Le collette delle Domeniche d’Avvento

Christo venienti christifideles occurrentes

– di don Emanuele Borserini

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Con la colletta, la celebrazione dell’Eucaristia porta a compimento il percorso dei suoi riti d’ingresso. Questo testo solenne esprime con maggiore precisione il motivo della lode già introdotto dall’antifona o dal canto d’ingresso e purificata dall’atto penitenziale, dalla litania kyriale e dall’inno del Gloria. Inoltre, orienta la preghiera dell’assemblea su alcune domande specifiche proprio mentre accoglie e raccoglie quelle personali; il suo stesso nome (dal verbo latino colligo, legare insieme) riafferma la consapevolezza di essere noi stessi raccolti insieme dal Signore, già espressa dal segno di croce e dal saluto. Infine, apre a tutto ciò che seguirà introducendo alla liturgia della Parola perché ne anticipa poeticamente i temi fondamentali e ne fornisce una chiave di interpretazione. In questo momento nell’alveo disegnato dalle mani spalancate del sacerdote, passano tutte le nostre preghiere personali e possono salire al Padre per la mediazione perfetta di Gesù Salvatore, unica via al Padre. Per questo, dopo l’invito presidenziale “Preghiamo”, è necessario che trascorra un breve spazio di silenzio in cui ciascuno possa formulare interiormente la sua richiesta che poi ritroverà nella preghiera che il sacerdote pronuncerà ad alta voce. E la ritroverà certamente: ogni membro dell’assemblea liturgica impara così a ritrovarsi in quello che fa e dice la Chiesa, ad identificarsi con la sposa di Cristo. Insieme a quella di offertorio e quella dopo la comunione, la colletta è una delle tre orazioni che scandiscono la Messa; il termine “orazione” viene dal latino oris e ratio, due parole che messe insieme fanno pensare ad un discorso ben fatto: la preghiera della Chiesa ci insegna a parlare con Dio e, come una mamma, essa ci pone sulle sue ginocchia e ci insegna a parlare; noi balbettiamo e lei interpreta i nostri balbettii e li esprime in modo corretto ed elaborato. Ogni colletta è formata da due parti. La prima parte è il corpo, che varia per ogni orazione e che, a sua volta, è formato da due momenti: anzitutto, viene fatta memoria di un attributo di Dio oppure un’opera particolare della salvezza e a questo fondamentale atto laudativo segue come conseguenza la richiesta che la Chiesa gli propone. La seconda parte è la conclusione ricorrente, che è un piccolo trattato di teologia liturgica perché esprime la modalità di ogni celebrazione; infatti, la nostra preghiera è sempre rivolta al Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo. Alla colletta, come a tutte le orazioni e a molti altri testi liturgici, l’assemblea risponde con voce corale e decisa “Amen”, parola che nonostante tutti i secoli e le traduzioni è rimasta in ebraico perché l’ampiezza del suo campo semantico è davvero difficile da rendere. Sono state proposte varie interpretazioni ma ciò che conta è il modo in cui l’assemblea la pronuncia perché in essa esprime la sua partecipazione, quel ritrovarsi nelle parole della madre. Non sempre è così scontato e piacevole ritrovarvisi perché ognuno entra nella celebrazione con il proprio fardello, ma è proprio la potenza performativa della liturgia che, affermando l’assenso, produce in noi le condizioni per raggiungerlo. In questo tempo d’Avvento che si spalanca dinanzi a noi, mettiamoci in ascolto delle collette delle sue Domeniche. Prenderemo in considerazione anzitutto quelle proposte dal Proprio del Tempo del Messale Romano ma non dimentichiamo che ogni domenica e alcune solennità prevedono anche una colletta alternativa; si tratta di una peculiarità della traduzione italiana, pertanto questi testi si trovano al fondo del messale. Sono ispirate alla liturgia della Parola e, come quest’ultima, sono suddivise secondo i tre cicli di letture festive A, B e C.

 

I Domenica

 

O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli.

 

Lo sfondo in cui collocare questa colletta è quello del periodo escatologico dell’anno liturgico. Si tratta di un tempo particolare anche se non ha un nome specifico come l’Avvento, la Quaresima, il tempo di Pasqua o di Natale. Tuttavia, è ben definito dalla liturgia della Parola delle ultime Domeniche del Tempo Ordinario (in numero variabile nei tre cicli) e delle prime due Domeniche d’Avvento. In questo modo, a partire dalla normale conclusione di un anno liturgico, la Chiesa ci trasporta direttamente alla fine di tutti gli anni. Ogni ciclo liturgico si apre e si chiude con la prospettiva della fine, articolandosi attorno alla solennità che sta al centro di questo tempo particolare: Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo. Il cammino di ogni credente ha una meta che è dichiarata fin dall’inizio; la sua terra promessa è il Cielo e, con l’attesa di esservi ammesso, si appresta a muovere i primi passi in un nuovo tempo di grazia. Entrando nelle parole di questa colletta, incontriamo innanzitutto la richiesta che prende corpo nel verbo suscitare. Rispetto all’editio typica in latino che è più asciutta e chiede semplicemente di dare, la traduzione italiana ha scelto questo bellissimo verbo nel quale possiamo vedere Dio all’opera, osservarlo mentre, con discrezione e delicatezza, sembra lanciare un messaggio in codice in ogni cuore, deporvi un minuscolo seme, nascondersi ed emettere un dolce richiamo, riservare ad ognuno un’attenzione pacata ma infaticabile. Dio non si impone alla libertà dell’uomo ma allo stesso tempo non smette di provocarla affinché egli sia pronto a riconoscerlo quando viene a lui. Tutte le aspirazioni di grandezza che ognuno di noi porta nel cuore e che non hanno senso se non in un orizzonte infinito ed eterno nascono da questa costante presenza di Dio che fa emergere dal caos ogni cosa. Ed ecco che, come l’antifona della prima domenica del primo tempo dell’anno liturgico inizia con la prima lettera dell’alfabeto (Ad te levavi), così la prima orazione di questi primo tempo rende presente all’immaginazione la creazione. La richiesta è di suscitare una cosa precisa: la volontà. Rimaniamo, dunque, nel campo semantico della libertà perché Dio ha donato all’uomo la capacità di determinarsi e continua a guidarla senza alcuna forzatura. La volontà, poi, deve avere un oggetto verso cui orientarsi e in questo caso si tratta dell’andare incontro a Cristo che viene. L’immagine evocata da questi termini, in evidente posizione enfatica anche dal punto di vista letterario, è davvero eloquente: non si può non vederli mentre ascoltiamo (se, ovviamente, il presidente recita o canta con una dizione adeguata), Cristo e l’uomo, e corrersi incontro reciprocamente. Peraltro, in latino le azioni sono rese con due participi: venienti e occurrentes. Il participio comporta un balzo di significato dal fare all’essere: il venire e l’andare incontro non sono azioni estrinseche ma fanno parte dell’identità perché Cristo è “colui che viene”, come siamo abituati a chiamarlo nel Santo della Messa, e l’uomo è colui che sempre cerca l’incontro con l’Altro. Pur nella sua tipica brevità, il testo non tralascia di consegnarci una modalità concreta per andare incontro a Cristo: le opere buone. Alle immagini così plastiche di Dio che suscita ogni cosa e di Cristo e l’uomo che camminano l’uno verso l’altro, corrisponde questo dato altrettanto tangibile. Con le opere viene lanciato anche il tema per la colletta della II Domenica. A loro volta, le opere sono illuminate da una luce eterna che ne svela il significato al di là di ogni risultato immediato. Ed, infatti, ecco espresso il fine di tali opere: essere chiamati accanto a Cristo nella gloria. In latino è eius dexterae sociati: quasi essere associati al suo destino, diventare suoi amici, avere parte con lui intronizzato alla destra del Padre, tema biblico di non poco conto. Ma alle nostre orecchie, così poco abituate alle parole della fede, gloria potrebbe sembrare ancora troppo astratto ed ecco, allora, la conclusione del nostro testo: possedere è un verbo indubbiamente molto forte ed è ripreso anche dal prefazio dell’Avvento I (“ci chiamerà a possedere il regno promesso”). Per comprendere tanta insistenza ci viene in aiuto anche l’orazione sulle offerte di questa Domenica che usa il topos letterario del “pegno”, tipico anche di molte orazioni e ripreso nell’anamnesi della preghiera eucaristica della Riconciliazione II. Chi possiede un pegno possiede in qualche modo ciò che in esso è rappresentato e, soprattutto, possiede un po’ della persona che glielo ha consegnato: solo per questo si può muovere la volontà dell’uomo! Se da una parte, dunque, il possesso esprime bene la realtà e la concretezza di tutto ciò che diciamo quando parliamo di escatologia, dall’altra l’associazione corregge le possibili derive in senso magico e ristabilisce la vera natura relazionale del regno e della gloria. Si compie così il percorso di tutta la colletta che è profondamente relazionale: un Dio che suscita, chiama e dona e un uomo che gli risponde nella relazione con gli altri uomini, riceve e si associa a lui sedendovi accanto.

 

O Dio, Padre misericordioso, che per riunire i popoli nel tuo regno hai inviato il tuo Figlio unigenito, maestro di verità e fonte di riconciliazione, risveglia in noi uno spirito vigilante, perché camminiamo sulle tue vie di libertà e di amore fino a contemplarti nell’eterna gloria.

 

Si nota facilmente come lo stile e il linguaggio siano diversi, tuttavia i poli tematici non si allontanano di precedenti. Vi ritroviamo, infatti, da una parte il tema esistenzialmente molto incisivo della vita come pellegrinaggio e dall’altra il suo approdo nella gloria. Ma anche il verbo suscitare sembra essere ripreso e specificato dalla richiesta di questa colletta che è resa con il verbo risvegliare. Il testo si apre con l’immagine tipicamente escatologica del raduno di tutti i popoli in uno che viene dalla prima lettura (Is 2,1-5). C’è poi un’evidente corrispondenza letteraria tra i predicati del Figlio unigenito e le vie del Padre miseriocrdioso: “maestro di verità” è messo in relazione con “liberta”, mentre “fonte di riconciliazione” con “amore”, evocando passi noti e suggestivi della Scrittura. Il nostro cammino può passare attraverso molte vie, ma esse non sono che declinazioni dell’unica via al Padre che è Gesù Cristo ed egli conduce ad un’unica meta, la visione di Dio. Infine, alla pluralità e unità delle vie della vita è fatta corrispondere da parte dell’uomo la vigilanza, tema che viene dalla seconda lettura (Rm 13,11-14) e dal vangelo (Mt 24,37-44).

 

II Domenica

 

Dio grande e misericordioso, fa’ che il nostro impegno nel mondo non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio, ma la sapienza che viene dal cielo ci guidi alla comunione con Cristo, nostro Salvatore.

 

Buona parte del lavoro per affrontare questo testo è già stata fatta parlando della colletta della I Domenica, infatti il contesto è quel medesimo tempo escatologico e l’immagine attorno a cui si cotruisce è ancora una volta il cammino, che qui è solo richiamato più esplicitamente. Del resto non può che essere così perché il moto universale verso Cristo, che per il cristiano costituisce nientemeno che il senso della vita (cfr. l’orazione dopo la Comunione della I Domenica d’Avvento), è il leitmotiv di tutto l’Avvento. La meta, che nella I Domenica era evocata genericamente dalla gloria, ora riceve un nome proprio, quello del Figlio. E il raggiungimento di questa meta si chiama con un termine tecnico: comunione; consortes nell’editio typica in latino. Se da una parte l’aggettivo possessivo e il tema della comunione non fanno che ribadire l’aspetto relazionale dell’escatologia, dall’altra c’è una progressione terminologica che ci invita ad un conseguente approfondimento spirituale perché entrati ormai in pieno nell’Avvento, possiamo prendere maggiore coscienza di ciò che stiamo vivendo. Ed ecco che la seconda Persona della Trinità riceve tre appellativi di grande portata: anzitutto, Cristo e nostro Salvatore, che sono propri della traduzione in italiano, a cui ne segue un altro che potrebbe facilmente sfuggire ma racchiude anch’esso un grande valore cristologico, sapienza; così lo invocherà anche la prima delle antifone maggiori il 17 dicembre. Viviamo, dunque, l’incontro con Dio, definito grande e misericordioso dal solenne esordio di questa colletta, attraverso tre attributi del Figlio: ognuno di essi ha un retroterra biblico e teologico enorme, che ovviamente è impossibile riassumere qui, ma ascoltarli deve suscitare in noi tutte le reminiscenze che essi sanno evocare per immergerci in questa seconda tappa dell’Avvento. Il tema delle opere, che lanciava un ponte dalla I Domenica verso la II (il latino usa per entrambe la stessa parola, operibus e opera), ora si trova declinato nell’impegno nel mondo che, per non impedire il cammino, necessita di un continuo discernimento da parte nostra. Poiché la proposta cristiana non è un’etica astratta ma la pienezza della vita, infatti a coronamento dell’Avvento ci sarà la celebrazione del mistero dell’Incarnazione, essa non può prescindere dai numerosi impegni mondani in cui ognuno si trova immerso. Ciò che si chiede è piuttosto di non essere fagocitati dal tali incombenze. Questo è il discernimento: riconoscere che è Cristo che “ci viene incontro in ogni uomo e in ogni tempo” (prefazio dell’Avvento I/A) e “valutare con sapienza i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo” (orazione dopo la Comunione della II Domenica d’Avvento). La richiesta di questa colletta è il dono del discernimento, non bisogna piegarla ai propri gusti facendole dire ciò che non dice; allora per quelli più inclini ad un certo attivismo sarà un devoto richiamo all’importanza della preghiera accanto alle opere, mentre per quelli più spirituali sarà il monito a non disperdersi nelle attività pastorali, mortificandola brutalmente in entrambi i casi. Tutto quello che siamo e facciamo contribuisce alla nostra salvezza, o positivamente o negativamente, e la tradizione spirituale, risalendo fino ai Padri del deserto e in particolare al filone ignaziano, ci consegna un florilegio di sussidi per imparare a fare discernimento con sapienza ogni giorno per non perdere mai di vista la meta.

 

Dio dei viventi, suscita in noi il desiderio di una vera conversione, perché rinnovati dal tuo Santo Spirito sappiamo attuare in ogni rapporto umano la giustizia, la mitezza e la pace, che l’incarnazione del tuo Verbo ha fatto germogliare sulla terra.

 

Le tre parti di questo testo sono facilmente riconducibili alle tre letture della Domenica: la vera conversione è l’invito di Giovanni Battista nel vangelo (Mt 3,1-12), la richiesta che ricade sui rapporti umani viene dall’esortazione di san Paolo nella seconda lettura (Rm 15,4-9), mentre i temi del germogliare (con tutta la risonanza che esso ha nel tempo d’Avvento) e della giustizia, mitezza e pace sono desunti dalla prima lettura (Is 11,1-10). Ma la sua struttura letteraria ci permette anche di cogliere come ognuno dei tre ambiti sia retto dalla menzione di una delle tre Persone della Trinità: la conversione si aggrega al Padre, il quale, anche se è invocato con la locuzione molto singolare di Dio dei viventi, è il destinatario di ogni colletta; la comunione tra gli uomini, epifania di quella con Dio, ha un fautore che è lo Spirito Santo, come ci mostra la seconda epiclesi di ogni preghiera eucaristica; infine, i doni messianici, che come lui germogliano, appartengono al Figlio. La delicatezza dei verbi attribuiti alle Persone divine, suscitare, rinnovare, germogliare, e la concretezza di quello scelto per l’uomo, attuare, sono in grado di introdurci poeticamente nella grande libertà che regola il rapporto tra Dio e l’uomo, costituendo un compendio liturgico di lunghi trattati di teologia fondamentale e morale. Manca una corretta collocazione del testo sullo sfondo escatologico di questa prima parte dell’Avvento, tuttavia, i pochi elementi a cui abbiamo accennato già lo rendono presente e non possiamo non coglierlo; anzi, forse è proprio nel non detto di questa colletta che sta tutta la sua bellezza, sottilmente evocativa come una vera poesia contemporanea.

 

III Domenica

 

Guarda, o Padre, il tuo popolo che attende con fede il Natale del Signore, e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza il grande mistero della salvezza.

 

Con questa colletta si cambia completamente registro perché si apre la seconda parte dell’Avvento che è più chiaramente orientata a preparare la celebrazione della venuta storica di Cristo. Essa, tuttavia, non si allontana dai grandi temi escatologici della prima parte, anzi, è proprio da quel punto di vista privilegiato che possiamo guardare con serietà al mistero dell’Incarnazione perché “egli, nascendo da Maria Vergine, ha inaugurato i tempi nuovi” (prefazio delle Domeniche del Tempo Ordinario IV). Molto schematica e preziosa per rivelarne il senso profondo è la struttura del testo fatta di tre coppie di termini corrispondenti. Abbiamo anzitutto le due azioni di Dio che danno corpo alla sua richiesta specifica: guardare e far giungere. L’immagine antica e sempre capace di suscitare emozioni dello sguardo di Dio assume qui tutta la sua forza: egli non guarda impotente lo sfacelo del mondo che ha creato ma tiene saldamente in mano la storia e discretamente ma inesorabilmente la guida al suo pieno compimento. E tale compimento è delineato dalle altre due corrispondenze. Nella coppia attendere con fede e celebrare, ritorna il tema tipicamente avventizio dell’attesa il cui significato è chiarito e precisato dalla celebrazione che ne costituisce la modalità precipua. Celebrare i santi misteri, infatti, significa non solo mettersi nella condizione di attendere che si rivelino pienamente, come giustamente dichiariamo nella risposta al Mistero della fede della Messa, ma anche affrettare questo momento. La liturgia produce il futuro perché, immergendoci nella presenza del compimento, ne avvicina la realizazione. Pensiamo alla conclusione del libro dell’Apocalisse, conclusione della celebrazione di cui esso è narrazione: “Colui che attesta queste cose dice: sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20). È per questo che possiamo entrare in ogni celebrazione con rinnovata esultanza! L’ultima corrispondenza è tra Natale del Signore e grande mistero della salvezza, ancora una volta una coppia esplicativa, come sempre avviene nel linguaggio poetico: nel Natale del Signore c’è tutto il mistero della salvezza e l’orazione dopo la Comunione della IV Domenica lo chiamerà “il gran giorno della nostra salvezza”. Possiamo, a margine di questa lettura teologica dei temi letterari del testo, farne anche una più semplice ma altrettanto efficace: se ogni celebrazione ci immerge nel grande mistero della salvezza, dobbiamo attenderla e prepararla davvero con sempre rinnovata esultanza. Cogliamo, dunque, il tempo di Avvento come un modello per vivere bene tanti piccoli avventi in attesa e preparazione dell’eucaristia domenicale: tutta la settimana orientata verso di essa, il sabato ricco di spirito vigiliare, sin dal mattino il pensiero a quel momento speciale, la scelta dell’abito giusto, la strada verso la chiesa, il passaggio della soglia di questo luogo speciale, il segno di croce con l’acqua benedetta, i pochi minuti di silenzio prima che inizi…

 

Sostieni, o Padre, con la forza del tuo amore il nostro cammino incontro a colui che viene e fa’ che, perseverando nella pazienza, maturiamo in noi il frutto della fede e accogliamo con rendimento di grazie il vangelo della gioia.

 

Nella colletta alternativa ritroviamo il duplice movimento della I Domenica, Cristo che viene e il nostro cammino incontro a lui, filtrato dai temi della liturgia della Parola che ne dipinge alcuni particolari: la modalità della pazienza desunta dalla seconda lettura (Gc 5,7-10), l’accoglienza e la gratitudine verso l’annuncio di salvezza espresso dalla prima lettura (Is 35,1-6a. 8a. 10), dal vangelo (Mt 11,2-11) e dal versetto del canto al vangelo (Is 61,1). La richiesta di questa colletta è quella di far maturare in noi il frutto della fede, una formulazione difficile che può essere chiarita accostandola all’orazione sulle offerte, la quale chiede che, per la divina potenza del sacrificio celebrato che attua il mistero, l’opera della salvezza sia efficace in noi. Ma l’attenzione, in questa Domenica detta Gaudete dalla prima parola dell’antifona d’ingresso (Fil 4,4.5), è volutamente attirata sull’ultimo termine che appare non a caso in posizione enfatica ed è, appunto la gioia.

 

IV Domenica

 

Infondi nel nostro spirito la tua grazia, o Padre, tu, che nell’annunzio dell’angelo ci hai rivelato l’incarnazione del tuo Figlio, per la sua passione e la sua croce guidaci alla gloria della risurrezione.

 

A nessuno sfuggirà che questa orazione è la medesima che preghiamo ogni giorno e più volte al giorno nell’Angelus. Il primo semplicissimo spunto che cogliamo è, dunque, quello di riscoprire una devozione tradizionale che, per la sua aderenza alla liturgia (non solo perché prende in prestito un’orazione dal messale ma anche per la sua cadenza che ritma la giornata come la Liturgia delle ore), è un modello per tutte le pratiche di pietà che devono sempre riferirsi alla liturgia. Giunti all’ultima Domenica d’Avvento, ecco che la sua colletta, oltre ad avere una bellissima sonorità poetica soprattutto in latino, tira le somme del percorso intessuto dai testi precedenti e lancia un ponte verso i tempi liturgici che si succederanno nell’anno da poco iniziato. In poche e semplici parole viene descritto tutto l’anno liturgico con una perfetta sovrapposizione tra gli eventi salienti della vita di Cristo e il tema avventizio del cammino cristiano che riceve, così, una nuova specificazione: dall’incarnazione, attraverso la passione e la croce, alla risurrezione. La meta che era stata descritta come gloria (I Domenica), che ha il nome del Figlio (II Domenica) e che incontriamo nella celebrazione della salvezza (III Domenica), ci è data nel mistero pasquale (IV Domenica). L’ordine cronologico della vita terrena di Gesù è per il credente il paradigma per risorgere quotidianamente con lui. Se per risorgere bisogna morire, è necessario anche riconoscere ogni nostra croce come la sua, ed ecco che riceve tutta la sua grandezza anche il tema del discernimento che era stato introdotto dalla colletta della II Domenica. Proseguendo a ritroso nel testo, giungiamo al criterio di ogni discernimento: l’incarnazione, che non a caso è posta accanto alla rivelazione. Discernere è assolutamente necessario perché tutto ciò che siamo e facciamo rientra in questo camino, tutto. La verità che Dio si è fatto carne non è stata valida una volta sola nella storia ma continuamente egli si rivela nella carne del nostro vissuto quotidiano. Si tratta di scorprirlo, appunto con il discernimento; e la liturgia, con la sua concretezza che coinvolge tutto l’uomo, è il più prezioso e ordinario criterio di discernimento a nostra disposizione. Come la prima venuta del Signore rivelò la verità contenuta nell’Antico Testamento che ancora leggiamo e la sua seconda venuta alla fine dei tempi rivelerà il senso di tutta la storia ricapitolata in lui (cfr. Ef 1,10 nella precedente traduzione), anche la sua venuta sacramentale rivela la verità di ogni più piccolo incontro con lui. Infine, la richiesta specifica di questa colletta sembra riecheggiare quella con cui si era aperto tutto l’Avvento perché infondere ha la stessa delicatezza di suscitare. Trova così continuità il tema dell’incontro tra la libertà di Dio e la libertà dell’uomo che si compirà nel mistero dell’Incarnazione.

 

O Dio, Padre buono, tu hai rivevalo la gratuità e la potenza del tuo amore, scegliendo il grembo purissimo della Vergine Maria per rivestire di carne mortale il Verbo della vita: concedi anche a noi di accoglierlo e generarlo nello spirito con l’ascolto della tua parola, nell’obbedienza della fede.

 

Questa colletta alternativa sceglie, come sempre, alcuni temi salienti dalla liturgia della Parola, per esempio l’obbedienza della fede è una citazione diretta della seconda lettura (Rm 1,1-7). Ma in questo caso, chi l’ha composta ha fatto un lavoro più complesso e si è ispirato anche all’eucologia e, in particolare, all’orazione sulle offerte. La struttura letteraria è la medesima: il parallelo tra il grembo di Maria e l’oggetto specifico della richiesta, nel caso della colletta il nostro spirito mentre nel secondo caso i doni che presentiamo all’altare. Il linguaggio utilizzato è molto concreto, quasi eccessivamente per quel falso pudore con cui spesso trattiamo le cose di Dio fino a renderle quasi inconsistenti. Ci viene presentato, infatti, il Padre impegnato a tessere il corpo di carne per il Verbo e a scegliere una pancia per farlo nascere, inoltre, la nostra esperienza di fede è assimilata ad un partorire continuamente noi stessi, ma anche il tema dell’obbedienza non è da meno perché ci richiama una fastidiosa coercizione. La peculiarità di questo testo è proprio il realismo delle sue immagini che può aiutare a infrangere proprio quella tentazione all’astrazione. Il dramma del Natale si dischiude, dunque, davanti a questa Domenica che spesso gli è vicinissima anche come data, in tutta la sua realtà. Solo così, la gratuità e la potenza dell’amore di Dio con cui la colletta si apre non saranno più parole vacue ma assumeranno nello spirito di chi ascolta questa preghiera tutta la loro portata, e per Dio e per noi. Lasciamo, dunque, agire tutti questi rimandi letterari che, come in ogni poesia, sanno parlare agli strati più profondi dell’intelletto umano; non sono che pallidi suggerimenti per suscitare la riflessione personale, approfondendoli o, perché no, anche confutandoli, ma sempre per riaccendere la partecipazione attiva al rito sublime della colletta e andare incontro a Cristo profondamente rinnovati senza sprecare la grazia di questo tempo forte.

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