Lunedì, 20 ottobre 2025

In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio». (Lc 12, 13-21)

 
C’è nella parabola una parola molto forte riservata al protagonista. “Stolto”, gli dice una voce nella notte. E’ facile capire che cosa voglia sottintendere questa parola: “Tu sei fortunato, ma sei privo di senno. Possiedi tutto, ma ti manca la cosa più importante: sei nell’imbecillità”. Perché il ricco della parabola si merita un giudizio così severo? Anzitutto perché ha rinunciato alla sua anima. L’anima è per lui semplicemente il suo io. E lo spirito che conta per lui è soltanto lo spirito proprietario, che si compiace di accumulare e di godere. E’ chiaro che si tratta di un’esistenza spenta e senza avvenire. Come potrebbe dirsi viva una esistenza priva di legami affettivi, di responsabilità sociali, di interessi capaci di travalicare la sfera del puro piacere egoistico? Se Dio ad un certo punto interviene a togliergli la vita, non fa che ratificare una condizione di non vita che è già in atto. La morte in questo caso non toglie nulla, perché agisce su un essere che non ha più nulla di vitale. Quanto detto basterebbe a spiegare perché il ricco della parabola sia chiamato “stolto”, cioè dissennato.  Il discorso può risultare più convincente se si pensa che lo spirito proprietario è uno spirito colpevolmente smemorato. Ogni forma di possesso è precaria, nulla si porta nell’aldilà. Il ricco, oltre a dimenticare che tutte le cose sono deperibili e che non c’è assicurazione al mondo che le assicuri per sempre (il tempo è nelle mani di Dio), dimentica anche che a procurargli quei beni hanno concorso in molti.  Ha pensato a quel Dio che lavora la terra con il sole, le piogge, le albe e i tramonti? Ha pensato ai tanti collaboratori che hanno faticato per lui? Quando dice: “I miei raccolti, i miei magazzini, i miei beni”, sembra che abbia cancellato ogni senso di riconoscenza e di debito. E se non avverte alcun obbligo nei confronti di chi lo ha aiutato, tanto meno è sfiorato dal pensiero di dover condividere un po’ delle sue ricchezze con quelli che per vivere neppure hanno il necessario. 

La Chiesa nei primi tempi ha predicato con forza la responsabilità sociale della ricchezza, tanto che alcuni Padri della Chiesa, quando vedevano che c’era chi aveva troppo e chi non aveva nulla, non esitavano a dire: “I ricchi o sono ladri o figli di ladri”. Era solo un modo provocatorio per far capire che la ricchezza, quando non esprime alcuna sensibilità sociale, diventa un furto, non importa se legalizzato. Il ricco del Vangelo, certo, non aveva alcuna famigliarità con questi discorsi. Ecco dove sta la sua stoltezza. Per vincerla l’unico modo è arricchire davanti a Dio. 

Non è un obbligo ad una scelta spiritualistica.  Si può essere santamente miliardari. La ricchezza per Gesù non è mai una maledizione. Lui stesso ha saputo godere dei beni della terra e di tutto ciò che rallegra l’esistenza. Mai che abbia rifiutato un buon pasto quando gli veniva offerto. Nella casa di Simone e in quella di Lazzaro ha accettato perfino l’omaggio di un profumo costosissimo. Ma voleva accentuare l’importanza dell’uso della ricchezza secondo la volontà di Dio.

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