La Messa – IV parte: dalla Preghiera eucaristica

Catechesi liturgiche sulla Messa

IV parte – Dalla Preghiera eucaristica alla fine

Filetto, 27 aprile 2014

 

di Emanuele Borserini

 

 

Introduzione

Nel precedente incontro abbiamo osservato che la liturgia eucaristica è caratterizzata da due offertori e due epiclesi. In particolare, la seconda epiclesi è l’invocazione dello Spirito Santo sull’assemblea celebrante affinché anch’essa, come il pane e il vino, divenga l’unico corpo di Cristo. Questa comunione è il compito specifico dello Spirito Santo nel mondo perché egli ci riammette alla comunione trinitaria da cui veniamo. Ascoltiamo il bellissimo prefazio VIII delle domeniche del tempo ordinario:

 

È veramente cosa buona e giusta,
nostro dovere e fonte di salvezza,
rendere grazie sempre e in ogni luogo
a te, Signore, Padre santo,
Dio onnipotente ed eterno.
Con il sangue del tuo Figlio
e la potenza dello Spirito
tu hai ricostituito l’unità della famiglia umana
disgregata dal peccato,
perché il tuo popolo,
radunato nel vincolo di amore della Trinità,
a lode e gloria della tua multiforme sapienza,
formi la Chiesa,
corpo del Cristo e tempio vivo dello Spirito.
Per questo mistero di salvezza,
uniti ai cori degli angeli,
proclamiamo esultanti
la tua lode.

La comunione con il corpo di Cristo sacramentato ci è data per edificare la comunione del corpo di Cristo mistico che è la Chiesa. Scrive Sant’Alberto Magno che “l’Eucarestia è la catena d’oro che ci lega insieme e riporta i molti verso l’unità da cui abbiamo avuto origine: il Padre è uno, da cui, come sorgente, nasce il Figlio e dai due procede lo Spirito Santo”. Quando usciamo dalla Messa facciamo un’esperienza fisica del nostro impegno di portare Cristo nel mondo perché, almeno per il tempo dell’assimilazione, siamo come dei tabernacoli viventi. San Filippo, vedendo una donna che appena ricevuta l’Eucarestia scappava fuori a fare le sue commissioni, un giorno le mandò appresso due chierichetti con le candele. La signora incuriosita tornò dal padre Filippo per chiedere il senso di tale gesto ed egli, facendo una vera e propria catechesi liturgica, le spiegò che quando si porta in processione l’Eucarestia è obbligatorio usare i ceri.

Come è stato deciso che la liturgia eucaristica fosse celebrata proprio così?

Solo la Chiesa ha il diritto e il dovere di legiferare sui suoi riti; nessuno può dare sfogo alla sua creatività e, anche quando è espressamente previsto che si possono cambiare le parole liturgiche, non si può mai tradire la senso del rito. Ci vuole una grandissima formazione per mettervi mano e bisogna sentire tutta la responsabilità che questo comporta. Tuttavia, nel momento speciale in cui essa fa l’Eucarestia, anche la Chiesa non fa che attenersi alle azioni di Gesù stesso nell’ultima cena: “prese” è l’offertorio, “disse” la preghiera eucaristica, “spezzò” i riti di comunione e “diede” la comunione vera e propria.

Entro quale momento è necessario arrivare alla Messa per aver assolto il precetto?

È certamente segno di interesse ricercare un punto di riferimento che ci dia la certezza di aver fatto bene il nostro dovere ma il rischio non remoto è quello di ridurre le cose importanti solo a quelle necessarie alla validità della celebrazione. Questo rischio riguarda sia chi vi partecipa sia il sacerdote che presiede e può accadere per tutti i sacramenti. Se è vero che nel momento della consacrazione avviene qualcosa di determinante, non possiamo dimenticare le condizioni per cui ciò avviene. Anzitutto è lo Spirito Santo che lo permette, dunque accanto alle parole e alla materia ad validitatem anche l’epiclesi è un momento non meno fondamentale. La Messa non è una magia ma un incontro con un amico speciale. Quando incontriamo qualcuno a cui vogliamo bene non stiamo a calcolare i gesti e le parole necessari per dire di averlo incontrato. Non c’è solo l’abbraccio ma anche uno stare insieme a chiacchierare e il desiderio di passare del tempo insieme. La liturgia eucaristica può essere paragonata all’abbraccio, la comunione addirittura al bacio, ma anche tutto ciò ha senso per il contesto dell’amicizia. Nell’incontro c’è anche il momento in cui ci si avvicina, sono i riti iniziali, e quello in cui ci si lascia con la promessa di ritrovarsi presto, i riti finali, e uno stare insieme a parlarsi e guardarsi, come la liturgia della parola. Un tempo si diceva che era necessario essere presenti almeno dalla scopertura del calice, cioè dall’offertorio. Oggi non c’è più questa norma perché la nostra possibilità di accedere alla presenza del Signore si realizza per tutto il contesto celebrativo. Ma anche fuori dal momento della celebrazione ci può essere un contesto di offertorio e adorazione se viviamo uno stile di vita liturgico. Ecco perché la validità più che la sistemazione della nostra coscienza è il servizio a quelle situazioni estreme in cui l’assunzione del rischio della vita per poter celebrare l’Eucarestia può sostituire il resto dell’incontro sacramentale.

Cosa vuol dire “Mistero della fede”?

Questa espressione che spesso ripetiamo senza molto badarci esprime il significato di ciò che stiamo facendo. Anzitutto ci parla di “mistero”: quando siamo davanti all’Eucarestia entriamo davvero nel mistero di Dio. Mistero non significa qualcosa di indeterminato che non ci riguarda, al contrario se non lo comprendiamo è solo perché troppo luminoso e troppo coinvolgente. Il memoriale liturgico che ci prende e ci riporta davanti al sacrificio della croce ci riporta anche nella Trinità. La conclusione ci pone invece “nell’attesa della tua venuta”: contempliamo il Mistero sotto i veli del sacramento che è il modo più alto datoci per avvicinarlo ma sappiamo che un giorno sarà svelato completamente. Ed è un mistero “della fede”, una certezza non scientifica ma superiore perché non è basata sulla ripetitività della natura ma su Dio stesso. E allora non ci sarà più liturgia perché tutto sarà chiaro ma per poter accedere a quel giorno dobbiamo abituarci ad avvicinarlo così. Il rapporto con il Signore è libero, non ci obbligherà nemmeno alla fine, si entra pian piano nel suo abbraccio. Dice Ratzinger che la liturgia è l’“escatologia realizzata” perché l’incontro finale è lì già sperimentabile, in forma diversa ma sostanzialmente è lo stesso Signore Gesù Cristo. La venuta intermedia tra quella nella carne quella nella gloria non è un surrogato di esse ma è davvero il Signore che ha promesso di essere con noi per sempre (cfr. Mt 28,20). Il fervore con cui aspettiamo la venuta del Signore che nessuno sa nemmeno quando avverrà deve essere lo stesso con cui attendiamo di andare alla Messa di cui conosciamo perfettamente lo svolgimento.

Cosa dice la lunga preghiera che il sacerdote recita da solo dopo la consacrazione?

Dopo le parole della consacrazione ci sono il secondo offertorio e la seconda epiclesi di cui abbiamo già parlato e poi le intercessioni che ci mettono in comunione con la Chiesa universale. Anzitutto si prega nominalmente per il Papa e il Vescovo. Essi rappresentano la Chiesa visibile perché dove c’è il pastore universale e un territorio abitato da cristiani attorno ad un vescovo lì c’è la Chiesa. Non è possibile pregare in modo individuale, la possibilità di essere da soli fisicamente non significa che si prega da soli. Si entra sempre in una comunione che apre la nostra piccolezza sull’infinito di Dio e alla grandezza di tutto il mondo. Non solo i singoli, ma anche l’assemblea non è fine a sé stessa. Anzi, quando un’assemblea liturgica si chiude perde significato perché falsa il mistero nel cui nome è radunata, la comunione della Trinità. Quando un cristiano o un gruppo ecclesiale è individualista e pensa di essere il migliore rispetto al resto della Chiesa, inevitabilmente i suoi membri si metteranno ben presto l’un contro l’altro armato. Rotta la comunione ecclesiale è perso tutto perché lo stare insieme cristiano non è fondato sulla simpatia reciproca ma su Dio. Poi si prega per i defunti: uno in particolare, tutti i battezzati ma anche tutti coloro dei quali “tu solo hai conosciuto la fede” (Preghiera eucaristica V/A). La salvezza di tutti passa necessariamente per la preghiera della Chiesa perché essa è il corpo di Cristo, l’unico mediatore presso Dio. Dunque quando celebriamo la liturgia abbiamo una grande responsabilità: stiamo lavorando per tutti! Infine si invoca la Chiesa celeste: Maria, San Giuseppe (il cui ricordo ora papa Francesco ha decretato in piena autorità che sia esteso a tutte le preghiere eucaristiche) e tutti i santi. Una volta all’anno viene qui posto un altro segno di universalità: la benedizione dell’olio degli infermi. Alla Messa sono presenti tutti, anche coloro che riceveranno quella stessa Eucarestia nel letto della loro sofferenza. La possibilità di partecipare interiormente alla liturgia si espande così a dismisura perché ogni volta che offriamo a Dio le gioie e i dolori della vita ci uniamo all’offertorio di Gesù che è perfetto e gradito a Dio. Al termine delle intercessioni c’è una dossologia, parola difficile che significa dare gloria. Essa esprime che la liturgia e tutta la nostra vita sono cristocentriche: tutto passa per Cristo, egli è l’unico sacerdote, l’unico mediatore tra noi e il Padre. Possiamo giungere al Padre solo per mezzo di lui ma questo perché il Padre per primo ha voluto fare tutto per mezzo di lui e in vista di lui (cfr. Col 1,16).

Cosa vogliono dire le preghiere dopo il “Padre nostro”?

Non dobbiamo considerare solo le parole insegnateci da Gesù ma tutto il rito del “Padre nostro”. Esso è costituito anzitutto da un invito alla preghiera, il cui testo classico conclude: “osiamo dire”. È un grande privilegio chiamare Dio padre e se Gesù non ci avesse reso partecipi della sua figliolanza non lo potremmo fare, il prefazio VII dice addirittura: “hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio”. Poi troviamo le parole evangeliche e una preghiera in cui parla di nuovo il sacerdote da solo riprendendo l’ultima invocazione che è quella più delicata perché si occupa di un mondo a noi oscuro ma veramente operante. Quando si parla del diavolo bisogna stare molto attenti, allora meglio delegare il sacerdote che è stato scelto da Dio per occuparsi di queste cose. La conclusione, infine, è un’altra dossologia che ci spiega cosa significa l’essere padre di Dio: egli lo è perché ha tutta l’autorità e tutto è suo. Ma un padre si aspetta dai figli molto più di quello che un giudice si aspetta dagli imputati. A volte pensiamo che la misericordia sia la negazione della giustizia di Dio. in realtà, è proprio se fosse solo un giudice che sarebbe più facile sfuggirgli perché tutto si ridurrebbe ad assolvere una serie di precetti, ma poiché è padre non c’è solo un rapporto di conteggio ma l’impegno totalizzante dell’amore.

Come deve essere vissuto lo scambio di pace?

Si tratta di un segno, sicché non c’è bisogno di dare la mano a tutti i presenti. Tuttavia, proprio perché è un simbolo liturgico non è solo informativo, cioè non rappresenta vagamente la pace, ma è anche performativo: con la persona con cui lo si fa, si è messo veramente pace. Perché quella che portiamo non è la nostra pace ma la pace di Cristo che viene dalla comunione perfetta della Trinità. Nella forma straordinaria il sacerdote bacia l’altare ricevendola direttamente dal Risorto, poi la dona al diacono, lui al suddiacono e questo al ministro successivo e così via. È l’unica pace di Cristo che vivifica tutta la Chiesa. Accogliere la pace di Cristo è l’unica possibilità di portare davvero la pace nel mondo, se pensassimo di portarla a modo nostro faremmo i campi di concentramento. Ecco che la sapienza della Chiesa, attraverso la liturgia, ci richiama continuamente al concreto: incominciamo a fare la pace col vicino di banco, poi si potrà ragionare di portarla tra le classi sociali e gli Stati!

L’“Agnello di Dio” si deve cantare durante il rito della pace?

Quello della pace e quello della frazione del pane sono due riti diversi e consecutivi. Il secondo è accompagnato dall’invocazione a Cristo, il vero agnello sacrificale che ci salva e “frazione del pane” era anticamente il nome stesso della Messa. Spezzata l’ostia, il sacerdote ne mette un frammento nel calice: è un gesto di comunione. Nei primi secoli, il papa mandava una parte dell’eucarestia consacrata nella sua Messa tramite i diaconi a coloro che celebravano lontano. Poi incominciarono a farlo anche i vescovi fuori Roma ma quando il cristianesimo uscì dalle campagne verso le città e le parrocchie aumentarono di numero non fu più possibile. Tuttavia, rimase come segno liturgico di comunione di ogni assemblea con la Chiesa locale tanto che nella Messa solenne nella forma straordinaria il suddiacono resta ai piedi dell’altare rivestito del velo omerale per tutta la preghiera eucaristica. L’agnello invocato è davvero lì presente e nella formula latina con cui il sacerdote lo presenta all’assemblea ripete due volte l’avverbio ecce per sottolineare questa realtà. Qui ci si può rimettere in ginocchio come per tutta la preghiera eucaristica, non è obbligatorio ma se è uso è “lodevole” che venga conservato (cfr. IGMR 43).

Una questione spinosa: Comunione sulla mano o in bocca? In piedi o in ginocchio?

Per fugare ogni dubbio diciamo immediatamente che sono tutte possibilità ugualmente ammesse dalla Chiesa. Ciò che è stabilito per certo è che l’Eucarestia si riceve, non la si prende da sé perché è un dono, è il dono che il Signore ci fa di sé stesso. Il Signore ci ha dato un’intelligenza e dobbiamo usarla: in base alle poche indicazioni come quella che si faccia un gesto di riverenza prima di riceverla, al contesto, alla formazione dell’assemblea, alla propria sensibilità, possiamo discernere come è meglio fare in ogni situazione. L’importante è avvicinarsi con consapevolezza e con tutta la disponibilità del cuore perché un grande dono è una grande responsabilità. Il modo migliore non c’è perché se la Chiesa nella sua grande sapienza li permette tutti significa che tutti sono adatti al loro contesto. Certo, anche la comunione in mano deve essere fatta in un modo preciso: la mano sinistra sopra alla destra in modo che la questa poi possa prendere la particola e portarla alla bocca, costituendo come un trono. Una grande rilevanza ha anche il modo di avvicinarsi all’altare per ricevere l’Eucarestia: poiché la comunione non è mai un rapporto privato, il popolo di Dio si muove processionalmente in modo unito e ordinato.

Come si deve fare il ringraziamento?

La comunione con Dio non è un fatto privato. E il ringraziamento è perfettamente bilanciato tra un momento personale di dialogo cor ad cor con il Signore e un momento comunitario che prevede la preghiera vocale, il canto che è il modo migliore di unire le voci. Stabilire in quale ordine disporre i due momenti spetta al sacerdote o di chi prepara la liturgia ma ci devono essere entrambi per non smarrirne il senso. Poi l’orazione postcommunio conclude il rito come le due orazioni precedenti raccogliendo i sentimenti di tutti.

È proprio obbligatorio dare gli avvisi?

Certamente non lo è e se non c’è niente da dire meglio stare zitti. Tuttavia, dobbiamo osservare che questa prassi, prevista dal Messale, non è solo funzionale ma ha un certo rilievo teologico perché è come una prima concretizzazione della comunione, la possibilità di viverla in una comunità reale. Immediatamente comprendiamo che essa non è un bel sentimento e che il culmine della presenza del Signore che troviamo nella celebrazione eucaristica va portata a cascata in tutte le attività ecclesiali. Ovviamente devono avere anch’essi uno stile liturgico: parole poche, semplici e chiare.

La conclusione della messa è il canto finale?

A conclusione della Messa ci sono due riti ugualmente importanti. Anzitutto la benedizione che ci riporta all’inizio quando avevamo posto tutto nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La benedizione rappresenta anche la sovrabbondanza della grazia del dono di Dio perché se già l’Eucarestia è la più grande benedizione alla fine c’è un’altra benedizione, come il sangue e l’acqua sgorgati dal costato trafitto di Gesù dopo che già era morto per noi. Ad essa segue il congedo. Entrambi sono momenti presidenziali in cui il sacerdote agisce in persona di Cristo capo per questo deve dire “vi benedica” e “andate”. Alcuni pensano di valorizzare l’assemblea chiedendo a suo nome la benedizione e il congedo con la prima persona plurale mentre in realtà la stanno privando di una forma di presenza del Signore strettamente connessa a quella reale dell’Eucarestia. Il congedo, inoltre, è meglio chiamarlo mandato perché la Messa non finisce: per un cristiano tra il culto e la vita c’è una perfetta continuità. Il canto finale non è necessario ma ci aiuta ad uscire gradualmente dalla celebrazione come eravamo entrati. Ci siamo affacciati sull’eternità, abbiamo partecipato alla battaglia cosmica, uscirne repentinamente lascerebbe spiritualmente destabilizzati.

Concludiamo i nostri incontri con il più bello dei testi proposti per il mandato che ci dice cosa significhi avere uno stile di vita liturgico, lo stile che di cuore vi auguro: “Glorificate il Signore con la vostra vita: andate in pace”.

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