Persona e relazionalità: aspetti filosofici e teologici

Don Pietro Cantoni
Studio Teologico Interdiocesano “Mons. Enrico Bartoletti
Seminario straordinario 2-3 dicembre 2004

 

Lo status quaestionis

Il punto di partenza è la ricerca sul pensiero di san Tommaso d’Aquino (uno dei risultati più positivi della Æterni Patris di Leone XIII) che ha visto convergere gli studiosi nell’acquisizione di questo risultato: la comprensione dell’essere come atto, come atto intensivo e fondante, il cui valore esistenziale non si confonde con quello scialbo e meramente estensionale di “fatto di esistere”, costituisce il nodo speculativo decisivo del pensiero di san Tommaso, tale da determinarne la qualità metafisica della sua filosofia. Su questo punto si dà ormai un sostanziale accordo, anche se le interpretazioni rimangono discordanti.

L’acquisizione ha però avuto per lo più un deciso valore teoretico, tale da determinare ogni futuro indirizzo della filosofia cristiana.

L’atto di essere è perfezione. Atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione. Cito qui un testo fra tanti, forse il più significativo:

“Tra tutte le cose l’essere è la più perfetta. Ciò risulta dal fatto che l’atto è sempre più perfetto della potenza. Ora qualsiasi forma particolare si trova in atto soltanto se le si aggiunge l’essere. Infatti, l’umanità o il caldo possono considerarsi come esistenti o nella potenza della materia o nelle capacità dell’agente, oppure nella mente: invece ciò che ha l’essere (cioè l’ente) è esistente in atto. Conseguentemente ciò che chiamo essere è l’attualità di ogni atto, e quindi la perfezione di qualsiasi perfezione. Né si deve pensare che all’essere si possa aggiungere qualche cosa di più formale che lo determini, come l’atto determina la potenza, poiché l’essere di cui stiamo parlando è essenzialmente differente dall’essere (comune) a cui si possono fare delle aggiunte. Infatti, nulla si può aggiungere che gli sia estraneo, perché all’essere nulla è estraneo eccetto il non essere, che però non ha né forma né materia. Quindi l’essere non viene determinato da qualche cosa come la potenza dall’atto, ma viceversa come l’atto dalla potenza” (De potentia, q. 7, a. 2, ad 9) [1].

Si tratta di un nucleo di perfezione che è intimo ad ogni essente e non si può ricondurre alle determinazioni essenziali dello stesso essente. Detto in altri termini l’essenza di ogni ente, quel suo particolare determinato modo di esercitare l’atto di essere non coincide con quello stesso atto, anche se l’essenza non è neppure pensabile come separata, mentre lo è – anche se ciò rimane incomprensibile mistero – l’atto di essere.

I limiti propri ad una essenza, le sue determinate coordinate eidetiche, la sua struttura, implicano l’essere. L’essere come perfezione – di suo – non implica alcun limite [2]. L’essere come perfezione si risolve nell’ Essere stesso, che si dà in modo illimitato, infinito, in quanto la sua natura stessa è di essere. D’altra parte la molteplicità degli esseri, sono, hanno una effettiva, non illusoria, positività in virtù di questa positività ricevuta – partecipata. L’essere del molteplice dunque si spiega all’interno di una relazione di dipendenza, non astratta, non puramente speculativa, ma assolutamente reale, in quanto inserita in quel cuore di ogni realtà dell’ente che è il suo atto di essere. Questa è la vera Diremtion per cui dall’Uno si passa ai molti. Una Entzweiung che non è puramente formale, in quanto si traduce in una composizione, una differenza ontologica posta nell’intimo di ogni essente, con un duplice aspetto: statico della composizione e dinamico della dipendenza. La possibilità della relazione al di fuori dell’ Ipsum Esse, del Principio assoluto, è posta positivamente proprio dal limite. L’unico modo di essere posti al di fuori dell’Assoluto, di dar luogo ad una reale Entäußerung è quella di essere diversi da Lui, ma per essere diversi dall’Assoluto si deve mancare, perché avere in più è assurdo. Questo pone in essere una relazione reale. Questa relazione è fondante e consiste nell’atto di essere partecipato, atto dunque primo e fondante, di cui il fatto di esistere è solo una conseguenza.

Questo atto in qualunque ente ne costituisce la perfezione, il fondamento di tutte le perfezioni che l’ente ha. Ma questo atto – come abbiamo visto prima – non si identifica con il limite nel quale è posto. Di suo non implica limite (mentre i limiti lo implicano). Esso dunque tende verso la pienezza di perfezione che è senza limite.

La perfezione di un ente dipende dal grado di essere. L’essere dipende dall’atto di essere partecipato, il grado di essere dipende dal modo in cui l’atto di essere è avuto. Quanto più l’atto di essere è posseduto in proprio, tanto più l’ente è perfetto.

La persona è il modo di essere più perfetto che si dia, perché persona è un sussistente razionale, cioè un ente che ha l’atto di essere e sa di averlo (o ha la capacità di saperlo). Se l’atto di suo tende, nella persona questo tendere sarà consaputo e quindi pienamente soggettivo. Libertà è proprio questa soggettività dell’essere (soggettività non nel senso di riduzione dell’essere a essere di coscienza del soggetto, ma appartenenza dell’essere al soggetto).

Scorgiamo qui due momenti complementari dell’essere persona: la inseità, come appropriazione dell’atto di essere che è ricevuto ma consaputo e la relazionalità, perché questo stesso atto dice tensione alla perfezione, cioè comunicazione.

Questo dinamismo, che si muove in sintonia con ed esprime il dinamismo della relazione fondante come dipendenza, si svolge in attività. L’agire è continuazione e espressione dell’essere, che è atto. L’essere come atto fondamentale e fondante non è atto del soggetto nel senso di posto dal soggetto, ma è in dipendenza da lui che il soggetto può porre gli atti del suo agire come atti liberi. L’atto primo fonda gli atti secondi.

L’agire del soggetto avrà così come due momenti, due battute complementari e correlate di un unico ritmo, che costituiscono come la sistole e la diastole del suo pulsare e quindi del suo vivere: appropriazione di sé e comunicazione di sé. Momento en-statico e momento e-statico.

Mi sforzerò di ricavare la nozione di persona come relazionalità soprattutto dagli scritti di san Tommaso d’Aquino, nella consapevolezza che san Tommaso non ne parla esplicitamente. Tuttavia, sulla scorta di altri autori (e quindi voglio subito pagare il mio debito a W. Norris Clarke) cercherò di mostrare – attraverso una esegesi intensiva – che questo allargamento obbedisce ad una dinamica non estranea al sistema, anzi da esso decisamente esigita.

È da tempo che – in teologia – ci si è decisamente orientati verso una interpretazione relazionale della persona. Qui cercheremo di fondare metafisicamente questo orientamento, nella prospettiva della fides quaerens intellectum.

“È noto come il concetto di persona sia uno dei frutti filosofici più maturi e significativi della speculazione teologica cristiana. Il dover rendere ragione del fatto che Gesù è il Figlio di Dio in senso vero e pieno, senza attentare all’unicità di Dio ha portato ad elaborare concetti altamente sofisticati rispetto al livello di riflessione del tempo come quello di natura e di persona. Tre persone in una natura e due nature in una persona costituisce la sintesi dogmatica dei due principali misteri della fede cristiana, una sintesi che è costata secoli di dispute, lotte e un aspro e complesso discernimento terminologico-dottrinale. La perfezione morale della persona dipenderà da ciò che essa è nel suo profondo. Certamente la persona è qualcosa di unico e irripetibile, ultimamente incomunicabile. Ma ciò non è sufficiente per qualificarla nel suo essere proprio. Anche una volgare goccia d’acqua è – nel suo essere qui hic et nunc – qualcosa di unico e irripetibile: questa goccia d’acqua non può diventare quella goccia d’acqua senza cessare di essere appunto “questa”, qui e ora. Persona non è neppure soltanto un sussistente, un soggetto autonomo. La definizione di Boezio ha riempito di sé tutto il Medioevo: “persona est naturae rationalis individua substantia” [3]. Non si può certamente dire che essa non colga nel segno, tuttavia ci si può e ci si deve chiedere se chiarisca veramente ciò che nella persona vi è di più essenziale. Così parrebbe che si tratti soltanto di una individualità dotata di una grande dignità. Resta però da determinare meglio la natura di questa dignità. Proprio la speculazione trinitaria ha messo sulla strada della categoria decisiva, soprattutto per opera di sant’Agostino: la categoria della relazionalità [4]. Essere persona è capacità di stabilire relazioni, è porsi come io davanti ad un tu. Il disporre di facoltà elevate come l’intelligenza e la volontà comporta la libertà e la libertà la capacità di amare. La relazione fondamentale e fondante risulta così essere l’amore” [5].

Questo in sommaria sintesi l’itinerario percorso teologicamente. Ma molto rimane ancora da indagare metafisicamente. Come giustificare questo passaggio dalla sostanza alla relazione?

La speculazione aristotelica si era avviata su questo sentiero: una volta chiarito che l’essere non è un genere (lo stesso aveva chiarito anche Platone) e che “si dice in molti modi” [6] doveva giustificare la possibilità di una unitaria trattazione dell’essere (Metafisica, libro , aporie 1-3 e 4). Ciò – come è noto – viene ottenuto tramite il ricorso alla centralità della sostanza. Tutto ciò che predico dell’essere dice ultimo e definitivo riferimento alla sostanza. San Tommaso dona il suo assenso a questa impostazione, pur trascendendola (e il trascendimento non è sempre stato colto con chiarezza dalla tradizione tomista). La sostanza è dunque il modo di essere più perfetto, tale che tutti gli altri modi si ordinano attorno ad essa ed in relazione ad essa. Sostanza è ciò che è in sé e per sé. Ora di tutte le sostanze il “sussistente nell’ordine spirituale” [7] è la sostanza più perfetta, dunque “significat id quod est perfectissimum in tota natura” [8].

La sostanza è ciò che ha l’essere nel modo più perfetto, perché lo ha in sé e per sé. Dunque la sostanza che avrà l’essere in sé e per sé nel modo più perfetto sarà il più perfetto degli enti. Essere in pienezza vuol dire essere persona.

Ora, alla persona compete di essere intelligente, cioè di avere l’essere nella consapevolezza. Solo la persona può “sapere dell’essere”. L’essere in lei non è solo avuto, ma con-saputo. A lei sola compete il porsi la domanda sul senso dell’essere.

Alla persona compete di essere libera, “causa sui”. L’esercizio dell’essere è dunque in gran parte determinato liberamente. Soprattutto per quanto riguarda il suo destino ultimo.

Quindi l’essere sarà da lei avuto nel modo più perfetto. Alla perfezione dell’essere però compete di cercare di comunicarsi, quindi di darsi, il che è la più perfetta delle forme di relazionalità possibili. Essere sostanza in definitiva è essere in relazione e questo compete in modo sommo alla persona.

Nel prosieguo ci sforzeremo di dar ragione di tutti questi singoli passaggi.

I. Essere come atto dinamico

  • Essere come attivo e autocomunicativo

L’essere inteso come puro fatto di esistere, come semplice essere in atto di una possibilità ideale è qualcosa di statico. Traduce il puro darsi di un qualcosa: c’è un sasso, c’è un mio sentimento, c’è una persona davanti a me… L’essere così inteso come semplice esserci (Dasein) di qualcosa – che costituisce il naturale punto di partenza di una riflessione sull’essere e si situa al livello della sua descrizione fenomenologica – è sempre in fondo uguale a se stesso. Diverso è l’essere che – attraverso una riflessione intensiva sul dato fenomenologico, che rimanda a sua volta ad una aurorale partecipazione dell’essere come trasparente al pensiero, la rosminiana idea dell’essere – si dà a noi come atto. Atto di ogni atto e perfezione di ogni perfezione, forma di tutte le forme.

Se l’essere è atto, allora esso è dinamico per sua intrinseca vocazione:

Ex hoc ipso quo aliquid actu est, activum est [9].

Agere autem aliquem effectum per se convenit enti in actu: nam unumquodque agens secundum hoc agit quod in actu est [10].

Potentia activa sequitur ens in actu: unumquodque enim ex hoc agit quod est actu [11].

Natura cuiuslibet actus est, quod seipsum communicet quantum possibile est. Unde unumquodque agens agit secundum quod in actu est. Agere vero nihil aliud est quam communicare illud per quod agens est actu, secundum quod est possibile [12].

Ex abundantia enim perfectionis est quod perfectionem quam aliquid habet, possit alteri communicare [13].

Communicatio enim consequitur rationem actus: unde omnis forma, quantum est de se, communicabilis est [14].

Res enim naturalis non solum habet naturalem inclinationem respectu proprii boni, ut acquirat ipsum cum non habet, vel ut quiescat in illo cum habet; sed etiam ut proprium bonum in alia diffundat, secundum quod possibile est. Unde videmus quod omne agens, inquantum est actu et perfectum, facit sibi simile. Unde et hoc pertinet ad rationem voluntatis, ut bonum quod quis habet, aliis communicet, secundum quod possibile est. Et hoc praecipue pertinet ad voluntatem divinam, a qua, per quandam similitudinem, derivatur omnis perfectio. Unde, si res naturales, inquantum perfectae sunt, suum bonum aliis communicant, multo magis pertinet ad voluntatem divinam, ut bonum suum aliis per similitudinem communicet, secundum quod possibile est [15].

Dunque agire, in quanto espressione di quell’atto fondamentale che è l’intimo nucleo positivo del mio essere, è comunicare (Agere vero nihil aliud est quam communicare). Che cosa? Illud per quod agens est actu, quell’attualità che io sono, quella somma di perfezioni che io sono, le quali sono tali (cioè perfezioni) in virtù di quall’atto primo e fondante che è il mio essere. Naturalmente secondo la struttura eidetica che costituisce il mio particolare modo di essere, la mia essenza: secundum quod est possibile. Sia che io agisca, sia che io faccia, sempre comunico. Sia che la mia azione sia transitiva, sia che sia solo intransitiva (perché sempre nell’azione transitiva c’è anche un effetto intransitivo) sempre comunico. Comunico le perfezioni che ho e – in radice – l’essere che sono. Agire dunque comporta un fondamentale aspetto di auto-espressione, di auto-rivelazione. La comunicazione è sempre autocomunicazione:

Omnis res […] [est] propter suam operationem. Semper enim imperfectum est propter perfectius [16].

Omnis enim res propter suam operationem esse videtur: operatio enim est ultima perfectio rei [17].

Il detto agere sequitur esse è fondamentalmente frainteso se lo si traduce con essere e poi agire perché essere è già agire. Il primo agire dell’ente è quello per cui la sua essenza è, cioè in virtù di un atto che con la sua essenza non coincide e che il soggetto possiede, in modo singolarmente perfetto se è una persona, anche se l’autopossesso non è totale. Il senso dell’agire, della vita e di tutta la storia della vita consiste proprio nel diventare compiutamente ciò che si è e quindi anche – lo vedremo – nel trascendersi.

L’atto dell’esistere dunque (actus essendi) non è uno stato, ma un atto. In esso si annida dunque un impulso dinamico che tende ad esprimersi e a manifestarsi in tutta la complessità dell’agire. Possiamo parlare, utilizzando una felice espressione di Maritain, di “fondamentale generosità dell’esistenza” [18].

L’essente si trova dunque spinto ad agire per due fondamentali ragioni:

  1. Perché è povero e si trova nella necessità di colmare le sue carenze.
  2. Perché è ricco e questa è certamente la ragione più profonda, essa richiede però di aver guadagnato una nozione di essere intensiva e dinamica.
  • Essere come relazionalità

Fin qui gli appigli con il pensiero tommasiano sono stati abbastanza evidenti, direi assolutamente ovvi. Il cammino si fa d’ora in avanti più accidentato, perchè dobbiamo abbandonare l’esplicito sostegno dei testi tomistici, non però – così io penso e così penso di convincervi – l’intima ispirazione del suo pensiero.

Se infatti l’ente è strutturalmente attivo e quindi auto-comunicativo, non può non allacciare con tutti gli altri enti una rete di relazioni, sia in senso attivo che – ovviamente – passivo, o meglio ricettivo. D’altra parte san Tommaso aveva già fatto notare che il nucleo stesso fondamentale dell’essere dell’essente, cioè il suo atto d’essere, in quanto partecipato, fonda nel più intimo dell’essere dell’essente una radicale relazione di dipendenza:

Unumquodque secundum hoc ipsum quod est, alterius est [19].

Comunque lo strutturale dinamismo dell’essere non è pensabile senza una coessenziale rete di relazioni.

“Se non tutte le relazioni sono generate dall’azione, però ogni azione e passione necessariamente genera delle relazioni” [20].

La tradizione metafisica classica si è abituata a classificare ogni relazionalità nell’ambito del categoriale, in particolare nella categoria del pros tì. Se questo era comprensibile nel contesto della metafisica platonica e aristotelica (ma anche in questo contesto ampiamente contestabile) che ignorava il principio di creazione, questo non lo è certamente più in filosofia cristiana. La relazione fondamentale di dipendenza dell’ente che partecipa l’essere non può – a nessun titolo – essere ascritta nella categoria dell’accidentale, perché l’essere non è un accidente, ma l’atto fondante la stessa sostanzialità della sostanza. Se però, come abbiamo visto, l’agire in tutte le sue forme scaturisce strutturalmente dall’attualità dell’atto di essere, allora sarà anche accidente l’agire in quel modo o in quell’altro, ma non può essere accidente l’agire in quanto tale. E se non può essere accidente l’agire in quanto tale, allora non lo può essere neppure la relazionalità che esso genera. La relazionalità si trova così trasposta nell’ambito della trascendentalità.

Se dunque ogni ente, ogni sostanza, esiste in vista dell’operazione e se esser sostanza è dunque essere in se e per se al fine di riversarsi fuori di se, allora essere in modo pieno è essere sostanza-in-relazione [21].

L’atto di essere si propone come “atto primo”, l’agire non potrà essere che “atto secondo”. si configurano dunque una priorità e una dipendenza. Quella che esprime il noto assioma agere sequitur esse. Questo però non deve affatto indurre a pensare che l’atto o gli atti secondi siano “secondari” e quindi accidentali, in modo tale che anche senza di essi l’atto primo rimarrebbe quello che è, perché l’atto primo è dinamico nella sua essenza e il dinamismo non può stare senza agire. Anzi – come abbiamo visto – l’atto secondo non solo non è qualcosa di accidentale, ma è lo scopo stesso della sostanza e il suo stesso senso: operatio enim est ultima perfectio rei; consequitur rationem actus.

Dobbiamo quindi concludere che – anche se da nessuna parte san Tommaso giunge a questa conclusione – tuttavia, in ossequio ai suoi stessi principi, sostanzialità e relazionalità si trovano sullo stesso piano ontologico qualitativo, anche se la sostanzialità precede ontologicamente la relazionalità. questo “precedere”, questo “essere prima” non ha un senso primariamente cronologico, anche se si rivela essere il fondamento del susseguirsi cronologico nella vita storica dell’uomo. Si tratta di un fatto ontologico. Dire ordine non significa di per sé dire dipendenza e una conferma la troviamo proprio nello spazio della fede quando riflette sulla struttura trinitaria del Principio.

Se però questo dualismo non si identifica con cronologia, tuttavia comanda una serie di importantissime conseguenze, rivelando per così dire la struttura diadica dell’agire della sostanza. La sostanza è innanzitutto in sé e – in conseguenza di questo – è per gli altri. Abbiamo un aspetto di intro-versione e un aspetto di estro-versione.

Si tratta di una riflessione la cui importanza è difficilmente sopravvalutabile.

L’entusiasmo infatti che ha preso molti ricercatori – soprattutto fenomenologi – per la scoperta o riscoperta della relazionalità, ha portato ad obliare o addirittura a dialetticamente negare il valore impreteribile dell’inseità della sostanza. Come in altri ambiti il fatto che i “sostanzialisti” si siano dimostrati sordi o pigri davanti al richiamo della relazione ha fornito materia alla dialettica dei “relazionisti” e vice-versa. Ma l’esito è catastrofico, perché “una relazione non può relazionare nulla” [22] e si risolve dunque proprio nel suo contrario.

  • Essere come ricettività e comunione

Se l’autocomunicazione è un aspetto assolutamente fondamentale dell’essente, allora altrettanto si deve dire della ricettività. Non si può infatti comunicare qualcosa se non c’è un soggetto atto a ricevere la comunicazione. Il fuoco non può diffondersi se attorno a sé trova solo oggetti bagnati, è inutile che un uomo parli se nessuno lo ascolta…

Qui si presenta un problema analogo a quello già affrontato a proposito della struttura diadica della sostanza-in-relazione. Così come non siamo autorizzati a dedurre dall’incontestabile primato della sostanza sull’azione una dipendenza, secondarietà e accidentalità dell’azione stessa in quanto tale (il che non toglie affatto che le singole azioni degli enti creati abbiano queste caratteristiche), non lo siamo neppure a dedurre dalla ricettività di un agire un suo intrinseco e strutturale carattere di passività e quindi di imperfezione. Se ciò fosse dovremmo concludere che la forma di comunicazione più perfetta che è l’amore implica strutturalmente una imperfezione e quindi una povertà di essere, posto che l’amore – nella sua forma più perfetta di amor amicitiæ – implica strutturalmente la reciprocità, quindi un dare e un accogliere. Se poi estendiamo il metodo metafisico della resolutio e compositio anche allo spazio della teologia, troviamo nelle relazioni trinitarie un chiaro esempio di comunicazioni reciproche che non autorizzano affatto a incrinare l’assoluta eguaglianza dei suoi attori.

Se naturalmente gli essenti allacciano tra di loro una fitta rete di relazioni, in cui si dà ugualmente comunicazione e ricettività, allora dobbiamo anche concludere che questo essere-in una rete di relazione attiene strutturalmente alla natura dell’essente in quanto tale. L’essente non si dà primariamente come singolo, come monade e poi anche, come aggiunta estrinseca, si da una sua messa in gioco in una rete di relazioni. Questo fatto lo possiamo chiamare intrinseca socialità o comunionalità dell’essente in quanto tale. L’universo si presenta dunque a tutti i suoi livelli e nel suo insieme come un meraviglioso ordine, cioè un intrecciarsi unitario di una fittissima e complicatissima rete di relazioni, cioè di comunicazioni-ricezioni. L’ordine evidentemente non è perfetto (qui non possiamo affrontare ovviamente il problema del male), ad esso si contrappone un disordine, ma in modo tale che, ad una riflessione metafisicamente e teologicamente attenta non si sveli l’intima armonia del tutto.

L’essere dell’essente dunque svela il suo carattere non giustapposto di essere-con, di essere-insieme. Va allora rovesciato l’ordine conoscitivo testé accennato: io non conosco l’ente pensandolo innanzitutto da solo, ma la sua solitudine mi si svela proprio in virtù di una riflessione a partire dal suo originario essere-con. È dopo il peccato che Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi… Così come noi – nonostante le apparenze – non possiamo farci un’idea dell’uno se non partendo dalla nozione di in-divisione, la quale pre-suppone la conoscenza di una pluralità. Così ancora come la parola ha senso solo nell’intreccio di un testo (appunto textus) e noi arriviamo a farci un’idea della parola isolata solo partendo dal testo e non viceversa. Il primo dato che viene al nostro pensiero è c’è qualcosa, ma questo qualcosa mi si dà all’interno di un uni-verso nel quale anch’io – da prima – sono.

Da quanto detto si evince la necessità di un altro passo in avanti. Se l’essere dell’essente è strutturalmente essere-con, anzi questo essere-con ha, almeno a livello conoscitivo un certo primato, allora l’essere dell’essente si vela come strutturalmente volto al trascendimento della sfera limitata e limitante della sua essenza. D’altra parte questo era chiaramente inscritto nel carattere di assoluta positività dell’atto di essere, che si situa nel cuore dell’ente come la perfezione che tutto attua e non è limitata da un atto, ma solo dalla potenza. Se l’essere di suo non dice limite ci sarà in lui una tendenza ad andare oltre il limite, anche se sempre secondo le coordinate di quel limite per cui anche è, cioè la sua propria essenza e natura.

II. Applicazione alla persona

Se ciò che fa sì che l’essente sia è il suo atto di essere, il grado di appartenenza dell’essere all’ente costituirà anche il grado della sua relativa perfezione nel consesso degli altri tipi di essenti. Da ciò la conclusione a cui giunge san Tommaso, in perfetta coerenza con il suo sistema:

Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet subsistens in rationali natura [23].

A questo punto però è necessario che ci chiediamo in che cosa consiste questo aver l’essere con maggiore perfezione e in che relazione stia questo con la “natura razionale” che sta a fondamento di questa perfezione.

Non possiamo qui ovviamente addentrarci, neppure in grande sintesi, nella lunga storia della formazione del concetto di persona. Ci basti richiamare quanto è a tutti noto (intendo a tutte le persone dotate di media cultura che non devono evidentemente abbondare nel nostro parlamento europeo…): che cioè si tratta di una nozione che viene dal cristianesimo. La necessità di distinguere persona e natura viene dallo sforzo dei cristiani di pensare la loro fede, ma – se si tratta incontestabilmente del risultato di un lavoro teologico – ciò non significa che non abbia un contenuto filosofico, tale da potersi tradurre in categorie accessibili anche a menti non aiutate dalla grazia della rivelazione.

Nella nozione di persona si incrociano e fecondamente si incontrano due linee di sviluppo. Quella del diritto romano per cui essere persona vuol dire essere in possesso dei pieni diritti della cittadinanza, a differenza dello schiavo e quello della speculazione teologica cristiana per cui diverse persone si trovano a possedere pienamente, ma differentemente l’unica natura divina. Nel caso del Verbo incarnato due nature: l’umana e la divina in modo pieno e assolutamente completo senza confusione e senza separazione.

San Tommaso accetta sostanzialmente la famosa definizione boeziana: “persona est naturae rationalis individua substantia” [24]. Ne rinviene però il fondamento metafisico più profondo senza peraltro mai tradurlo in una formula esplicita e sintetica. Persona è quell’essente che – avendo una natura razionale, cioè essendo dotato di intelligenza e volontà e quindi di libertà – è talmente padrone di sé stesso da avere in proprio coscientemente l’atto di essere. Così, per es., la natura umana di Cristo non è persona, perché il soggetto dell’atto di essere di Cristo è il Verbo, essa è tecnicamente anipostatica.

Persona potrebbe dunque tommasianamente essere definita in questo modo: “Sussistente di natura intellettuale, distinto da tutti gli altri, che possiede il proprio atto di essere in modo tale da essere cosciente di sé e sorgente responsabile delle sue proprie azioni” [25]. È dunque quell’essente che è dominus sui, causa sui [26].

La persona così definita potrebbe essere di natura squisitamente intellettuale, quindi spirituale. L’uomo non è evidentemente così. La considerazione dell’intero dell’essere a piani sovrapposti tali da comportare una dimensione integralmente spirituale che si affianca a quella integralmente materiale ha fornito ai pensatori cristiani un modello ermeneutico di grande fecondità. Tra il puro spirituale (gli angeli) e il puro materiale (il mondo minerale, vegetale e animale) c’è spazio per un tertium quid che è appunto l’uomo, compreso come microcosmo, perché sintesi di tutto il cosmo in miniatura, e compreso nella sua dimensione paradossale di medietà tra due mondi. La presenza degli angeli – a cui la riflessione scolastica, e quindi anche quella tommasiana, ha dato tanto spazio, ha tra l’altro l’importantissima funzione di sottrarre la riflessione – almeno in tesi – dal rischio di cadere nell’ontoteologia, cioè di fare di Dio un essente tra gli essenti, indispensabile componente per la completezza del mondo, più che fondamento trascendente e assolutamente altro del mondo e di tutte le sue componenti.

L’uomo è colto fin da subito come ben radicato nel mondo sensibile. La definizione di Aristotele, trasmessa e divulgata come “animal rationale” avrà infatti una gran fortuna. Sfugge spesso però che il testo aristotelico parla di un animale che, tra gli animali, ha questa singolarità, quella di “aver il lógos“, il che vuol dire anche e insieme di essere in grado di parlare e comunicare intelligentemente [27], quindi di relazionarsi.

In quanto intelligenza ultima nella gerarchia delle intelligenze e senziente primo nella gerarchia dei corpi è una specie di “misto”, recando in sé entrambe le componenti non giustapposte ma assolutamente unite, tali da costituire un’unica sostanza e quindi da condizionarsi intrinsecamente. Supremum infimi est infimum supremi. La consapevolezza dell’animalità dell’uomo è ben salda nel pensiero cristiano, tanto che possiamo leggere sotto la penna di uno dei suoi esponenti più spiritualisti una frase paradossale come questa: “L’uomo è un animale che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio” (Gregorio di Nazianzo, Discorso in lode di Basilio).

La comunicatività e la relazionalità della persona umana si troveranno così fortemente condizionati da questa sua singolare natura segnata dal paradosso. Se l’essente è strutturalmente comunicativo e relazionale e se l’essente di natura intellettuale è comunicativo nel modo dell’autocoscienza e della libertà, l’essente di natura umana vivrà sia l’una che l’altra caratteristica in un suo modo peculiare che trova nel corpo una componente non solo strumentale ma essenziale.

La conseguenza più cospicua è che l’avventura dell’autopossesso e della relazionalità dell’uomo ha un andamento spazializzato, quindi successivo, quindi storico. La storicità ne costituisce un carattere assolutamente essenziale. E storicità non vuol dire solo successione nello spazio e nel tempo, ma coscienza di questa successione, dove il momento della memoria non si identifica solo col puro trattenere nella psiche immagini di eventi passati, ma traduce in temporizzazione il processo della conoscenza del mondo, degli altri, di sé e della propria unica e fondante relazione con Dio.

Se alla persona umana compete la storicità, allora anche il suo diventare ciò che è, cioè soggetto sussistente che si possiede nell’autocoscienza e nella libertà obbedirà ad un processo e ad uno sviluppo e/o involuzione.

Il possesso di sé come autocoscienza comporterà un progressivo risvegliarsi a quella consapevolezza di sé che ci fa dire “io” davanti a ogni altra realtà percepita come appunto altra, posta, gettata davanti a noi (ob-iecta).

Se però ogni essente in quanto tale è comunicativo e relazionale nella sua struttura, in modo tale che si prende coscienza di lui a partire dal fascio di relazione in cui giace, lo stesso – in modo ancora più accentuato – avviene per il soggetto di natura umana. Il risveglio del soggetto alla consapevolezza di sé avviene attraverso l’incontro con altri. Solo il rapporto con un Tu permette all’io di prendere coscienza di sé. Quel primo incontro è determinante e radicalmente condizionante lo sviluppo ulteriore. Sviluppo che si avvia a partire dal primo istante, perché fin dal primo istante il soggetto è in relazione, frutto a sua volta di una relazione e – a livello metafisico radicale – posto nell’essere mediante un atto creativo che è, nell’atto stesso, una relazione radicale, quella dell’atto di essere partecipato. Dipendenza radicale che rende possibile ed esige ogni altra forma di comunicazione.

Anzi ne costituisce il modello e l’archetipo. L’essente uomo non è posto nell’essere come tutti gli altri essenti. L’atto con cui è posto costituisce una relazione unica con il fondamento, perché l’uomo è immagine di Dio. Omne agens agit simile sibi. Ma la similitudine si snoda in modalità diverse e ha un suo punto di culminazione nell’uomo, perché l’uomo è consapevole di questa relazione e capace di viverla nella libertà e quindi nella reciprocità.

San Tommaso fa dipendere tutta la sua trattazione morale da questo principio architettonico:

Quia, sicut Damascenus dicit, homo factus ad imaginem Dei dicitur, secundum quod per imaginem significatur intellectuale et arbitrio liberum et per se potestativum; postquam praedictum est de exemplari, scilicet de Deo, et de his quae processerunt ex divina potestate secundum eius voluntatem; restat ut consideremus de eius imagine, idest de homine, secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem [28].

La comunicazione divina dell’atto di essere avviene nell’uomo accompagnata dalla trasparenza di questo stesso atto (il lume di ragione) per cui il dinamismo intrinseco proprio al nucleo positivo dell’atto di essere si svolge in libertà. La vita dell’uomo è “un’avventura di libertà” come amava ripetere il padre Cornelio Fabro.

L’autopossesso che si svolge sia come autoscienza che come autodeterminazione è ovviamente progressivo, storico. La libertà, come l’autoscienza, non è un puro “dato”, essa è anche un compito. ” Gnóthi seautòn “ [29] rappresenta un programma di vita e un punto di arrivo più che un punto di partenza. Potremmo dire che la vita dell’uomo è un viaggio verso il possesso di sé, nel senso di conoscere profondamente chi siamo e nel senso di diventare liberi per identificarci nella libertà con quella relazione che ci costituisce e ci salva. Se è vero che – come abbiamo detto prima – la consapevolezza di sé ha il suo avvio con il fatto che qualcun altro si prende cura di noi, sarà proprio nell’autocomunicazione che soprattutto cresce e si incrementa il vero autopossesso e l’autopossesso troverà – paradossalmente – nella comunicazione (che è anche a monte ricezione!) il suo compimento e perfezionamento.

Conclusioni

Come sovente succede ho iniziato questo mio lavoro con la preoccupazione di aver poche cose da dire e lo concludo con il rammarico di non avere il tempo di svolgere tutto quello che rimarrebbe da dire. Ma il non detto e il suggerito è la parte più interessante, perché all’uomo in questa vita non appartiene di compiere alcunché. Il compimento è per l’oltre…

Le applicazioni sono tante, forse infinite. A ridosso dell’uscita del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, non posso non pensare a quei due principi che il card. Höffner considerava i due cardini del pensiero sociale cristiano: il principio di sussidiarietà e quello di solidarietà. Alla luce di quanto abbiamo detto i due principi si illuminano a vicenda ed è solo all’interno del paradosso di cui vivono, che è quello della persona umana e di tutta la sinfonia dell’essere in cui essa si trova inserita che salvano il loro autentico valore. Una sussidiarietà che misconoscesse la solidarietà farebbe ricadere il soggetto in una concezione di stampo individualistico e monadico, d’altra parte una solidarietà che misconoscesse tutte le soggettività che a partire dall’individuo, attraverso la famiglia e i vari corpi intermedi danno vita a quella fitta, complicata e “calda” rete di relazioni che costituisce la società, mortificherebbe anch’essa l’intimo dinamismo relazionale della persona e della realtà tutta.

La struttura diadica del dinamismo dell’essente e quindi dell’essente persona umana comporta un entrare in sé stessi e un uscire da sé per comunicare. I due movimenti appaiono come contraddittori ad un primo esame superficiale. Già l’analisi metafisica ne ha mostrato l’assoluta plausibilità. Il cammino è tracciato in una direzione ben precisa, che è quella dell’amore come inizio, via e compimento dell’avventura umana.

Il Signore ci ha detto: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Bisogna dunque amare sé stessi e il vero amore di sé stessi comporta un deciso orientamento verso gli altri e vice versa. Questo amore ovviamente non può essere egoistico, perché un tale amore non è vero, misconosce il nucleo insieme intimo e trascendente che ci lega al Principio nell’intimo di noi stessi. Non è che trascurando gli altri e concentrando l’amore su di me o trascurando me e concentrando l’amore sugli altri faccio più bene all’uno o agli altri, faccio semplicemente del male perché disconosco quel nucleo intimo dell’essere che è il mio, il cui fondamento e il cui archetipo è quell’amore supremo in cui i Tre si trovano donandosi.

Bibliografia

Cornelio Fabro, Actualité et originalité de l'”esse” thomiste, in: Revue Thomiste 56 (2-3, 1956), pp. 240-270, 480-510.

Joseph de Finance, S.J., Etre et Agir dans la philosophie de saint Thomas, Roma: Università Gregoriana, 1966/3ª ed.

Umberto Degl’Innocenti, O.P., Il problema della persona nel pensiero di S. Tommaso, Roma: Pontificia Università Lateranense, 1967.

Karol Wojtyla, Persona e atto [Osoba i czyn], Testo definitivo stabilito in collaborazione con l’autore da Anna-Teresa Tymieniecka. Introduzione all’edizione italiana di Armando Rigobello, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1982.

William Norris Clarke, S.J., Person and Being (The Aquinas Lecture 1993), Milwaukee (WI): Marquette University Press, 1993.

Idem, Explorations in Metaphysics. Being – God – Person, Notre Dame (IN): University of Notre Dame Press, 1994.

Note

[1] «Ad nonum dicendum, quod hoc quod dico esse est inter omnia perfectissimum: quod ex hoc patet quia actus est semper perfectior potentia. Quaelibet autem forma signata non intelligitur in actu nisi per hoc quod esse ponitur. Nam humanitas vel igneitas potest considerari ut in potentia materiae existens, vel ut in virtute agentis, aut etiam ut in intellectu: sed hoc quod habet esse, efficitur actu existens. Unde patet quod hoc quod dico esse est actualitas omnium actuum, et propter hoc est perfectio omnium perfectionum. Nec intelligendum est, quod ei quod dico esse, aliquid addatur quod sit eo formalius, ipsum determinans, sicut actus potentiam: esse enim quod huiusmodi est, est aliud secundum essentiam ab eo cui additur determinandum. Nihil autem potest addi ad esse quod sit extraneum ab ipso, cum ab eo nihil sit extraneum nisi non-ens, quod non potest esse nec forma nec materia. Unde non sic determinatur esse per aliud sicut potentia per actum, sed magis sicut actus per potentiam».
[2] Diversa e opposta è la posizione di Heidegger per cui «das Sein selbst im Wesen endlich ist» (Was ist Metaphysik, 5a ed., 1949, p. 35.
[3] ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO, De duabus naturis et una persona Christi, c. 3: PL 64, 1345.
[4] Sul punto rimangono fondamentali: JOSEPH RATZINGER, Il significato di persona nella teologia [1966], in: Dogma e predicazione, trad. it., Queriniana, Brescia 1974, pp. 173-189; HANS URS VON BALTHASAR, Sul concetto di persona [1986], in: Homo creatus est. Saggi teologici – V, trad. it., Morcelliana, Brescia 1991, pp. 101-110.
[5] PIETRO CANTONI, Reincarnazione, persona umana e visione cristiana, in Antonio Lambertino (a c. di), Homo moriens. Saggi sull’aldilà e sul destino dell’uomo, Parma: Monte Università Parma, 2004, pp. 143-170 (pp. 154-155).
[6] « To dè on légetai mèn pollachòs, allà pros hén kai mían tinà physin » (Metaph. 1003 a 33-34).
[7] «Omne subsistens in natura rationali vel intellectuali est persona» (C. Gent., IV, 35).
[8] S. Th., I, q.29 a.3.
[9] C. Gent. I, 43, 2.
[10] Ibid. II, 6, 4.
[11] Ibid. II, 7, 3.
[12] De potentia, q. 2 a. 1 co.
[13] C. Gent. III, 69, 15.
[14] In I Sent., d. 4, q. 1, a. 1.
[15] Sum. Theol. I, 19, 2 co.
[16] Ibid. I, 105, 5 co.
[17] C. Gent. III, 113, 1.
[18] Court traité de l’existance et de l’existant, Parigi 1947.
[19] Sum. Theol. I, 60, 5 co.
[20] Clarke 1993, p. 14.
[21] Cfr. To Be Is to Be Substance-in-Relation, in Clarke 1994, pp. 102-122.
[22] Clarke 1993, p. 16.
[23] Sum Theol. I, 29, 3.
[24] ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO, De duabus naturis et una persona Christi, c. 3: PL 64, 1345.
[26] Cfr. Clarke 1993, pp. 27.29.
[26] Espressione da non prendere in senso metafisico assoluto, ma in senso psicologico. La persona non è, né può essere, causa sui in quanto causa del proprio essere, perché ciò comporterebbe una evidente contraddizione (per essere causa di sé stessi bisognerebbe essere prima di sé stessi), ma merita questo titolo come qualificazione del suo modo proprio e perfetto di avere l’essere. In Dio l’essere persona configura un salto qualitativo assoluto, perché Dio è il proprio essere. Le tre persone divine si identificano con l’essere divino, però in tre modi diversi in cui la diversità si dà come opposizione di relazionalità, mentre la relazione in quanto tale si identifica con l’unica natura divina. «In Deo omnia sunt unum ubi non obviat relationis oppositio» (Concilio di Firenze 1442).
[27] «Lógon dè mónon ánthropos échei tôn zóon» (Pol., I, 2, 1253 a 9). Cfr anche Pol., VII, 13, 1332 b, 5.
[28] Sum. Theol., Iª-IIae pr.
[29] È uno uno dei detti più famosi dell’antica Grecia. È attribuito ora all’uno ora all’altro dei Sette Saggi (Talete di Mileto, Biante di Priene, Pittaco di Mitilene, Solone, Cleobulo di Lindo, Chilone di Lacedemone e Milone Cheneo) e una tradizione platonica racconta che fossero proprio i Sette Saggi a porlo come epigrafe sul tempio di Delfi.

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