incarnazione di Cristo. (7)

In quel grande movimento di rinascita di interesse e di teologia attorno alla Chiesa che si è sviluppato nell’ottocento in Germania (Johann Adam Möhler, Matthias Joseph Scheeben) e a Roma (Giovan Battista Franzelin, Clemens Schrader, Giovanni Perrone, Carlo Passaglia) troviamo un’altra espressione molto significativa: la Chiesa è come “la continuazione dell’Incarnazione nella storia”! (8)

Come trasmettere una dottrina e una vita nel bel mezzo della storia degli uomini? Dio ha scelto di far tutto humano modo, in modo umano. Dunque facendo sì che questo avvenisse nel contesto di una particolare comunità di uomini. Una comunità da lui creata ad hoc , da lui animata e da lui assistita: la Chiesa (= la convocazione).

4. La mediazione nella Chiesa

Questa Chiesa ovviamente, anche se ha una struttura sociale, non è una società come le altre. Non è neppure solo società. San Paolo la descrive come il corpo di Cristo. E questa è certamente la formula più comprensiva e più significativa per designarla. E’ un corpo, quindi non è un coacervo informe, ma ha una struttura. Una struttura che non è “democratica”! Almeno nel significato istituzionale e soprattutto “ideologico” della parola. Qui la fede, ancora una volta, ci insegna a non essere succubi degli idoli del tempo. Una forma di governo – e, a maggior ragione, una ideologia politica – per quanto possa essere ritenuta dagli uomini del proprio tempo come la migliore in assoluto, non è un assoluto. Sta di fatto che non è la struttura della Chiesa. Il che, si badi bene, non significa affatto che la Chiesa debba essere, per ciò stesso, anti-democratica! Semplicemente la sua struttura di governo non è riconducibile a quello delle moderne democrazie rappresentative. E questo per la natura stessa della cosa. Le verità della fede non sono dei ritrovati dell’uomo, che l’uomo fa e di cui logicamente dispone e decide a piacimento. Sono dei doni che vengono dall’alto. Ecco, questa è la parola decisiva: dall’alto. Tutto nella Chiesa è dall’alto. La Chiesa è corpo di Cristo. La Chiesa è popolo di Dio. Ciò che è della Chiesa, ciò che formalmente la costituisce, non può essere deciso dal basso, come è nella logica della democrazia.

“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15, 16). Gesù non è “eletto” dagli Apostoli, e neppure gli Apostoli sono eletti dal più vasto gruppo dei discepoli o dalle “folle” che seguivano (non sempre molto stabilmente…) Gesù ma è lui che li sceglie. E, fra gli Apostoli, sceglie Pietro.

Così è successo agli inizi della Chiesa, così deve continuare a succedere. Questa è la sua struttura. Molte cose possono e debbono essere cambiate, perché la Chiesa è una realtà vivente che si adatta al mutare delle circostanze e delle esigenze, ma la sua struttura non può cambiare, altrimenti la Chiesa cesserebbe di essere quello che è, cesserebbe semplicemente di esistere. Cesserebbe di essere tutta un dono gratuito di Dio che opera humano modo in mezzo agli uomini. Ma sappiamo che le “porte” (cioè la potenza) dell’Inferno non prevarranno su di lei (9).

Se la Chiesa è un corpo, non tutti i suoi membri hanno le stesse funzioni. C’è chi guida e chi è guidato. Questo non significa un rapporto meccanico, per cui c’è chi è tutto attivo e chi è tutto passivo. Corpo dice organicità, cioè struttura, differenziazione e vita. Tutto deve essere attivo in un corpo, ma in modo differenziato.

5. Il magistero

Fra le varie funzioni c’è quella magisteriale. Ad essa non compete in modo esclusivo il compito di trasmettere la fede. La fede è trasmessa da tutta la Chiesa con una molteplicità di gesti pressoché impossibile da analizzare compiutamente e distintamente. Parole, segni, cose, ambiente… Anche la madre che guida la mano del suo piccolo che si fa per la prima volta il segno di croce è trasmettitrice della fede, espressione della più alta maternità della Chiesa. All’interno di questa trasmissione il magistero ha un compito specifico, quello di vegliare autorevolmente su di essa, di discernere ciò che è conforme e ciò che non è conforme alla dottrina ricevuta dagli apostoli, di giudicare di volta in volta come questa dottrina deve essere tradotta nella vita.

Per questo giudizio occorre una facoltà proporzionata. Nella materia in oggetto entrano in gioco due elementi:

a) Dei principi soprannaturali;

b) delle realtà contingenti e quindi molteplici e mutevoli.

Ora, come è possibile, con forze puramente naturali, giudicare della conformità fra i principi soprannaturali e le realtà del mondo e della vita? Ci vuole una funzione di insegnamento con una base non naturale ma soprannaturale, che, nella presente economia non può essere che sacramentale. Bisogna che la “carne” sia vivificata dallo Spirito di Gesù e che sia anche visibilmente, storicamente, collegata con Gesù. Ci vogliono dei maestri che insegnino non sul fondamento del loro ingegno o della loro applicazione allo studio, ma sul fondamento di un mandato ricevuto. Degli araldi del Vangelo che siano anche dei missi per insegnare con autorità. Non che ingegno e studio siano da escludersi, o che non siano richiesti secondo il modo umano di procedere, ma non sono affatto essenziali in questo ordine di cose. Quanto al fondo della questione, qui, sono del tutto secondari.

Quando un teologo, in virtù della sua scienza teologica, pretende di dare giudizi autonomi in questa materia o di sganciarsi dalla guida superiore del magistero, allora si produce fatalmente una secolarizzazione della fede. La fede viene uccisa o, il che è lo stesso, trasformata in “gnosticismo” (10), in ideologia. La scienza teologica perde così il suo carattere sacro e soprannaturale, la sua “unzione”.

A questo proposito si danno (e si sono dati) due atteggiamenti possibili:

a) Risolvere il problema dei rapporti fra la fede e le contingenze della vita e della storia alla luce della pura scienza teologica sganciata da qualsiasi magistero sacro. In questo modo la natura prende il sopravvento sulla fede. Si arriva così al naturalismo e alla secolarizzazione.

b) Rifiutarsi, puramente e semplicemente, di affrontare questi problemi, favorendo una spaccatura netta fra Chiesa e mondo. E’ l’atteggiamento del fissismo e della sclerosi.

Entrambi questi atteggiamenti, lo vediamo bene, anche se in modi diversi e, all’apparenza, contraddittorî, conducono a consumare quella separazione fra Vangelo e vita che è il peccato capitale della nostra epoca (11).

L’unica possibilità di sfuggire a questa falsa alternativa è riconoscere il ruolo decisivo di un magistero vivente. Questa parola “vivente” è decisiva per caratterizzare senza equivoci ciò di cui vogliamo parlare. A volte infatti si parla di magistero riferendosi ai suoi documenti del passato. Ma il magistero formalmente non è costituito da documenti. Questo è un magistero morto. Il magistero del passato, assieme a tante altre cose, costituisce un elemento molto importante nella trasmissione della fede: la Tradizione. Tuttavia anche la Tradizione sarebbe qualche cosa di morto, di insufficiente a trasmettermi la fede in modo efficace se non fosse accompagnato dal magistero di persone viventi che, hic et nunc, presiede alla trasmissione di quello che devo credere, spiegando, giudicando e discernendo… Da questo punto di vista certo tradizionalismo non si differenzia dal protestantesimo. Il protestantesimo riconosce la sufficienza di un libro: la Bibbia, per regolarsi nelle cose di fede. Il tradizionalismo aggiunge a questo libro altri libri (come per es. il “Denzinger”, la raccolta classica dei pronunciamenti più importanti del magistero di tutti i tempi), ma sempre libri sono. Gesù però non ha detto: andate e scrivete, ma andate e predicate. Il modo naturale della trasmissione nella Chiesa è quello personale. Tutto nella Chiesa è fondato sulle persone. Una gestione burocratica del potere e anche della funzione di insegnamento non le è affatto connaturale. Così il magistero non è innanzitutto magistero del passato, e neppure del futuro (molti contestano la Chiesa di oggi in nome della Chiesa di domani…), ma magistero del presente. E’ questa “carne” che oggi vediamo e palpiamo che ci tocca e ci trasmette la salvezza. “Ecco, io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo” (Mt 28, 20). “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita […], quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Gv 1, 1-3).

Tuttavia non è che questo magistero non debba avere rapporti con il passato, anzi, questo legame gli è strutturale. Non si tratta infatti di un magistero inventivo, come quello di un professore di università che fa le sue ricerche e poi ne trasmette i risultati agli studenti. Ciò che questo magistero deve insegnare è dono, che riceve dall’alto (in verticale) proprio attraverso la consegna (orizzontale) dei suoi predecessori. E’ quindi un magistero strutturalmente tradizionale. Questo implica una unità morale col suo passato. Il maestro di oggi fa tutt’uno moralmente col maestro di ieri. Passano le persone, ma il discorso continua come se fosse la stessa persona a parlare. Cambiano i papi, ma è sempre Pietro che parla. E’ Pietro che parla per bocca di Pio, di Paolo, di Giovanni Paolo. In definitiva è Cristo, attraverso questa secolare linea ininterrotta, che parla. Questo è il senso niente affatto retorico di un luogo comune dei documenti pontifici: “Come diceva il mio predecessore N.N. di venerata memoria…”, e il senso non soltanto “scientifico” delle note a pie’ di pagina che rimandano, con apparente pedanteria, ai documenti precedenti.

E’ la continuità dell’Incarnazione: “Ecco, io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”.

Finora abbiamo parlato genericamente di “magistero”. E’ venuto il momento di dare un volto a questo nome astratto. Chi sono i depositari concreti di questa vitale funzione di insegnamento? Ascoltiamo una voce che viene da molto lontano: san Clemente, vescovo di Roma, che, verso il 95-98 scrive una lettera, di tono omiletico, ai Corinti. Ricordiamo che, per es., il vangelo di san Giovanni è stato scritto nei primi anni del secondo secolo, quindi certamente dopo questo antichissimo scritto.

“Gli apostoli predicavano il vangelo da parte del Signore Gesù Cristo che fu mandato da Dio. Cristo da Dio e gli apostoli da Cristo. Ambedue le cose ordinatamente dalla volontà di Dio. […] Predicavano per le campagne e le città e costituivano le loro primizie, provandole nello spirito, nei vescovi e nei diaconi dei futuri fedeli. E questo non era nuovo […]. I nostri apostoli conoscevano da parte del signore Gesù Cristo che ci sarebbe stata contesa sulla carica episcopale. Per questo motivo, prevedendo esattamente l’avvenire, istituirono quelli che abbiamo detto prima e poi diedero ordine che alla loro morte succedessero nel ministero altri uomini provati. ” (12)

Il mandato di Cristo non poteva spegnersi con la morte degli apostoli: “Ecco, io sono con voi fino alla fine del tempo”. Ecco allora che gli Apostoli impongono le mani a dei successori, i vescovi. Ed è bene che fossero molti i successori degli Apostoli, perché la Chiesa doveva diffondersi in tutto il mondo. Tuttavia, poiché la dottrina doveva rimanere rigorosamente una, era necessario un principio di unità. Nel collegio degli Apostoli Gesù aveva scelto Pietro, e il suo ministero doveva continuare nei papi di Roma. Lì doveva risiedere il fondamento della Chiesa, un fondamento che, partecipando della solidità della pietra che è Cristo, doveva garantire fino alla fine dei secoli stabilità e unità. Fra molti infatti possono sorgere delle differenze e dei conflitti. Chi ha ragione allora? A chi fare riferimento se sorgono differenze di dottrina o scismi? Il criterio è visibile e alla portata di tutti: il papa di Roma. Anche il magistero dei vescovi è vincolante quando è “in comunione col Papa”, e solo a questa condizione.

6. Il problema dell’infallibilità

Questo insegnamento è impartito humano modo. Nell’opera di Melchior Cano, uno dei teologi più importanti della Controriforma, troviamo questo “assioma”: “Come Dio non manca nelle cose necessarie, così non abbonda in quelle superflue”. (13) Certamente l’insegnamento autentico è garantito da Dio, ma ciò non significa che lo sia sempre nello stesso modo e che qua o là i limiti dell’uomo non possano segnarne il suo esercizio.

Qui però bisogna distinguere accuratamente due problemi.

a) L’assistenza dello Spirito Santo che garantisce la conformità fra quello che la Chiesa insegna oggi e quello che ha insegnato Gesù. “Chi ascolta voi ascolta me” (Lc 10, 16).

b) La certezza che questo singolo insegnamento della Chiesa sia conforme a quello che ha insegnato Gesù.

Sono due problemi distinti.

Non era assolutamente necessario che ogni e singolo insegnamento dei vescovi e anche del Papa fosse garantito infallibilmente. C’è spazio per la debolezza dell’uomo, e quindi per l’errore. Uno spazio però tale che non impedisca che la “carne” sia portatrice della presenza di Dio. “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”. Non c’è spazio neppure per eclissi temporanee: “tutti i giorni”.

Sappiamo che lo Spirito che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa in modo permanente è “Spirito di verità” (14).

Ci sono dei casi in cui abbiamo una certezza assoluta. Quando il pronunciamento del magistero si presenta sotto la forma di un giudizio definitivo. Si tratta allora di una “definizione”. Se ci fosse errore, tutta la Chiesa cadrebbe in errore. La “carne” non sarebbe più la carne di Gesù.

D’altra parte, come succede per l’insegnamento umano, non tutto il magistero della Chiesa è impartito con la stessa autorità. Ci sono insegnamenti definitivi e insegnamenti provvisori, o impartiti con minore sicurezza ed impegno. Se tutto fosse certo al 100% non sarebbe più “carne”. Ma Dio vuole salvarci proprio attraverso l’infermità umana.

Come faccio allora se non posso essere sempre sicuro? Devo avere fiducia, la fiducia teologale che, al di là di qualche sdrucciolata accidentale il cammino della Chiesa porta infallibilmente alla meta. D’altra parte, se ci pensiamo bene, anche la vita quotidiana in società, senza fiducia sarebbe impossibile. Vado dal medico, vado dall’avvocato e faccio quello che mi dicono di fare, anche se non ci capisco un gran ché, perché mi fido di loro. Se dovessi verificare sempre tutto e sottoporre tutto al vaglio della mia esperienza e della mia scienza la vita diventerebbe per me un peso insopportabile. Anche la vita “profana” sarebbe qualcosa di assolutamente superiore alle mie forze. Qui ci troviamo in un campo ben più elevato: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano.” (1 Cor 2, 9). Qui abbiamo dunque una garanzia ben più grande.

Il problema vero davanti al magistero, quello più pratico, non è se è o non è infallibile. Ma se la persona che mi parla è o non è inviata da Gesù e quindi da lui assistita. “Chi ascolta voi ascolta me”. Non è che tutte le volte debbo verificare puntigliosamente se quanto mi è detto è infallibile o meno (e non è sempre facile stabilirlo neppure per gli specialisti) ma se chi mi parla è inviato da Gesù, se mi parla con autorità e, eventualmente, se è proprio in comunione con il Papa.

Non esiste neppure un confine troppo netto e assolutamente rigoroso fra infallibile e non infallibile. A volte è molto difficile dire con certezza se un determinato insegnamento lo è o non lo è. Un insegnamento, e un insegnamento tradizionale, è una realtà vitale, complessa, ricca di sfumature. Ci possono essere dei casi in cui ci si avvicina molto ad una certezza assoluta. Non tutto nell’esercizio del Magistero è giudizio definitivo, cioè è “definizione”. Il modo ordinario in cui si dà è piuttosto quello dell’insegnamento. E un insegnamento è fatto di molti giudizi. Di tante affermazioni variamente articolate. Tanto più articolate quanto l’insegnamento è ampio, concerne anche realtà contingenti o si dispiega nel tempo. Più il carattere dell’intervento è puntuale più è preciso. Un giudizio è un intervento puntuale che cerca, per sua natura, precisione dogmatica e rigore giuridico. Evidentemente le modalità del giudizio (della “definizione”) e dell’insegnamento vanno lette diversamente. E’ tutta la differenza che c’è fra il magistero “ordinario” e quello “straordinario”.

E’ un grave errore, condannato dalla Chiesa, ridurre l’infallibilità al magistero straordinario. Sarebbe anche qualcosa di ridicolo: negli ultimi cento anni, per es., abbiamo, con assoluta certezza, un solo atto del magistero straordinario. Si tratta della famosa definizione del dogma dell’Assunzione di Maria SS. in cielo, contenuta nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus del 1° novembre 1950. Se così fosse non avrebbe poi tutti i torti Brian Tierney ad ironizzare sulla teologia neoscolastica dell’infallibilità con il suo noto “assioma”: “Ogni pronunciamento infallibile è certamente vero, ma nessun pronunciamento è certamente infallibile…” (15). Ma questo errore è sicuramente meno grave di quell’altro che riduce il motivo dell’assenso al magistero alla sua infallibilità. Quando i due errori si sommano, ed è stato uno slittamento massicciamente presente nella teologia contemporanea, si arriva a togliere al magistero ogni reale incidenza nella vita di fede della Chiesa e nella teologia. Se il magistero si riduce a darmi delle garanzie saltuarie, a singhiozzo (con ritmi di cento anni…), allora non si vede proprio che rapporto possa avere con quella fede di cui “il giusto vive” e di cui deve vivere quotidianamente. La critica antiinfallibilistica recente (Küng, Tierney, Hasler) è venuta come a portare a compimento un processo, a dare il colpo di grazia ad una costruzione che, poggiando su quei due colossali equivoci, era già ampiamente fatiscente.

Anche se non possiamo attribuire ad ogni e singolo pronunciamento del magistero ordinario la stessa infallibilità di una definizione (questo d’altra parte vanificherebbe la stessa differenza fra straordinario e ordinario), tuttavia appare ovvio che, quando un insegnamento è di tutta la Chiesa non possiamo pensare che, “globalmente preso” non contenga la verità di Gesù. Così come quando un insegnamento – uno stesso insegnamento – si protrae a lungo nella Chiesa, viene ribadito e confermato spesso, senza interruzioni, nel corso del tempo, non si può più pensare che non rifletta la Rivelazione divina, senza ipso facto smettere di considerare l’insegnamento autentico, quello degli “inviati”, come la regola del proprio credere, per sostituirvi il proprio pensiero personale. Pensare una cosa del genere sarebbe vanificare tutta l’economia della trasmissione della rivelazione voluta da Dio: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo”. Un caso del genere è certamente quello dell’Humanae vitae. Si è discusso, e si discute accanitamente, attorno alla sua infallibilità. Se non si vuole restare indebitamente attaccati alle parole e cadere in una pura discussione di parole, il problema non è poi così difficile: se nell’affermare che l’Humanae vitae non è in sé infallibile, si vuol sottolineare che non si tratta di magistero straordinario, lo si può agevolmente concedere, ma se si vuole affermare che l’insegnamento in essa contenuto, in quanto riflesso di un magistero di tutta la Chiesa costante ed ininterrotto nei secoli, può essere discusso, allora ciò è aberrante e conduce a conseguenze disastrose, non solo per la questione della contraccezione in sé, ma per tutta la vita di fede della Chiesa.

In definitiva chi pretende di giudicare il magistero e preferisce la propria opinione al suo insegnamento, attribuisce a sé stesso quella infallibilità che nega la magistero. E’ vero che nella Chiesa tutti “abbiamo lo Spirito Santo”. Ma non nello stesso modo. C’è chi lo ha per credere ed eventualmente per indagare le profondità della fede e chi lo ha per insegnare. L’uomo può sbagliare, ma non sbaglia chi si affida allo Spirito di verità diffidando delle sue forze. Fra un insegnamento non assolutamente garantito contro l’errore e la mia opinione contraria che cose devo scegliere? Entrambi sono “fallibili”. Non lo sono però nello stesso modo, perché non godono della stessa garanzia. Un insegnamento del magistero, anche se in sé fallibile, è sempre un insegnamento soprannaturalmente assistito proprio in quanto insegnamento. Se opto per la mia opinione è perché mi fido di più del mio ingegno e penso, in virtù di non si sa quel promessa, che io di fatto non mi possa sbagliare.

Non c’è dunque spazio per la riflessione personale ed eventualmente per un dissenso da quello che insegna il magistero? Non c’è alternativa fra adesione totale ed incondizionata e libero pensiero?

Innanzitutto bisogna dire che la subordinazione ad una autorità non implica affatto la rinuncia all’uso di ragione. Tutt’altro. E’ la ragione stessa che trova assolutamente ragionevole il riconoscimento dell’autorità e ne formula i motivi, ed è lei ancora a comprendere che non tutto quello che l’autorità propone ha lo stesso valore e che “discussione” non è la stessa cosa che “contestazione” e “dissenso”.

Chi poi rivendica un totale indipendenza di giudizio il più delle volte non si rende conto – o non vuole ammettere – di essere dipendente da tante autorità, diverse da quelle che non vuole accettare, ma non per questo più sicure e ragionevolmente fondate. Anzi, proprio nella misura in cui questa subordinazione non è percepita e riconosciuta, si tratta di qualcosa che contraddice alla natura profonda dell’essere libero. La subordinazione libera e consapevole all’autorità della fede e alle autorità umane che essa comporta non contraddice alla mia libertà, mentre la mortifica per esempio la subordinazione inconsapevole o subdola alla pseudo autorità dei mass-media o del “si dice”, “si pensa” tipici del mondo della “chiacchiera”, così ben descritto da Heidegger (16). Spesso, quando si contesta il magistero si crede di avere affermato senz’altro la propria libertà. Vale la pena invece di meditare queste sagge parole di un illustre logico contemporaneo: “Un filosofo americano di spicco ha detto una volta che la nostra epoca è l’epoca dell’analisi [nel senso aristotelico di logica formale]. Io direi che viviamo proprio, in uguale misura, nell’epoca dell’autorità. Molti uomini lo sentono e vogliono liberarsi dall’autorità, dicono di essere anti-autoritari. Se però si osservano proprio i più radicali avversari dell’autorità, allora si trova quasi sempre che essi stessi obbediscono ad una autorità, certamente diversa da quella che combattono, ma pur sempre una autorità. Che lo si voglia o noi noi viviamo nell’epoca dell’autorità” (17).

Bibliografia sommaria

CARLO COLOMBO, Il compito della teologia (Jaca Book, Milano 1982);

CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione Mysterium Ecclesiæ circa la dottrina cattolica sulla chiesa per difenderla da alcuni errori d’oggi, 24 giugno 1973;

IDEM, Istruzione Donum veritatis sulla vocazione ecclesiale del teologo, 24 maggio 1990; con commenti: Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992;

JOSEPH RATZINGER, Trasmissione della fede e fonti della fede, numero 96 di Cristianità (aprile 1983); Piemme, Casale Monferrato 1985;

IDEM, Elementi di teologia fondamentale. Saggi sulla fede e sul ministero, trad. it. (Morcelliana, Brescia 1986).

IDEM, La Chiesa. Una comunità sempre in cammino (Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1991);

LEO SCHEFFCZYK, Il ministero di Pietro. Problema, carisma, servizio (Marietti, Torino 1975);

FRANCIS A. SULLIVAN, S.J., Il magistero della Chiesa cattolica, trad. it. (Cittadella editrice, Assisi 1986)

Note

(*) Pietro Cantoni, L’infallibilità del magistero del Papa, in Franco Cardini (a c. di), Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Casale Monferrato (AL): Piemme, 1994, pp. 125-143.

(1) Cfr. anche Eb 11, 6: “Senza la fede […] è impossibile essergli graditi; chi infatti s’accosta a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”.

(2) Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum, n. 5.

(3) “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5). Cioè pensatela in tutto come Gesù (tou’to fronei’te ejn uJmi’n o} kai; ejn Cristw’/ ∆Ihsou’).

(4) “Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (1 Cor 2, 11).

(5) Cfr. la voce sárx in Grande Lessico del Nuovo Testamento, XI, 1283-1290 (F. Baumgärtel). Il fatto di non aver tenuto conto di questo significato, ha prodotto nell’antichità cristiana delle cristologie devianti: il Verbo si sarebbe unito ad un corpo senz’anima, divenendo lui stesso l’anima del corpo.

(6) Ottima presentazione della discussione in: CESARE GIRAUDO, S.J., Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teologiche sull’eucaristia a partire dalla “lex orandi” (Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma/Morcelliana, Brescia 1989) pp. 205-214.

(7) Il suo vero autore è Annibaldo d’Annibaldi che fu assistente di san Tommaso a Parigi e suo fedelissimo discepolo. Essa è ripresa da Pio XI nell’enciclica Studiorum ducem del 29 giugno 1923.

(8) Cfr. in particolare: Adam Johann Möhler, Simbolica, tr. it. (Jaca Book, Milano 1984) pp. 277-281 (§ 36).

(9) Quando si parla del sacerdozio si parla di “vocazione”. Non che gli altri stati di vita dell’uomo non abbiano anch’essi il carattere della risposta ad una chiamata, ma questo modo di dire entrato nell’uso vuole sottolineare una verità profonda: nel sacerdozio la gratuità della scelta di Dio si manifesta in un modo tutto particolare. Mi rifaccio qui all’esperienza dei sacerdoti: il più delle volte, normalmente, non c’è l’esperienza diretta di una chiamata. Non ci sono fenomeni direttamente soprannaturali (apparizioni, visioni, ecc.), ma tutto si svolge attraverso mediazioni umane, humano modo appunto, nella “carne”. Tuttavia c’è l’insopprimile percezione di essere stato scelto. E non “per merito”, ma gratuitamente. Questa osservazione offre lo spunto per un piccolo excursus. Nella Chiesa ci possono essere interventi diretti di Dio. Dio non è legato da nessuno, neppure dai modi che lui stesso ha scelto per intervenire ordinariamente. Ci possono quindi essere profezie, miracoli e rivelazioni. Ma tutto questo straordinario è subordinato al modo ordinario, che è quello della “carne”. Questo è fondamentale per valutare il fenomeno delle rivelazioni private e dei fatti carismatici in generale. Certamente Dio non è legato alle modalità ordinarie del suo agire, ma Dio certamente non contraddice se stesso: è a Pietro e alla sua Chiesa che ha trasmesso il potere delle chiavi e il potere di “legare e sciogliere”, che è appunto il potere di discernere e di giudicare in tutto l’ambito delle cose che riguardano il “Regno dei cieli”. Questo può anche sottoporci allo scandalo per cui un uomo “ordinario”, cioè non oggetto di particolari carismi visibili, giudica un uomo “straordinario”! Ma dobbiamo riflettere che l’uomo apparentemente “ordinario” è anch’esso portatore di un carisma che viene da Gesù. Un carisma che opera humano modo ! “Beati coloro che non si scandalizzeranno di me”.

(10) Anche la fede è una “gnosi”, cioè una conoscenza. Ma è una conoscenza “oscura”, enigmatica, che non procede dalle sole facoltà naturali e può essere vissuta solo nell’obbedienza alla Chiesa. Cfr. 1 Cor 13, 12.

(11) “Il distacco, che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo.” (GS 43).

(12) Ci siamo serviti della traduzione di Antonio Quacquarelli: I Padri apostolici (Città nuova, Roma 1981), pp. 76-78.

(13) De loci theologicis, lib. 5, cap. 5: J. P. Migne (ed.), Theologiæ cursus completus, vol. I, Parigi, 1837, coll. 388-389.

(14) Cfr. Gv 14, 17; 15, 26; 16, 13.

(15) B. TIERNEY, Ursprünge der päpstlichen Unfehlbarkeit, in: Fehlbar? Eine Bilanz (a cura di H. Küng) (Benzinger, Zürich-Einsiedeln-Köln 1973) p. 124.

(16) Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Sein und Zeit, § 35.

(17) J. M. BOCHENSKI, Was ist Autorität? Einführung in die Logik der Autorität, Herder, Freiburg i. B. 1974, p. 9.

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