Può la Chiesa variare veramente?

Tradizione, trasmissione, cambiamento, continuità

Ancona, 9 novembre 2007

don Pietro Cantoni

Sed si subtiliter veritas ipsa requiratur,
hoc quod inter se contrarium sonuit,
quomodo contrarium non sit, invenitur

(San Gregorio Magno, Hom. 7 in Evang., n. 1)

L’opera principale di Romano Amerio, Iota unum, ha come sottotitolo: Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX. Esso fu suggerito dall’ Histoire des variations des Églises protestantes (1688) di Jacques Bénigne Bossuet (1). Con quel testo il grande polemista e apologeta francese intendeva sottolineare la frammentarietà e l’incertezza dottrinale del Protestantesimo di fronte alla stabilità del credo cattolico. La domanda inquietante che attraversa tutto il libro di Amerio, come un terribile sospetto che pesa prima di tutto sulla coscienza cattolica dell’autore, è dunque questa: dobbiamo dire che ora anche la Chiesa cattolica ha perso questa prerogativa che costituiva, per così dire, la sua nota caratteristica e specificante rispetto alla frammentazione e polverizzazione religiosa inaugurata dalla Riforma protestante?

1. Una quæstio senza respondeo

La prima domanda che ci dobbiamo porre su Iota unum è relativa al suo genere letterario. Io credo che la si debba leggere come una testimonianza. Una testimonianza certamente qualificata, perché viene da uomo di finissima cultura e da un cattolico di fede profonda. Una testimonianza coraggiosa e inquietante (per usare un termine caro ai “teologi neoterici”: una “provocazione”) che esige una adeguata e proporzionata riflessione (2).

“Il primo carattere del tempo postconciliare è quello di un cangiamento generalissimo che investe tutte le realtà della Chiesa, sia ad intra, sia ad extra. Sotto questo aspetto il Vaticano II espresse una forza spirituale così imponente da doversi porre in un posto singolare nella serie dei Concili. Questa universalità della variazione introdotta pone anche la questione: non si tratta forse di una mutazione sostanziale […] analoga a quella che in biologia chiamasi idiovariazione? Si forma la domanda, se non stia attuandosi il passaggio da una religione a un’altra, come molti, e del ceto clericale e del ceto laicale, non si peritarono di proclamare. Se così fosse, il nascimento del nuovo importerebbe la morte del vecchio, come in biologia e in metafisica. Il secolo del Vaticano II sarebbe allora un magnus articulus temporum, il colmo di uno dei giri che lo spirito umano vien facendo nel suo perpetuo ravvolgersi in sé medesimo. Si può anche porre la questione in altri termini: il secolo del Vaticano II non darebbe forse la dimostrazione della pura storicità della religione cattolica o, che è lo stesso, della non-divinità della religione cattolica?” (3).

Credo sia difficile formulare il problema in termini più schietti e crudi. Se ci troviamo davanti a cambiamenti sostanziali allora o la religione cattolica è storica (qui evidentemente nel senso di dialettica, contraddittoria) oppure ha concluso il suo ciclo storico e, di conseguenza, non è divina. Ma il primo corno del dilemma per ogni metafisico degno di questo nome e quindi anche per ogni uomo (che è sempre depositario di un irrinunciabile “senso comune”) non è accettabile, quindi… Tertium non datur.

Si tratta di vedere se l’antecedente è posta (modo ponendo ponens: se p allora q, ma p, dunque q). Ci sono mutazioni sostanziali? Amerio dice (sembra dire…) di sì: le esigenze e le postulazioni del mondo che nella situazione rispecchiata dal Sillabo erano esterne alla Chiesa e da essa rifiutate si sono ora “internate nella Chiesa” (4); “la Messa si trovò mutata da tutt’altra in tutt’altra” (5); “la variazione di sostanza è manifesta: oggi la Chiesa chiama laicità quello che ieri chiamava laicismo e condannava come agguagliamento illegittimo di atteggiamenti diseguali” (6); “Questa variazione [l’ecumenismo] è senza dubbio la più significativa che si sia prodotta nel sistema cattolico dopo il Vaticano II e vi si trovano riuniti tutti i motivi della tentata variazione di fondo che siamo soliti stringere nella formula di perdita delle essenze” (7). In molti casi Amerio davanti ad un evidente cambiamento di dottrina discerne però una mutazione non sostanziale, come nel caso della dottrina sulla guerra: “La variazione intervenuta nella concezione della guerra può ricondursi al genere dello sviluppo omogeneo” (8). Chiaro segno che la sua lettura – almeno nell’intenzione – non vuole essere preconcetta e si sforza di conservare quell’imparzialità che sola garantisce, per quanto è possibile all’uomo, l’approdo all’oggettività.

Peraltro sono almeno altrettanto numerose le professioni di una sostanziale immutabilità della Chiesa. All’autore è assolutamente chiaro che la vera posta in gioco non è costituita dalle alterne vicende di una “correntizia” contrapposizione interna di forze e partiti (progressisti, conservatori, liberali, integristi, ecc.), ma la natura, l’ “essenza” della Chiesa e quindi di tutta quanta la religione cattolica e dunque cristiana. “Tutta la questione circa il presente stato della Chiesa è chiusa in questi termini: è preservata l’essenza del cattolicismo?” (9). L’essenza della Chiesa, posto il suo irrinunciabile legame con Cristo, è il punctum stantis et cadentis della fede nel Verbo incarnato.

Di fronte dunque a tutti i dubbi espressi o esprimibili sta però – per Amerio – la fermezza della fede:

“Credere di fede cattolica è sapere fermissimamente che contro le verità credute non vale argomento trovato o trovabile; è sapere che non solo sono insussistenti, false e solubili quelle che potranno essere accampate in tutto il corso dell’avvenire in secula seculorum sotto qualunque estensione dei lumi del genere umano” (10).

Ci troviamo dunque di fronte ad una quaestio in stile medioevale. Videtur quod sic: la Chiesa professa oggi su molti punti tutt’altro che secondari l’esatto contraddittorio di ciò che professava ieri. Videtur quod non: è impossibile che la Chiesa si contraddica su punti di dottrina fondamentali, perché questo distruggerebbe la sua essenza, il suo stesso essere, e la Chiesa di Cristo è indefettibile.

L’autore non propone una soluzione teologica. Manca un vero e proprio respondeo dicendum quod… Prospetta piuttosto due esiti futurologici. Un mutamento sostanziale del cristianesimo (11) oppure il permanere di un “piccolo resto” (12). Il primo è inaccettabile per la fede: “Questa prima congettura profetica è incompatibile con la fede cattolica. […] non vi ha nell’uomo altra radice che quella con cui fu creato e su cui è innestato il soprannaturale: non è possibile un cangiamento radicale. Inoltre non vi ha nell’uomo altra novità che quella che fa in lui la grazia, e questa novità si continua, senza passare per uno stato mediano, nello stato escatologico. Codesto è lo stato primo e ultimo dell’uomo e non si danno cieli nuovi e terra nuova sotto questo cielo e su questa terra” (13). Il secondo gli appare più plausibile… Ma siamo nel campo della congettura umana di ciò che è interamente nella disponibilità e nella conoscenza di Dio.

2. Vicenda personale e itinerario teologico

Ho letto queste riflessioni non con “simpatia”, ma certamente con “empatia” in ragione del mio proprio itinerario personale, che è stato anche – inevitabilmente – itinerario teologico. Sono entrato infatti nel seminario internazionale di Ecône – fondato da Mons. Marcel Lefebvre – nel settembre del 1975. Ivi ho compiuto gli studi e, ancora diacono, ho iniziato l’insegnamento. Fui scelto per un tale compito in seguito al venir meno di docenti qualificati: all’inizio infatti alcuni professori universitari (tra i più prestigiosi vanno annoverati i padri Ceslas Spicq e Thomas Mehrle, domenicani, dell’università cattolica svizzera di Friburgo, oltre al padre Michel Louis Guérard de Lauriers, anch’egli dell’ordine dei predicatori, di cui parlerò più avanti) si misero a disposizione per tenere dei corsi nel nascente e promettente seminario internazionale, ma la collaborazione si interruppe al primo manifestarsi delle note vicende che condussero poi allo scisma. Essendo io laureato in una università cattolica, anche se solo in Filosofia, fui prescelto per tenere i corsi di Teologia fondamentale e dunque – posto il curriculum vigente a Ecône – anche quello, delicatissimo, di Ecclesiologia. Mi trovavo ad essere veramente ignaro della materia. A dir la verità, a causa dell’indirizzo scelto nel corso di filosofia da me frequentato nell’Università Cattolica del sacro Cuore di Milano – storia della filosofia medioevale – e, soprattutto, della tesi di laurea che elaborai sotto la direzione di Sofia Vanni Rovighi, avevo letto, pressoché per intero, l’opera di san Bonaventura da Bagnoregio. Integralmente e attentamente avevo in particolare percorso, con insistita attenzione, il suo Commentario ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo. Un vero e proprio “manuale” di teologia medievale dunque, che certamente ebbe su di me un influsso duraturo e profondo, soprattutto in quanto accompagnato dallo studio pressoché integrale della Summa Theologiæ di san Tommaso d’Aquino, il testo base su cui erano condotte le lezioni di dogmatica in Seminario. Anche se il commento in classe era veramente poco approfondito – o forse proprio per questa ragione – mi trovavo nella necessità di leggere direttamente, attentamente e ripetutamente il testo tommasiano. La teologia medioevale però non aveva ancora elaborato un vero e proprio trattato De Ecclesia, anche se certamente esso era presente – in nuce – nei suoi principi e soprattutto nei suoi sviluppi cristologici e sacramentari. A me però, ingenuo e sprovveduto inceptor, questi sviluppi rimanevano del tutto nascosti. Affrontai l’incarico con “timore e tremore”, ma anche con giovanile entusiasmo: presi con me tutti i libri sull’argomento che riuscii a trovare, per lo più di impianto neoscolastico [ricordo in particolare il De Ecclesia di Louis Billot (14) e quello molto più recente di padre Salaverri (15)], mi rifugiai durante le vacanze estive nella casa di montagna di famiglia nei dintorni di Bobbio e mi diedi ad uno “studio matto e disperatissimo” (16).

Con mia sorpresa questa forzata riflessione teologica anziché rassicurarmi sulla “buona battaglia” di Ecône, mi inquietò non poco… Affrontai l’ordinazione molto precoce (dopo soli tre anni di seminario…) con la mente affollata di dubbi. Non sulla vocazione presbiterale – che mi riempiva di gioia – ma sulla linea della Fraternità Sacerdotale San Pio X di cui diventavo ormai membro a pieno titolo. I dubbi crebbero fino a diventare certezze che esternai con fiducia a Mons. Lefebvre il 22 giugno del 1981 con una lunga lettera di trentacinque pagine. In essa denunciavo la mentalità da “libero esame” che aleggiava nella Fraternità San Pio X: “Si obbedisce all’autorità non in quanto rappresentante di Dio, mandata da Dio, ma in quanto necessaria all’ottenimento di determinati fini. L’autorità ha uno scopo soltanto pratico. L’ultima istanza non è l’autorità estrinseca ma Dio, cioè il proprio giudizio. Al posto del “sola Scriptura” c’è semplicemente il “sola Traditio“. Queste due regole sono materialmente differenti ma formalmente identiche nella ragione di autorità morte e non viventi” (17). Di fatto, il “tradizionalismo” così inteso si rivelava solo un larvato protestantesimo, dove il singolo, nel mare magnum dei documenti della tradizione sceglieva quello che più gli piaceva. In questo non diverso dal protestante che “sceglie” la Chiesa primitiva rispetto a quella susseguente che – a suo avviso – ha assunto progressivamente il volto del Cattolicesimo [Frühkatholizismus – Protocattolicesimo (18)], oscurando la “purezza delle origini”. C’è invece chi sceglie la Chiesa dei Padri, quella romanica, quella gotica, quella barocca, quella bizantina, quella immediatamente precedente il Vaticano II… o quella ad esso seguente. Il principio però, nel variare dei “gusti”, rimane lo stesso. Il protestante è colui che per obbedire alla Parola di Dio rimane attaccato alla Bibbia e rifiuta la Chiesa. A Ecône si aborriva il protestantesimo, ma si finiva per ragionare allo stesso modo. Non al modo di tanti protestanti odierni, la cui autenticità di fede e conseguente zelo missionario sono ammirevoli, ma al modo di quei protestanti dell’inizio, di quelli che hanno dato il via – al di là delle intenzioni intime che esulano dal foro di competenza dell’umano giudizio – ad un cataclisma che prima ha diviso, poi ha frantumato e quindi ha polverizzato la Cristianità. Accanto al libro della Bibbia mettevano con enfasi la “Tradizione”, ma questa si risolveva solo in altri libri (il Denzinger, la Summa di san Tommaso d’Aquino, le encicliche di san Pio X, ecc.); ad un libro si mettevano vicino altri libri… Il risultato però finiva per essere lo stesso: distacco dal magistero vivente della Chiesa, che – come insegna Pio XII – è la norma prossima della nostra fede (19). Non si può parlare sensatamente di Tradizione senza accettare non solo a parole ma nei fatti il magistero vivente della Chiesa che ne è la causa strumentale primaria, essendo causa principale lo Spirito Santo di Dio. Un magistero fatto di persone vive: il Papa e i vescovi a lui uniti, e non di carta stampata… Noi cattolici non siamo una religione del libro (20).

La discussione che ne seguì non fu – come speravo – teologica, ma solo disciplinare. Fui invitato ad accettare senza esitazioni le posizioni assunte dai superiori – in particolare la condanna senza appello del Novus Ordo Missæ, con il conseguente invito ai fedeli di disertarlo per non mettere a rischio la loro fede – o a lasciare la Fraternità. Il mio abbandono si verificò nell’agosto di quell’anno. Devo dire che un contributo decisivo alla mia riflessione venne dalla tesi elaborata dal padre Michel Louis Guérard de Lauriers, O.P., nota come “tesi di Cassiciacum”. E non solo dalla tesi, ma dalla figura e dalla personalità di padre Guérard. Apparteneva alla generazione dei Congar e dei Chenu, di cui fu amico e avversario. Autore di pubblicazioni, come per esempio Dimensions de la foi (21), che rimangono passaggi obbligati nella letteratura teologica, insegnò per breve tempo a Ecône. Io non ebbi la fortuna di averlo in diretta come professore, usufruii solo della sua predicazione e di fugaci colloqui. Ma un quarto d’ora di conversazione con padre Guérard valeva più di un corso annuale con altri docenti… Secondo la “tesi di Cassiciacum” almeno a partire dal 7 dicembre 1965, con la promulgazione della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanæ, ritenuta in chiaro contrasto (in una opposizione non solo di contrarietà, ma di vera e propria contraddizione) col magistero precedente, Paolo VI e i suoi successori, pur occupando legalmente la sede di Pietro in seguito ad una valida elezione, non godevano più della autorità pontificia e non erano più quindi divinamente assistiti. Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II sarebbero stati dunque papi solo materialiter e non formaliter. Di conseguenza e in parallelo, i vescovi nominati dagli “occupanti della Sede Apostolica” da Paolo VI in poi non avevano l’autorità, esattamente come non l’avevano i suddetti occupanti. Sarebbe stato allora compito dei cardinali o dei vescovi residenziali quello di rivolgere all’occupante della Sede romana delle motivate ed argomentate “monizioni canoniche”. Se il Papa avesse persistito nei suoi errori, avrebbe cessato di esserlo anche materialmente e si rendeva necessario convocare un concilio generale “imperfetto” per nominare un successore. Qualora invece si fosse ravveduto sarebbe ritornato ipso facto ad essere formalmente e a tutti gli effetti il capo visibile della Chiesa. In qualità di docente di ecclesiologia (ma mosso ovviamente da un personale e sofferto interesse) mi preoccupai di discutere la cosa in classe, infastidito dal fatto che i miei colleghi e i superiori trascurassero di esaminare le argomentazioni di padre Guérard, nel frattempo e proprio a causa di ciò allontanato dall’insegnamento e dal Seminario. La tesi in quanto tale non mi convinse mai, ma vedevo in essa comunque una risposta sbagliata ad un problema vero e trovavo che la qualifica di “sciocchezze” (o peggio…) con cui veniva superficialmente liquidata, celava un non voler prendere sul serio la gravità del problema in quanto tale. Ne nacque una dispensina di quarantotto pagine, che vide la luce come ciclostilato a circolazione interna (22). In essa insistevo sulla nozione di visibilità della Chiesa come conseguenza della sua natura teandrica. Facevo notare come la materialità della funzione papale trascinasse con sé inevitabilmente la materialità di tutto il collegio episcopale e dunque di tutta quanta la compagine ecclesiale. Una Chiesa che è tale solo materialiter è visibile solo in potenza, un concetto contraddittorio, perché visibile (e dunque conoscibile) è solo ciò che è in atto. Il padre non tardò a rispondere sulla rivista Cahiers de Cassiciacum nata in conseguenza e in funzione della tesi, insistendo soprattutto su una delle mie argomentazioni: ammettere che l’ “essere con” di Cristo possa valere solo per un tempo determinato e comportare dunque una assenza per un certo tempo “[…] fa perdere alla promessa divina ogni suo valore. Lo scopo di questa promessa è di generare in noi la certezza dell’indefettibilità di coloro che devono continuare la sua opera di santificazione universale […]. Ma quale certezza si potrebbe mai ricavare dall’assicurazione che il Cristo è con la sua Chiesa per un tempo?”. “Don C[antoni] – così mi rispondeva p. Guérard – si preoccupa del futuro. Teme che l’esegesi E2 [Mt 28,20: sarò con voi fino alla fine di un tempo] privi la Chiesa di una sicurezza che le è vitalmente necessaria, al presente e al futuro. Questa […] considerazione è la più importante. È impossibile però prendere don C[antoni] sul serio in questo punto. In realtà infatti lui fa proprio tranquillamente a meno di quella sicurezza di cui rivendica l’imperiosa necessità. Prete della “Fraternità” (e professore a Ecône), e dunque sospeso a divinis, continua ciò nonostante a celebrare, senza preoccuparsi dell’ “autorità”. Pur riconoscendo che Mons. Wojtyla è il Papa, dato che lo nomina una cum Ecclesia al Te igitur, ha però molta più fiducia in sé stesso che in colui di cui professa che è l’Autorità. Don C[antoni] non se la passa poi tanto male, spiritualmente ben inteso; lui stesso è però la testimonianza vivente di quanto vale il suo argomento” (23). Colpito dal riferimento personale e molto diretto alla mia (contro)testimonianza, replicai al Padre correggendola: uscii infatti dalla Fraternità pochi mesi dopo, per raggiungere – nell’obbedienza – quell’Autorità che mi ero trovato a difendere solo a parole. Ho sempre conservato però nei suoi confronti un sentimento di viva riconoscenza per la radicalità e la serietà della riflessione teologica a cui mi aveva avviato e per la franchezza mai offensiva del tratto usato nei miei confronti.

3. Il caso serio del concilio ecumenico Vaticano II

Credo che un punto emerga con certezza: il “caso serio” del concilio ecumenico Vaticano II, delle riforme che ad esso si richiamano e del postconcilio che ne è immediatamente seguito, che non può assolutamente essere “addomesticato”. Un tratto che accomuna personalità così lontane per formazione e carattere, quali Romano Amerio e Michel Louis Guérard de Lauriers, è la cristallina, direi persino ingenua, serietà e dunque radicalità con cui affrontano lo stesso problema. Tra le varie cose che lamentavo nella già citata lettera a Mons. Lefebvre vi era anche questo atteggiamento: “Intendo parlare di un “clima”, cioè di un insieme di comportamenti, di riflessioni, di idee, di atteggiamenti, di linguaggio, che convergono nel “suggerire” alcune tesi, che non sono (almeno abitualmente e da parte di tutti) apertamente e coscientemente sostenute, ma – per così dire – “navigano” sotto la superficie delle acque. Queste tesi sono in contraddizione con le tesi ufficiali – così come Lei le ha espresse per esempio nei Suoi colloqui con l’ex. Sant’Uffizio – e così, paradossalmente, l’atteggiamento delle persone e il clima del seminario all’interno non riflette con integra fedeltà quello che è affermato all’esterno. Penso che le tesi “sommerse” possano essere così riassunte: […] Il Concilio, come la nuova Messa, è fondamentalmente eretico. Di fatto conduce inevitabilmente e certamente all’eresia. È dunque intrinsecamente perverso. L’accettazione della formula “Il Concilio deve essere letto alla luce della Tradizione” è un atteggiamento puramente tattico” (24). Retro-pensieri che ho riscontrato anche fuori di Ecône e che, purtroppo, continuo ad incontrare. Essi sottintendono – quando ovviamente raggiungono lo stadio riflesso – una logica che non è cristiana, quella della taqiyya islamica, per cui il pio mussulmano, qualora si trovi in gravi difficoltà, può – per difendere la purezza della sua fede – ricorrere anche alla menzogna (25). Una traduzione “cattolica” della taqiyya islamica è la restrictio mentalis, secondo la quale cioè si tace una parte della verità, facendo appello al principio che non sempre è obbligatorio dirla positivamente (mentre mai la si può negare). I moralisti seri – i probati auctores – avevano però già messo le cose in chiaro, spiegando che, se il tacere la verità stravolge il senso di quello che diciamo e induce in grave errore, non è più omissione di verità ma commissione di falsità… Distinguevano infatti la restrictio late mentalis a volte legittima, dalla restrictio stricte mentalis che è menzogna pura e semplice e quindi sempre peccaminosa. Se uno per es. dice: accetto con rispetto e venerazione il santo (il sacrosanto… qui gli aggettivi si possono anche sprecare) concilio Vaticano II, sottintendendo tacitamente nella misura in cui non è eretico, non soltanto si astiene dal dire tutta la verità, ma commette una ipocrita e vergognosa menzogna. Faccio notare che si tratta di un semplice rovesciamento dell’ermeneutica messa in campo dai “progressisti”, per cui tutto ciò che vi è di ripetitivo del magistero precedente nel Vaticano II deve essere inteso come un “atto dovuto” al fine di far passare il nuovo che solo conta.

Non vorrei essere frainteso su questo punto: il “clima” a Ecône era caratterizzato da una forte tensione spirituale. Questa situazione però rendeva ancora più stridenti e dilaceranti le tensioni a cui faccio riferimento: non c’era ovviamente una esplicita volontà di mentire o di nascondere, i problemi irrisolti e non apertamente affrontati prendevano però quasi fatalmente la via di una doppia coscienza.

Nel tutto “Concilio – riforme – postconcilio” ci sono tante cose che devono essere accuratamente distinte. Un conto è il Concilio e un conto sono le riforme, anche se le riforme sono state condotte sotto la responsabilità della suprema autorità della Chiesa. Un conto sono le riforme e un conto è il modo con cui esse sono state applicate e vissute. Un conto sono il Concilio e le riforme e un conto è il modo con cui l’uno e l’altro – e la connessione che li lega – sono stati interpretati nel clima teologico postconciliare. Non ho la pretesa qui di sbrogliare la matassa, intendo però richiamare l’attenzione sul fatto che si tratta comunque di cose diverse. Al centro sta il concilio ecumenico Vaticano II. Non l’unico concilio della Chiesa cattolica come una certa letteratura ha indotto a credere, ma l’ultimo di una abbastanza lunga lista: il “ventunesimo” (26). Un elenco che – lo sappiamo bene – non ha nessun carattere di ufficialità, ma è soltanto la lista recepta, risalente al Bellarmino, delle assisi di vescovi che hanno titolo per essere considerate “ecumeniche”, cioè universali. Non esiste qualcosa di paragonabile ad un “canone” dei concili ecumenici (27). Questo significa che il numero preciso dei concili ecumenici nella storia della Chiesa è ancora oggetto di ricerca. Ora, l’ultimo concilio è quello che, incontestabilmente, dal punto di vista strettamente formale, vanta i titolo più chiari e cospicui in tal senso. Se su altri concili generali possono sussistere fondati dubbi, questi non riguardano certamente il Vaticano II.

Il rifiuto di un tale concilio dunque è tale da creare problemi ecclesiologici di primaria rilevanza. È puramente e semplicemente una questione di fede. In una tale querelle “ne va” della fede.

4. Scappatoie e soluzioni illusorie

I tentativi classici di “addomesticamento” del problema sono – a mio avviso – due: è un concilio ecumenico, non lo si può contestare, ma è solo un concilio “pastorale”. Pastorale e non dogmatico: lo si può dunque tranquillamente trascurare. L’altro tentativo punta direttamente sul carisma dell’infallibilità: è un concilio, ma non è coperto dall’infallibilità, perché non ha voluto portare definizioni dogmatiche.

Vediamole singolarmente:

Concilio pastorale e non dogmatico. Tipica espressione del linguaggio “circiteristico” e “ipocoristico” che spesso accomuna fautori del “Konzils-Ungeist – cattivo spirito del Concilio” (28) e anticonciliari. Entrambi tranquillizzati dalla (troppo) facile categorizzazione nel loro sforzo di enjamber i testi del Concilio Ecumenico Vaticano II. Gli uni per raggiungere la “Tradizione”, gli altri per coltivare e propagare l’ “effervescenza” dell’ (anti)Spirito del Concilio.

È certamente vero che il magistero stesso – in diversi documenti (29) – ha affermato il carattere “pastorale” del Concilio. Bisogna però mettere a fuoco correttamente il significato di questa espressione. Credo che uno degli aspetti più caratteristici del “postconciliarismo” del concilio di Trento, sia stato proprio quello di insistere in modo unilaterale sui contenuti dottrinali della fede, al fine di contrapporsi più efficacemente alla riduzione della fede a “fede fiduciale” operata da Lutero, dove il credere si riduce al “mio” credere (30). Se in Lutero – e soprattutto nel protestantesimo sociologico che a lui si richiama – il modo della fede prende il sopravvento sui suoi contenuti, la fides qua sulla fides quae, nella reazione post-tridentina i contenuti vengono spesso ad assorbire il tutto della fede. Al limite, una conoscenza mnemonica di formule sarebbe in grado di assicurare da sola la sua sussistenza… (31) Affermare a più riprese che il concilio ecumenico Vaticano II intende essere un concilio pastorale non significa altro che questo: nel proporre la fede si vuole fare attenzione non soltanto ai contenuti, ma anche al modo della sua esposizione, guardandosi bene dal separare modo e contenuto, perché è proprio contro questa separazione che si vuole reagire. Distinguere è certamente legittimo e per tanti versi doveroso: ma sempre si deve “distinguere per unire”; occorre anzi conservare viva la consapevolezza che già a monte si “distingue nell’unito”. Non ha senso dunque contrapporre pastorale a dottrinale ed ancor meno intendere la sottolineatura del “pastorale” come una volontà di disimpegno (32). Dire che il Concilio ha fallito nella sua pastoralità perché ha omesso di considerare qualcosa di assolutamente fondamentale: il fenomeno mondiale del comunismo, fenomeno aggressivo e minaccioso, le cui dimensioni lo rendevano propriamente ineludibile, è un giudizio che si riferisce a un singolo (per quanto importantissimo) fatto omissivo (33); ma la denuncia di questa omissione non può essere trasformata ipso facto in un giudizio globale su tutti i documenti del Concilio, molti dei quali evidentemente trattano temi di altra natura. La non-condanna del comunismo, anche se già ripetutamente condannato dal Magistero precedente, poteva essere interpretato come una sua “riabilitazione”, il che puntualmente si produsse. E questo non era ovviamente un effetto pastoralmente riuscito. Il carattere pastorale riguardava però – come abbiamo visto – il modo in cui la dottrina era presentata e non l’integralità dei temi trattati. Una omissione dunque non autorizza affatto a sminuire la portata dottrinale di ciò che è positivamente affermato.

Ben presto infatti – e qui veniamo al secondo “addomesticamento” – c’è stato chi ha interpretato il pastorale e non dogmatico come una formale rinuncia all’infallibilità. Soprattutto in conseguenza della dichiarata intenzione del Magistero di non voler “pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie […] pur sempre conservando la autorità e la virtù sue proprie” (34). Qui devo anch’io fare la mia retractatio. Sia chiaro: non ho mai pensato seriamente ad una tale fantomatica “rinuncia”, scrivevo infatti nel 1981: “Si deve concludere che il Magistero ha, per così dire, respinto da sé l’infallibilità all’occasione dell’ultimo Concilio? No, avrebbe dovuto rinunciare ad essere magistero autentico, non ha voluto semplicemente usare del modo di esercizio straordinario del suo proprio potere di insegnare, che, solo, lo avrebbe garantito dell’infallibilità di ogni pronunciamento in sé stesso” (35). Tuttavia allora – sotto l’influsso di Journet – pensavo che il potere di magistero si risolvesse tutto nella potestas iurisdictionis e che dunque l’assistenza divina si calibrasse in funzione dell’impegno più o meno accentuato di questo potere e quindi dell’equivalente obbligo di aderire proporzionatamente alle sue espressioni normative. Il padre Guérard aveva promesso una confutazione della mia teologia dell’infallibilità nel numero seguente dei Cahiers (36). Purtroppo tale numero non ci fu mai: peccato, perché penso che mi avrebbe convinto (37). Il munus profetico infatti è ben distinto dal munus regale. Se il magistero propone autenticamente una dottrina come divinamente rivelata, anche se non aggiunge a questa proposizione nessun carattere coercitivo, per cui chi la negasse risulterebbe escluso dalla comunione della Chiesa in virtù del potere regale dell’autorità, tale dottrina è certamente vera. Chi la rifiutasse con cognizione di causa – con pertinacia – si autoescluderebbe dalla società dei credenti.

Si tratta di un chiaro insegnamento del concilio ecumenico Vaticano I: “[…] con fede divina e cattolica, si deve credere tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che la chiesa propone da credere come divinamente rivelato sia con un giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario e universale” (38). Un punto di fede troppo dimenticato, mentre “Essenziale […] è conservare il principio che un insegnamento può essere proposto infallibilmente dal Magistero ordinario e universale, anche con un atto che non ha la forma solenne di una definizione” (39). Se tutti i dottori della fede, riuniti cum Petro et sub Petro, con unanimità morale, insegnano una dottrina come rivelata da Dio, questa dottrina dovrà essere accolta dal fedele non in virtù di un obbligo canonico, a cui corrisponde una data pena, ma in virtù del proporsi della Veritas prima in dicendo che costituisce il motivo formale di quella stessa fede che lo fa credente. L’obbligo giuridico può esserci o non esserci. Se c’è contribuisce certamente a rendere più evidente che il punto in questione è irreformabile e dunque irrinunciabile (sempre per il credente), ma non cambia lo statuto gnoseologico di ciò che la Chiesa in questo caso propone. Ciò non significa che tutto quello che è insegnato nei documenti del concilio ecumenico Vaticano II sia infallibile, significa però che da esso non si può escludere a priori l’infallibilità appoggiandosi sul fatto che si tratta “solo” di magistero ordinario di carattere pastorale. È infatti dottrina comune che nei pronunciamenti del Magistero, trattandosi di una autorità deontica e non epistemica (40), ciò che ultimamente conta non sono gli argomenti a supporto, la descrizione e l’interpretazione dei fatti, gli esempi a sostegno, ma solo ciò che intenzionalmente ed ultimamente il Magistero insegna. I giudizi ultimativi possono essere presenti con sufficiente chiarezza nel testo stesso, oppure essere il necessario risultato di un’operazione di intelligente interpretazione: essi soli costituiscono l’insegnamento autentico in quanto tale.

È dunque un grave errore, condannato dalla Chiesa, ridurre l’infallibilità al magistero straordinario. Sarebbe anche qualcosa di ridicolo: negli ultimi cento anni, per es., abbiamo, con assoluta certezza (cioè con un consenso sufficientemente ampio di probati auctores), una sola definizione del magistero straordinario. Si tratta della famosa definizione del dogma dell’Assunzione in cielo di Maria SS. in anima e corpo, contenuta nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus del 1° novembre 1950. Se così fosse non avrebbe poi tutti i torti Brian Tierney ad ironizzare sulla teologia neoscolastica dell’infallibilità con il suo noto “assioma”: “Ogni pronunciamento infallibile è certamente vero, ma nessun pronunciamento è certamente infallibile…” (41). Ma questo errore è sicuramente meno grave di quell’altro che riduce il motivo dell’assenso al magistero alla sua infallibilità. Quando i due errori si sommano, ed è stato uno slittamento massicciamente presente nella teologia contemporanea, che ha coinvolto tradizionalisti e progressisti, si arriva a togliere al magistero ogni reale incidenza nella vita di fede della Chiesa e nella teologia. Se il magistero si riduce a darmi delle garanzie saltuarie, a singhiozzo (con ritmi di cento anni…), allora non si vede proprio che rapporto possa avere con quella fede di cui “il giusto vive” e di cui deve vivere quotidianamente. La critica antiinfallibilistica recente (Küng, Tierney, Hasler) è venuta come a portare a compimento un processo, a dare il colpo di grazia ad una costruzione che, poggiando su quei due colossali equivoci, era già ampiamente fatiscente.

Anche se non possiamo attribuire ad ogni e singolo pronunciamento del magistero ordinario lo stesso tipo di autorità di una definizione (questo d’altra parte vanificherebbe la stessa differenza fra straordinario e ordinario), tuttavia appare ovvio che, quando un insegnamento è di tutta la Chiesa non possiamo pensare che, “globalmente preso” non contenga la verità di Gesù. Così come quando un insegnamento – uno stesso insegnamento – si protrae a lungo nella Chiesa, viene ribadito e confermato spesso, senza interruzioni, nel corso del tempo, come espressione della Rivelazione divina o ad essa strettamente connesso, non si può più pensare che non provenga effettivamente da Dio, senza ipso facto smettere di considerare l’insegnamento autentico, quello degli “inviati”, come la regola del proprio credere, per sostituirvi il proprio pensiero personale. Pensare una cosa del genere sarebbe vanificare tutta l’economia della trasmissione della rivelazione voluta da Dio: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo” (42).

Chi non si accontenta di questi fragili “addomesticamenti” può essere tentato dalle prospettive sedevacantiste o sedeprivazioniste (tale è il nome più appropriato per la tesi del padre Guérard). In effetti la discussione teologica sul “Papa eretico” è assolutamente tradizionale. Gli ecclesiologi sono sempre stati consapevoli che non è possibile escludere a priori che il Papa, come persona privata, possa cadere in eresia e sul punto esistono teorie teologiche varie e complesse (43). Non bisogna però dimenticare che il nostro Ernstfall, il nostro caso serio, è veramente “serio”. Trattandosi di un concilio che ha raccolto l’unanimità quasi numerica dei vescovi cattolici, con una adesione totale ai documenti promulgati (anche Mons. Marcel Lefebvre e Mons. Antonio de Castro Mayer, i due vescovi che sono all’origine dello scisma di Ecône, hanno firmato tutti i documenti, senza eccezioni), non si tratterebbe più soltanto della, già non proprio “inoffensiva”, quæstio de papa hæretico, ma di una, ben altrimenti inquietante, quæstio de magisterio hæretico… Anche la discussione sul papa eretico non ha però portato ad una soluzione comunemente accettata, né sull’effettiva possibilità del caso, al di là della sua astratta possibilità teorica, né su quello che la Chiesa in tale eventualità potrebbe e dovrebbe fare… Di fatto il sedevacantismo si è ben presto frantumato in una miriade di gruppi e gli antipapi sono attualmente una decina, se non di più… Billot concludeva la questione con un tratto di risolutivo buon senso: “[…] l’adesione della Chiesa universale sarà sempre per sé sola il segno infallibile della legittimità della persona del Pontefice e dunque anche dell’esistenza di tutte le condizioni che questa stessa legittimità richiede” (44).

Anche a proposito del pusillus grex si impongono considerazioni analoghe. Si dovrebbe piuttosto parlare di pusilli greges… Se un pusillus grex ci sarà, esso sarà tutto stretto attorno al Papa, unica garanzia visibile di continuità con il Pastore supremo (45).

Sedevacantismo, sedeprivazionismo. La pseudo soluzione si perde nelle secche della nuova religiosità, facendosi – giustamente – voce dell’enciclopedia del CESNUR (46) e diventando espressione del relativismo postmoderno.

5. L’ermeneutica della riforma nella continuità

Criticare spietatamente le soluzioni sbagliate non vuol dire negare o sminuire il fatto doloroso di una crisi terribile che ha travagliato la Chiesa nel postconcilio, così come dire che il colpevole indicato non è il vero colpevole non significa mancare di rispetto al lutto dei parenti della vittima… Assolvere un imputato per non aver commesso il fatto, non equivale a negare il fatto, vuol dire solo rifiutarsi di aggravarlo aggiungendovi un’altra ingiustizia.

Il dramma del postconcilio è sotto gli occhi di tutti e il libro di Romano Amerio Iota unum, che stiamo commentando, ne è una vibrante testimonianza.

Benedetto XVI è però intervenuto sull’argomento con la sua abituale lucidità e – ovviamente – con una autorevolezza ben superiore alla nostra:

“L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l’altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Non vogliamo applicare proprio questa descrizione drammatica alla situazione del dopo-Concilio, ma qualcosa tuttavia di quanto avvenuto vi si riflette. Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all’amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola” (47).

In un simpatico colloquio con un gruppo di sacerdoti ad Auronzo di Cadore, il Papa ha affrontato di nuovo l’argomento. Un sacerdote della “generazione del Concilio”, di quella generazione che era in seminario nel 1962-65 o negli anni immediatamente seguenti e che ha vissuto quei momenti con entusiasmo, ma poi anche con delusione, gli ha chiesto: perché le cose sono andate così?

“Anch’io ho vissuto i tempi del Concilio, essendo nella Basilica di San Pietro con grande entusiasmo e vedendo come si aprivano nuove porte e pareva realmente essere la nuova Pentecoste, dove la Chiesa poteva nuovamente convincere l’umanità, dopo l’allontanamento del mondo dalla Chiesa nell’Ottocento e nel Novecento, sembrava si rincontrassero di nuovo Chiesa e mondo e che rinascesse nuovamente un mondo cristiano ed una Chiesa del mondo e veramente aperta al mondo. Abbiamo tanto sperato, ma le cose in realtà si sono rivelate più difficili. Tuttavia rimane la grande eredità del Concilio, che ha aperto una strada nuova, è sempre una magna charta del cammino della Chiesa, molto essenziale e fondamentale. Ma perché è andata così? Prima vorrei forse cominciare con un’osservazione storica. I tempi di un post-Concilio sono quasi sempre molto difficili. Dopo il grande Concilio di Nicea – che per noi è realmente il fondamento della nostra fede, di fatto noi confessiamo la fede formulata a Nicea – non è nata una situazione di riconciliazione e di unità come aveva sperato Costantino, promotore di tale grande Concilio, ma una situazione realmente caotica di lite di tutti contro tutti. San Basilio nel suo libro sullo Spirito Santo paragona la situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce l’altro, ma tutti sono contro tutti. Era realmente una situazione di caos totale: così descrive con colori forti il dramma del dopo Concilio, del dopo Nicea, San Basilio. Poi 50 anni dopo, per il Concilio primo di Costantinopoli, l’imperatore invita San Gregorio Nazianzeno a partecipare al Concilio e San Gregorio Nazianzeno risponde: No, non vengo, perché io conosco queste cose, so che da tutti i Concili nasce solo confusione e battaglia, quindi non vengo. E non è andato. Quindi non è adesso, in retrospettiva, una sorpresa così grande come era nel primo momento per noi tutti digerire il Concilio, questo grande messaggio. Immetterlo nella vita della Chiesa, riceverlo, così che diventi vita della Chiesa, assimilarlo nelle diverse realtà della Chiesa, è una sofferenza, e solo nella sofferenza si realizza anche la crescita. Crescere è sempre anche soffrire, perché è uscire da uno stato e passare ad un altro. E nel concreto del dopo-Concilio dobbiamo constatare che vi sono due grandi cesure storiche. Nel dopo-Concilio, la cesura del ’68, l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell’Occidente. […]. E poi la seconda cesura nell’89. Il crollo dei regimi comunisti, ma la risposta non fu il ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare, non fu la riscoperta che proprio la Chiesa con il Concilio autentico aveva dato la risposta. La risposta fu invece lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità” (48).

Che, per tante ragioni, di cui la più importante appare la coincidenza temporale con la crisi del ’68 e con la deriva relativistica della postmodernità, che rappresentano quasi l’esito compiuto di un ben più antico percorso critico dell’Occidente, il postconcilio sia stato un momento drammatico e difficile della vita della Chiesa è ben comprensibile. In esso molte voci si sono alternate e incrociate – “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti” –, accomunate dall’incapacità di risolvere le tante tensioni emerse all’interno dell’insegnamento stesso della Chiesa. Che però il compito del teologo sia proprio quello di risolvere i problemi e non quello di esasperarli o di circuirli abilmente ripetendo stancamente il già detto, non è sempre stato tenuto nella dovuta considerazione.

Le categorie interpretative suggerite dal Papa non fanno riferimento al consueto schema ternario: conservatori – progressisti – moderati, di sapore troppo ideologico, ma si appoggiano su un modello binario squisitamente teologico: due ermeneutiche, quella della rottura e quella della riforma nella continuità.

Molti sono i teologi che hanno coraggiosamente imboccato quest’ultimo indirizzo nell’affrontare i punti controversi, riprendendo l’antico cammino che la crisi nominalista aveva compromesso (49), e sui punti più delicati della questione (ecumenismo, riforma liturgica, libertà religiosa) il cantiere è avviato, con risultati in molti casi decisivi (50).

Credo che se sant’Ignazio oggi potesse riscrivere le sue Regole per sentire nella Chiesa (51), le formulerebbe più o meno così: “bisogna lodare il concilio di Trento e il concilio Vaticano II, lodare l’ecumenismo e il papato, lodare il dialogo interreligioso e la missione, lodare il Vetus e il Novus Ordo Missæ…”. Ripeterebbe però, penso, senza cambiamenti: “Deposto ogni giudizio proprio, dobbiamo avere sempre l’animo disposto e pronto ad obbedire alla vera sposa di Cristo e santa madre nostra, che è la Chiesa ortodossa, cattolica e gerarchica” (52) e “[…] lo Spirito da cui siamo governati e guidati per la nostra salvezza è lo stesso identico Spirito di Gesù e della Chiesa ortodossa sua sposa. Né è diverso il Dio che una volta ha dato i dieci comandamenti da quello che ora istruisce e regge la Chiesa gerarchica” (53). In quell’ “e sta, ora come allora, l’autentico spirito cattolico. Difficile, come sono difficili le cose belle (54), perché è più facile camminare per i sentieri superficiali della dialettica e della frammentazione (a cui il relativismo ambientale ci invita con voce suadente…), piuttosto che seguire l’aspro percorso dell’approfondimento e dell’unità. Così come sarebbe stato più facile al monaco Graziano compilare un semplice raccolta di leggi, piuttosto che perseguire, come ha fatto con grande e geniale fatica, una Concordia discordantium canonum (1140 c.). Certamente non sarebbe però diventato il padre del Diritto Canonico. Difficile, ma bello e quindi vero, perché verum et pulchrum convertuntur.


Note:
(1) Romano Amerio, Iota unum. Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Riccardo Ricciardi Editore, Milano – Napoli 1986, 2a ed., p. 591.
(2) A conferma del carattere di testimonianza di Iota unum, sta il suo carattere quasi diaristico, che, nonostante l’acribia scientifica dell’autore, si affida all’esame dei testi pontifici così come appaiono sul quotidiano vaticano. Diversamente, per una esame critico, si sarebbe preteso, lo stesso Amerio avrebbe certamente preteso, gli Acta Apostolicæ Sedis o gli ormai comunemente accettati Enchiridion Vaticanum e le collezioni di insegnamenti dei papi dell’editrice vaticana. Una considerazione analoga tocca i documenti del Vaticano II: Amerio non utilizza gli Acta Synodalia, di cui pure avrebbe potuto disporre, anche se non completamente, durante la stesura del suo libro.
(3) Ibid., pp. 93-94.
(4) Ibid., p. 34.
(5) Ibid., p. 86.
(6) Ibid., p. 150.
(7) Ibid., p. 464.
(8) Ibid., p. 378.
(9) Ibid., p. 593
(10) Ibid., p. 331.
(11) Ibid., pp. 632-634.
(12) Ibid., pp. 634-636.
(13) Ibid., p. 634.
(14) Ludovico Billot, S.J., Tractatus de Ecclesia Christi sive continuatio thelogiæ de Verbo Incarnato, 2 voll., Università Gregoriana, Roma 1927-29. Con tutti i suoi limiti dovuti ad una visione troppo unilateralmente giuridica, questo fu, senz’ombra di dubbio, il testo su di me allora più influente.
(15) Joachim Salaverri, S.J., De Ecclesia Christi, in: AA.VV., Sacrae Theologiae Summa, vol I, BAC, Madrid 1962, pp. 487-976.
(16) Ai libri sopra citati si aggiunsero ben presto: Dom Adrien Gréa, De l’Église et de sa divine constitution, 2 voll., Maison de la Bonne Presse, Paris 1907; Joseph De Guibert, S.J., De Christi Ecclesia, Università Gregoriana, Roma 1928; Timotheus Zapelena, S.J., De Ecclesia Christi, 2 voll., Università Gregoriana, Roma 1954-55; Sebastiano Tromp, S.J., Corpus Christi quod est Ecclesia, 4 voll., Università Gregoriana, Roma 1946-72; Charles Journet, L’Église du Verbe incarné, 3 voll., Desclée de Brouwer, Paris 1943-69; Michael Schmaus, Die Lehre von der Kirche (vol. III/1 della Katholische Dogmatik), Max Hueber, München 1958; Hans Küng, Strutture della Chiesa, trad. it., Borla, Torino 1965; Idem, Die Kirche, Herder, Freiburg in B. 1967; AA.VV., Vatican II . Constitution dogmatique sur l’Église: Lumen gentium , 3 voll., Éditions du Cerf, Paris 1965-1966; Yves Congar, O.P., L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Édition du Cerf, Paris 1970. Il tutto si condensò in alcune dispense (in uno stile molto denso e sintentico) di poco più di un centinaio di pagine complessive. Un lavoro oggi impresentabile, che costituì però allora, per i miei studenti e soprattutto per me, il travagliato e continuamente rivisitato cantiere di una riflessione sofferta e decisamente gravida di conseguenze per il nostro futuro.
(17) “On obéit à l’autorité non pas en tant que représentante de Dieu, envoyée par Dieu, mais en tant que nécessaire pour l’obtention de certains fins. L’autorité a un bût purement pratique. La dernière instance n’est pas l’autorité extrinsèque mais Dieu, c. à. d. son propre jugement. A la place du “sola Scriptura” il y a simplement le “sola Traditio”. Ces deux règles sont matériellement différentes mais formellement identiques dans la raison d’autorités mortes et non vivantes”. Conservo questa lettera, assieme ad altri documenti che spiegano le ragioni per cui ho abbandonato la Fraternità nell’agosto del 1981.
(18) Già all’interno del canone biblico: cfr. per es. Ernst Käsemann, Paulus und der Frühkatholizismus [1962], in: Exegetische Versuche und Besinnungen, vol. II, Vandenhoek & Ruprecht, Göttingen 1964, pp. 239-252.
(19) “[…] questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità” (Pio XII, lettera enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, n. 11). Ciò che vale per il teologo, vale – a fortiori – per il semplice fedele. Non che il Magistero, in quanto “norma prossima”, rappresenti la totalità conclusa di tutti i contenuti della fede (questo darebbe vita alla famigerata “teologia del Magistero”), ma certamente rappresenta il criterio alla luce del quale debbono essere interpretati sia la Scrittura che la molteplicità delle testimonianze della Tradizione, a cui appartengono anche i documenti del Magistero del passato. Contrapporre Tradizione e Magistero vivente significa compromettere sul nascere qualsiasi autentica interpretazione teologica.
(20) ” La fede cristiana […] non è una “religione del Libro” ” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 108).
(21) M.-L. Guérard des Lauriers, O.P., Dimensions de la foi, 2 voll., Éditions du Cerf, Paris 1952.
(22) Reflexions à propos d’une thèse récente sur la situation actuelle de l’Église, Ecône, pro manuscripto, s.d. (ma 1981). Il testo circolò anonimo, il che indispettì padre Guérard (cfr. Cahiers de Cassiciacum. Études de Sciences Religieuses, 6 [1981], p. 110. Non era mia intenzione nascondermi: l’identità dell’autore era d’altronde a tutti nota.
(23) Cahiers de Cassiciacum, 6 (1981), p. 111.
(24) “Je parle d’un “état d’esprit”, c’est à dire d’un ensemble de comportements, de réflexions, d’idées, d’attitudes, de langages, qui convergent à “suggérer” certaines thèses, qui ne sont pas (au moins d’habitude et par tous) affirmées ouvertement et consciemment, mais qui “naviguent” – pour ainsi dire – sous la surface des eaux. Ces thèses se trouvent être en contradiction avec les thèses officielles – telles que Vous les avez exprimées par ex. dans Vos colloques avec l’ex St. Office – et ainsi, paradoxalement, l’attitude des gens et l’état d’esprit du séminaire à l’intérieur ne réfléchit pas avec entière fidélité ce qui est affirmé au dehors. Je pense que les thèses “submergées” peuvent être ainsi résumées: […]. Le Concile est, comme la nouvelle Messe, fondamentalement hérétique. En fait il conduit inévitablement et certainement à l’hérésie. Il est donc intrinsèquement pervers. L’acceptation de la formule “Le Concile doit être lu à la lumière de la Tradition” est une attitude purement tactique”.
(25) Cfr. R. Strothmann-[Moktar Djebli], voce Takiyya, in: Encyclopaedia of Islam CD-ROM Edition v. 1.0, Koninklijke Brill NV, Leiden 1999.
(26) Cfr. Beato Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962: Enchiridion Vaticanum, vol. I, n. 52*.
(27) Yves M.-J. Congar, O.P., I concili nella vita della Chiesa [1959], in: Santa Chiesa. Saggi ecclesiologici, trad. it., Morcelliana, Brescia 1967, pp. 283-303.
(28) L’espressione si trova nella famosa lunga intervista che il card. Ratzinger rilasciò a Vittorio Messori nell’agosto del 1984 a Bressanone e da allora diventata giustamente famosa. Cfr. Vittorio Messori – Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, p. 33.
(29) Uno per tutti: “[…] si dovrà […] adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale” (beato Giovanni XXIII, Discorso di apertura del concilio ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962: Enchiridion Vaticanum, vol. I, n. 55*). Proprio a proposito di questo importantissimo discorso, giova considerare attentamente due cose: 1) il Papa parla dell’indole pastorale del “magistero” in quanto tale, per cui la pastoralità del Vaticano II appare come l’accentuazione o la sottolineatura di qualcosa che appartiene costitutivamente alla funzione di insegnamento della Chiesa; 2) il carattere pastorale non annulla assolutamente l’intento dottrinale: “Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace” (Ibid., n. 45*); “Il ventunesimo Concilio Ecumenico […] vuole trasmettere integra, non sminuita, non distorta, la dottrina cattolica” (Ibid., n. 52*).
(30) Sul punto rimane un classico: Paul Hacker, Das ich im Glauben bei Martin Luther, Styria, Graz 1966.
(31) Cfr. Franz Xaver Arnold, Glaubensverkündigung und Glaubensgemeinschaft. Beiträge zur Theologie der Verkündigung, der Pfarrei und des Leientums, Patmos, Düsseldorf 1955, pp. 9-33 (soprattutto: 13-21).
(32) Cfr. Daniel Bourgeois, La pastorale della Chiesa, trad. it., Jaca Book, Milano 2001, pp. 45-47.200-203.
(33) Cfr. per es. Walter Brandmüller, Il Concilio e i Concili. Il Vaticano II alla luce della storia dei Concili, in: Cristianità 33 (332, 2005), p. 6.
(34) Paolo VI,
Discorso in occasione dell’ultima sessione del concilio Vaticano II, 7 dicembre 1965: Enchiridion Vaticanum, vol. I, n. 459*; “Vi è chi si domanda quale sia l’autorità, la qualificazione teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l’infallibilità del magistero ecclesiastico. E la risposta è nota per chi ricorda la dichiarazione conciliare del 6 marzo 1964, ripetuta il 16 novembre 1964: dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti” (Idem, Udienza generale del mercoledì 12 gennaio 1966, corsivi miei).
(35) Réflexions…, cit., p. 32.
(36) Cfr. Cahiers, cit., p. 110.
(37) Come, sul punto, mi ha convinto un suo fedele ed intelligente discepolo, mio compagno di corso ad Ecône, già da tempo anche lui rientrato nella piena comunione della Chiesa cattolica: Abbé Bernard Lucien, Les degrés d’autorité du Magistère. La question de l’infaillibilité. Doctrine catholique. Développements récents. Débats actuels, La Nef, Foucherolles 2007, pp. 158-190.
(38) ” Porro fide divina et catholica ea omnia credenda sunt, quae in verbo Dei scripto vel tradito continentur, et ab ecclesia sive solemni iudicio sive ordinario et universali magisterio tamquam divinitus revelata credenda proponuntur” (Concilio ecumenico Vaticano I, Sessio III, Constitutio dogmatica Dei Filius de fide catholica, Caput III. De fide: DS 3011 [D 1792]; Conciliorum Œcumenicorum Decreta, a cura di Giuseppe Alberigo – Giuseppe L. Dossetti – Perikles-P. Joannou – Claudio Leonardi – Paolo Prodi, consulenza di Hubert Jedin, ediz. bilingue, Edizioni Dehoniane, Bologna 1991, p. 807).
(39) Mons. Tarcisio Bertone, A proposito della recezione dei Documenti del Magistero e del dissenso pubblico, in: L’Osservatore Romano, venerdì 20 dicembre 1996.
(40) Cfr. Joseph Maria
Bochenski, O.P., Was ist Autorität? Einführung in die Logik der Autorität, Herder, Freiburg i. B. 1974.
(41)
Brian Tierney, Ursprünge der päpstlichen Unfehlbarkeit, in: Hans Küng (a c. di), Fehlbar? Eine Bilanz, Benzinger, Zürich-Einsiedeln-Köln 1973, p. 124.
(42) Cfr. Pietro Cantoni, Il magistero contestato, Cristianità 17 (174, 1989), pp. 7-14; Idem, La vocazione del teologo, Cristianità 18 (186, 1990), pp. 9-14; per il ruolo strutturale del magistero nell’atto di fede, cfr. Idem, Sulla posizione del magistero e della teologia nella struttura dell’atto di fede secondo S. Tommaso d’Aquino, in Problemi teologici alla luce dell’Aquinate (Atti del IX Congresso Tomistico Internazionale, vol. V), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1991, pp. 91-103.
(43) Cfr. Hans Küng, Strutture della Chiesa, trad. it., Borla, Torino 1965, pp. 238-254.
(44) L. Billot, Op. cit., vol. I, p. 635.
(45) ” Summus […] Pontifex […] locum Christi tenet in terris; unde etsi ipse solus esset, et omnia essent destructa in Ecclesia, reparare posset universa […] ” (San Bonaventura, Quaestiones disputatae de perfectione evangelica, q. 4, a. 3, ad 15: Ed. Quaracchi, vol. V, p. 198).
(46) Cesnur – Centro Studi sulle Nuove Religioni, Le religioni in Italia, Massimo Introvigne e Pierluigi Zoccatelli (sotto la direzione di), Elledici, Leumann (TO) 2006, pp. 51-57.
(47) Benedetto XVI, Ai cardinali, agli arcivescovi, ai vescovi e ai prelati della Curia romana per la presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005, in: Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, 2005 [aprile-dicembre], Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1023-1025.
(48) Benedetto XVI, Incontro con il clero delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso, Auronzo di Cadore, 24 luglio 2007.
(49) Cfr. Charles H. Lohr, Modelle für die Überlieferung theologischer Doktrin: Von Thomas von Aquin bis Melchior Cano, in: Werner Löser – Karl Lehmann – Matthias Lutz-Bachmann (edd.), Dogmengeschichte und katholische Theologie, Echter, Würzburg 1985, pp. 148-166. Lohr parla di una “Konkordanz-Methode” (p. 157) e osserva che “La svalutazione operata da Ockham dell’autorità patristica e papale significa il rifiuto di questo metodo e ultimamente l’abbandono della fede a questa intima unità della Tradizione cattolica” (Ibidem).
(50) Cfr. a titolo soltanto indicativo: Leo Scheffczyk, La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II, presentazione di Joseph Ratzinger, trad. it. Jaca Book, Milano 1998; Dominique-Marie de Saint-Laumer, Le droit à la liberté religieuse et la liberté de conscience, Société Saint-Thomas-d’Aquin, Chémeré-le-Roi 1987; Brian W. Harrison, Le développement de la doctrine catholique sur la liberté religieuse, Un précédent pour un changement vis-à-vis de la contraception?, Société Saint-Thomas-d’Aquin/Dominique Martin Morin, Chémeré-le-Roi/Bouère 1988; Fernando Ocáriz, Sulla libertà religiosa. Continuità del Vaticano II con il Magistero precedente, in: Annales Theologici 3 (1, 1989), 71-97; frère Basile (Rémi) Valuet, O.S.B., La liberté religieuse & la tradition catholique. Un cas de développement doctrinal homogène dans le magistère authentique, 6 voll., Abbaye Sainte-Madeleine, Le Barroux 1998 (uno studio di complessive 3000 pp.); Idem, Le droit à la liberté religieuse dans la Tradition de l’Église, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2005; Giovanni Cantoni e Massimo Introvigne, Libertà religiosa, “sette” e “diritto di persecuzione”. Con appendici, Cristianità, Piacenza 1996; Alexandra von Teuffenbach, Die Bedeutung des subsistit in (LG 8). Zum Selbstverständnis der katholischen Kirche, Dissertatio ad doctoratum in facultas theologiæ Pontificiæ Universitatis Gregorianæ, Herbert Utz Verlag Wissenschaft, München 2002; Pietro Cantoni, Der Novus Ordo Missæ und der katholische Glaube, in: Una Voce Korrespondenz 14 (6, 1984), pp. 340-354; Idem, Novus Ordo Missæ e fede cattolica, Quadrivium, Genova 1988.
(51) Esercizi Spirituali, nn. 352-370.
(52) Ibid., n. 353.
(53) Ibid., n. 365.
(54) “Difficili sono le cose belle [Chalepà ta chalà]”, massima attribuita a Solone e ripetuta più volte da Platone. Conclude il dialogo Ippia Maggiore, sul bello: 304 E.

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