«Tu chi sei?»

Il Timone, gennaio 2008

don Pietro Cantoni

“Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. […]. All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: “Questi è davvero il profeta!”. Altri dicevano: “Questi è il Cristo!”. Altri invece dicevano: “Il Cristo viene forse dalla Galilea? […]”. […] “[…] non sorge profeta dalla Galilea”. […] “Anche se io rendo testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove vengo e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado […]”. […] Gli dissero allora: “Dov’è tuo padre?”. Rispose Gesù: “Voi non conoscete né me né il Padre; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio”. […] E diceva loro: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo. Vi ho detto che morirete nei vostri peccati; se infatti non credete che io sono, morirete nei vostri peccati”. Gli dissero allora: “Tu chi sei?”” (Gv7,37-8,25)


I capitoli 7 e 8 di Giovanni sono tra i più misteriosi e “difficili” di questo Vangelo. In essi il dialogo tra Gesù e i “Giudei” si fa serrato e insistente. AI centro sta il problema dell’identità di Gesù. Il popolo nella sua semplicità intuisce di trovarsi di fronte non ad un profeta ma a “il” profeta, quello promesso da Mosè: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” (Dt 18,15).
Abbiamo già visto che questo profeta, questo “nuovo Mosè” doveva andare ben oltre Mosè, perché Mosè non poteva vedere il volto di Dio e non poteva condurre il popolo fino alla terra promessa. Il popolo intuiva anche che Gesù non era un maestro come gli altri, perché parlava con autorità, era “il Cristo”, cioè l’Unto, il Messia. Ma la sua precisa identità continuava ad apparire oscura ed è su questo che insistono i contraddittori. Il Messia non può venire dalla Galilea. Le Scritture non fanno cenno alla Galilea come terra di origine del Messia. O forse le sue origini sono altre?
“Chi è tuo Padre?”. Le parole di Gesù accennano ad un mistero ancora più profondo: “lo so da dove vengo e dove vado” mentre voi non lo sapete. È chiaro che qui l’origine e la destinazione smettono di essere solo immediati e “geografici”. Infatti Gesù esplicitamente fa cenno ad un “quaggiù” ed a un “lassù”. Le sue origini sono oltre lo spazio e il tempo.
L’espressione decisiva è allora “lo Sono”. Per trovare le origini di questo termine che Gesù applica senza ambiguità a sé stesso, dobbiamo risalire ancora a Mosè e all’episodio del roveto ardente. “Mosè stava pascolando il grègge di letro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Es 3,1-2). Qui, alla presenza di quel roveto che arde e non si consuma, si svolge un dialogo decisivo: Mosè chiede a Dio – che gli appare – di rivelargli il suo nome. Noi fatichiamo a capire quanto fosse importante il nome per i popoli antichi. Il nome non era soltanto un”‘etichetta”, era un efficace strumento di comunicazione. Dare il nome corrispondeva – grosso modo – a quello che facciamo noi oggi quando diamo a qualcuno il nostro indirizzo postale, o il nostro numero di cellulare o il nostro indirizzo di posta elettronica. Vuoi dire aprirsi all’altro, fornirgli un mezzo per entrare in comunicazione con noi, dargli insomma un certo “potere” su di noi (pensiamo alle leggi sulla privacy…). Così fa Dio donando il “nome”.
Questo nome però – e non poteva essere altrimenti – rimane un po’ “nascosto” (è infatti il nome del “Dio nascosto” Is 45,15): lo sono. È una forma verbale del verbo essere, per cui Dio dice di sé stesso “lo sono” mentre noi lo chiamiamo “Egli è”. In ebraico questo “Egli è” lo si scrive con quattro lettere: YHWH, tutte consonanti, caratteristica questa delle lingue semitiche. Essendo solo consonanti, per pronunciarlo bisogna ascoltarlo. Ma gli ebrei ben presto – per rispetto – hanno smesso di pronunciarlo e così fanno ancor oggi. AI suo posto dicono “Signore” o “Il Nome”. Il nome di Dio si è fatto così ancor più misterioso. E questo nome Gesù lo attribuisce a sé stesso. Gesù disse un giorno a santa Caterina da Siena: “Tu sei colei che non è; io sono Colui che solo è” (B. Raimondo da Capua, Vita di santa Caterina, X, X).
“Dopo la domanda dei giudei – che è anche la nostra domanda -: “Tu chi sei?”, Gesù rinvia innanzitutto a Colui che l’ha mandato e a nome del quale parla al mondo. Ripete ancora una volta la formula di rivelazione, 1”’10 Sono”, che però ora estende alla storia futura. “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che lo Sono” (Gv 8,28). Sulla croce il suo essere il Figlio, il suo essere una cosa sola con il Padre, diventa riconoscibile. La croce è la vera “altezza”. È l’altezza dell’amore “sino alla fine” (Gv 13,1); sulla croce Gesù è ali “‘altezza” di Dio, che è Amore. Lì si può “conoscerlo”, si può capire l”‘Io Sono”.
Il roveto ardente è la croce. La suprema pretesa di rivelazione, l”‘Io Sono” e la croce di Gesù sono inseparabili”.
(JOSEPH RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, p.399).

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