La libertà nella liturgia

Catechesi liturgica 27 gennaio 2013

 “Esegui secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte” (Es 25,40).

La libertà nella liturgia

 di Emanuele Borserini

 

Introduzione

Nel precedente incontro abbiamo cercato di far emergere come la liturgia non sia un mondo poi così lontano dalla nostra vita ma come, al contrario, sia una dimensione che la accompagna sempre. Simbolo, regole e atti “inutili” caratterizzano naturalmente la vita umana. Così, abbiamo anche scoperto che ciò che la Chiesa fa è prendere questa capacità naturale dell’uomo e usarla per esprimere al meglio la sua preghiera ufficiale, il dialogo con il suo Sposo. Abbiamo dunque ragionato sulla direzione che va da noi verso Dio ma, per non cadere nell’errore di credere che sia tutta opera nostra, questa volta cercheremo di dire qualcosa sul percorso inverso: Dio che viene incontro a noi e ci mostra come fare per rendere vera ed efficace questa comunicazione. Cercheremo poi di approfondire quale sia il posto riservato alla nostra libertà in questo rapporto. Per farlo ci lasceremo guidare da alcuni testi biblici che accompagnano il comando divino scelto come titolo. E ad aiutarci in questo percorso, che vuole essere una semplice ma vera lectio divina, ci sarà la riflessione che su di essi ha compito Joseph Ratzinger nel suo libro “Lo spirito della liturgia, un’introduzione”. Partiamo allora dai due luoghi in cui nella sacra Scrittura Dio dice: “Esegui tutto secondo il modello che ti è stato mostrato sul monte”. Anzitutto c’è Es 25, 40 dove Dio descrive come dovrà essere costruita e arredata la tenda in cui Egli stesso andrà ad abitare in mezzo al suo popolo; e poi Eb 8, 5 dove è ripreso dall’autore della lettera nel contesto della lunga trattazione sul sacerdozio di Cristo. Questa citazione che la Scrittura fa di se stessa ci fornisce immediatamente il contesto in cui collocare tutto il discorso: il ruolo di mediazione salvifica del Signore Gesù, unico e vero sommo sacerdote. Dobbiamo tenere presente che nei capitoli 8 e 9 della lettera agli Ebrei, che peraltro è il libro del Nuovo Testamento più esplicitamente liturgico, i riti dell’Antico Testamento non sono disprezzati ma presentati come ombra di quelli reali cioè di quelli compiuti da Gesù. Si tratta del mistero stesso della salvezza spiegato con categorie liturgiche. Per inciso, il solo fatto che l’autore sacro usi categorie liturgiche per parlare dell’argomento centrale della fede ci fa capire quanto questo mondo sia tutt’altro che secondario per un cristiano.

Prima di entrare nel vivo dei testi che andremo a vedere è necessario fare alcune considerazioni sul termine “libertà”, perché se non ci intendiamo su questo è poco utile andare avanti. Abbiamo già visto che un aspetto determinante nella liturgia è la presenza delle regole. Dirò ora una cosa che risulterà sconvolgente ad orecchi post moderni come i nostri ma che rimane profondamente vera: la norma è la garanzia della libertà. Sub lege libertas recita il motto della Polizia di Stato italiana. Senza di essa si scade nell’anarchia che è la parodia della libertà perché annulla i diritti in nome della dittatura del più forte. Si può fare anche una distinzione: noi comunemente intendiamo la nostra libertà come una “libertà da” cioè l’essere sciolti, ab soluti in latino, da qualcosa, mentre essa è fondamentalmente una “libertà per” cioè la possibilità di realizzare e portare a compimento il progetto di Dio su di noi. L’uomo non si accontenta di crearsi un vuoto e una volta creato lo deve immediatamente riempire con qualcosa; non avere nulla da fare non è nemmeno riposante. L’esperienza stessa ci mostra che nessuno può dire di essere assoluto, sciolto da qualsiasi vincolo. Con la fede possiamo andare oltre e scoprire che questa realtà non è una deficienza contro cui combattere ma, al contrario, è ben radicata in una dipendenza originaria: noi siamo creati da Dio, di conseguenza siamo relativi a lui. E relativo è il contrario di assoluto. Ma leggiamo cosa ci dice la Scrittura, per capire chi è questo essere da cui dipendiamo non servono grandi sistemi ma tre semplicissime parole: “Dio è amore” (1Gv 4, 8 e 16). Allora, provenire ed essere relativi a qualcuno che ama, anzi che è l’amore stesso, è la cosa più bella e più liberante. La liturgia è una scuola per imparare ad amare. E cosa c’è di più misterioso dell’amore? Molti ne restano scandalizzati e, da qualche secolo, si impegnano a liberare loro stessi e la società dall’ingombro di Dio. Ma è il non volerlo riconoscere che rende schiavi di tutto e tutti, anzitutto di se stessi. Come è stato giustamente detto da qualcuno a proposito della fede: “chi non vuol credere a niente finisce per credere a tutto” (attribuito a Chesterton). Si è voluto spazzare via il mistero ma se ne è creato un altro; anche l’arte astratta di oggi ci comunica qualcosa: il vuoto lasciato dal mistero. Noi non possiamo capire il mistero di Dio non perché non ci sia niente da capire ma, al contrario, perché c’è troppo da capire, è troppo luminoso. Mentre avendo rifiutato Dio l’uomo ha creato un mistero di vuoto.

Per comprendere il legame tra la libertà e la norma facciamo un esempio preso dalla storia dell’arte. Uno dei momenti più fantasiosi e creativi è a mio avviso il barocco; ebbene, questo movimento artistico nacque proprio nell’epoca della Controriforma, cioè la reazione cattolica al delirio protestante, quando la necessità di preservare la fede imponeva agli artisti le più ferree regole iconografiche. In questo si vede la grandezza di un artista: esprimere bellezza non eludendo le regole ma servendosi di esse. E il cristiano che fa liturgia è un artista in questo senso profondo del termine.

Mosè e il faraone (Es, capitoli da 7 a 10)

Riguardo alla lunga narrazione delle trattative di Mosè con il faraone intervallata dai racconti abbastanza famosi delle cosiddette piaghe d’Egitto, Ratzinger propone un’interpretazione originale e profonda. Egli ci invita, leggendo attentamente i vari dialoghi, a scoprire quale sia il vero motivo della continua richiesta di Mosè di permettere al popolo di Israele di uscire dal territorio egiziano e la individua in un’esigenza legata all’adorazione di Dio. Siamo forse abituati a collegarlo immediatamente con la “terra promessa” ma anche la presenza di quest’ultima è continuamente presentata in funzione del culto. Vediamo infatti come Mosè rifiuti continuamente le più o meno benevole offerte propostegli dal faraone: dapprima sacrificare all’interno dei confini del paese, poi far uscire solo gli uomini (che secondo la concezione antica erano gli unici protagonisti del culto), poi far partire anche donne e bambini ma non i greggi e gli armenti. Perché? La verità è che egli non può negoziare le modalità del culto con un uomo. La liturgia, anche secondo l’Antico Testamento, porta la sua norma in se stessa, può essere regolata solo da Dio.

Facilmente si potrebbe pensare che sia una tattica per poi fuggire ma ciò non renderebbe giustizia alla serietà del testo. Inoltre, se si trattasse solo del desiderio di un’indipendenza nazionale verrebbe qui contraddetta la natura stessa di Israele che è popolo solo in virtù dell’elezione divina. Così la Chiesa, popolo di Dio per elezione, ha una terra cioè una visibilità, è in qualche modo una società, ma la possiede proprio in funzione del culto cioè del suo rapporto con Dio che si esplicita nella liturgia. L’interpretazione della terra promessa in funzione dell’adorazione è confermata in seguito da tutto il grande movimento dei profeti che tende verso una sempre più profonda spiritualizzazione della terra: essa diventerà via via più chiaramente il santuario del cuore di ogni fedele. Un semplice adattamento del pensiero teologico del’Antico Testamento davanti all’evidenza che la terra non sarà più posseduta realmente (soprattutto in seguito all’esperienza drammatica dell’esilio)? Una tale soluzione, oltre che semplicistica, sarebbe blasfema, anche perché la stessa linea è percorsa da Gesù in molti dei suoi detti. Possiamo dunque cogliere nei colloqui tra Mosè e il faraone che la libertà a cui il popolo di Dio anela non è tanto dalla schiavitù quanto piuttosto la condizione per servire Dio. Notiamo così che la sua connotazione fondamentale di “essere per” rimane, cambia però il termine: non più per degli uomini ma per Dio. La libertà nella storia successiva di Israele sarà sempre strettamente connessa con la corretta direzione del culto: ogni volta, infatti, che il popolo lascerà la libertà di Dio per dedicarsi alla schiavitù degli idoli perderà sistematicamente anche la libertà intesa come indipendenza nazionale, fino alla conseguenza estrema dell’esilio. Potrà verificarsi anche una situazione strana: il popolo che vive nella terra promessa eppure rimane schiavo come era in Egitto, schiavo dei suoi idoli. Così anche noi possiamo trovarci fare delle “cose” liturgiche ma se il cuore non è veramente libero, cioè rivolto a Dio (come dichiariamo solennemente nel dialogo del prefazio: “In alto i nostri cuori. Sono rivolti al Signore”), siamo come schiavi nell’Egitto delle nostre passioni momentanee. Cos’è che ci può garantire da questa schiavitù? La risposta è proprio la liturgia intesa anche nel complesso delle sue norme, usanze e suggerimenti.

Quello che facciamo qui sulla terra è inizio della liturgia eterna (cfr SC 8), il gioco che si vuole avvicinare a quella realtà (per usare l’espressione del grande Romano Guardini sui cui ci siamo soffermati la volta scorsa). Per questo Dio stesso, come una mamma al suo bambino, ce la insegna cosicché un giorno, adulti davanti a lui, la celebreremo per sempre. Con queste regole, dunque, Dio insegna all’uomo ad amarlo ma anche ad amarsi perché esse gli permettono di rispondere alla sua vera natura invece di degradarsi in vane ricerche di felicità ingannevoli. L’atteggiamento di Dio allora non è un’imposizione o un atto narcisista ma è il vero amore, quello che vuole anzitutto il bene dell’amato. Questa verità è espressa nella colletta della I settimana del Tempo Ordinario: “Ispira nella tua paterna bontà, o Signore, i pensieri e i propositi del tuo popolo in preghiera, perché veda ciò che deve fare e abbia la forza di compiere ciò che ha veduto”. Questa preghiera non ha solo un aspetto morale, anzi, esso è secondario perché il riferimento esplicito è al popolo in preghiera cioè all’assemblea liturgica. La Chiesa, proprio all’inizio di quello che è giustamente definito il “tempo della Chiesa”, chiede a Dio di mostrare ciò  che deve compiere e la forza per farlo perché sa che la liturgia è cosa seria, non scontata, che Dio stesso ispira e guida. L’uomo allora diventa cosciente che non può fare da sé il culto, egli affermerebbe il vuoto se Dio non si mostrasse. Dice infatti Mosè al faraone: “Noi non sappiamo ancora quel che dovremo sacrificare al Signore” (Es 10, 26) perché se Dio non lo mostra, l’uomo in base a quell’intuizione naturale di cui abbiamo parlato la volta scorsa, può innalzare altari al “dio ignoto” (At 17, 23) e tentare di avvicinarsi a lui ma la liturgia resterebbe un grido nel buio o, peggio, un’autoaffermazione di sé, un’illusione. È il Signore che ci ha detto per primo “ti amo” e lo ha fatto concretamente facendosi uomo. La stessa coscienza è espressa nel Prefazio comune IV: “Tu non hai bisogno della nostra lode ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie”. Con questo è fugata anche l’idea che qualcuno si può essere fatto che questa rigidità riguardo alle formule e ai gesti avvicini pericolosamente la liturgia alla magia; al contrario, proprio chi riconosce la grandezza del mistero non può più cedere al desiderio di possederlo e usarlo per altro scopo. Se la liturgia è un mistero d’amore è esattamente il contrario della magia che tende a possedere e dominare l’Altro. Modello della libertà dell’uomo non può allora che essere la libertà di Dio: Egli, libertà suprema, nei sacramenti si vincola volontariamente a un’azione umana, Egli stesso ha decretato che la salvezza portata dal suo Figlio unigenito fosse vincolata ai limiti del suo corpo umano. Egli è onnipotente e può sempre andare oltre a qualsiasi limite (infatti Deus non alligatur sacramentis) mentre noi non lo siamo e per rendercene conto basta l’esperienza, per questo ci ha dato un tale modello. Nei sacramenti la parola e il gesto operano davvero una realtà: se un sacerdote validamente ordinato dice su del pane di frumento le parole del Signore, quello diventa corpo del Signore. Ma questo in virtù della sua promessa non perché noi ne abbiamo scoperto la formula magica. Il termine sacramento deriva dal latino sacramentum cioè il giuramento del soldato romano che era quanto di più sacrale e impegnativo poteva esserci nell’epoca della formazione del linguaggio teologico occidentale.

Scopriamo così che la libertà intesa come creatività è troppo pericolosa per noi. Infatti, in liturgia è meglio parlare di “interpretazione”, come un buon attore non legge pedissequamente il copione e interpreta il suo personaggio in un modo davvero originale, però non lo può del tutto reinventare senza distruggerlo. Un esempio lo possiamo rinvenire nel canto gregoriano, che, ricordiamolo, il Concilio Vaticano II raccomanda espressamente come norma universale per tutto il canto liturgico (SC 116-117). Esso più che il cosa cantare ci dice come cantare perché è frutto della preghiera di secoli che ha portato a fare di esso una vera lectio divina. Le melodie gregoriane parlano davvero del loro contenuto sottolineando dei testi le parti più importanti, il rapporto tra le parole e le frasi, esprimendo concetti teologici attraverso il numero e l’altezza delle note … Per esempio, il lungo vocalizzo sulla parola virgo dell’inno Ave maris stella indica che la verginità di Maria è tale prima, dopo e durante il parto. Il canto gregoriano può essere un modello di libertà liturgica: non è necessario ripetere oggi gli stessi brani consegnatici dalla tradizione (quello sarebbe l’ottimo, ma dobbiamo fare i conti con la realtà delle nostre assemblee che sono completamente impreparate), perché spesso sono difficili o improponibili ai nostri orecchi, quel che è invece da ritenere è di seguire lo spirito del gregoriano cioè scegliere o comporre canti nuovi che davvero esprimano la fede che con quella liturgia si vuole professare (sul rapporto tra fede e liturgia approfondiremo la prossima volta).

La struttura dei sacramenti prevede sempre un’epiclesi, cioè l’invocazione dello Spirito Santo, perché, come la presenza nel mondo di Gesù è avvenuta per opera sua, così avviene anche per la presenza sacramentale. Lo Spirito Santo è definito da alcuni mistici “Fantasia di Dio”. La sua caratteristica è quella di suscitare nella Chiesa continua multiformità che, attenzione, non è in alcun modo dispersione, al contrario, la multiformità tende ad unum come uno è Dio, uno in tre persone. La multiformità, non la pluralità che invece dice qualcosa di accostato senza bisogno di un ordine, si trova in Dio stesso perché Egli è relazione d’amore, quindi libertà. Una grigia uniformità dunque nella liturgia non sarebbe accettabile, pur tuttavia la molteplicità delle legittime forme è vera, è buona solo se porta all’unità che è la stessa missione dello Spirito Santo nel mondo, quella cioè di operare la comunione, l’unità tra noi e con Dio, come le due nature in Cristo tendono all’unità della sua persona che è quella del Verbo. Così suona anche il saluto liturgico all’inizio della messa: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2 Cor 13, 13). In architettura per dare una sensazione di vitalità ad una facciata la si costruisce su particolari tutti diversi ma che insieme danno un’unità armonica.

Se il modello è Cristo e colui che lo rende oggi vivo e operante è lo Spirito Santo, allora, il segreto della liturgia è lo stesso di tutta la vita cristiana: perdersi per trovarsi (Lc 17, 33). Un esodo permanente dell’io chiuso in se stesso che si pensa libero in modo assoluto verso la liberazione che si vive pienamente nel dono di sé (cfr Benedetto XVI, Deus charitas est, 6), uscire dall’orgoglio di non volere regole e lasciarsi guidare da chi è veramente libero e ama davvero, Dio. Con il discorso sulla libertà nella liturgia siamo ai fondamenti della nostra fede, non possiamo permetterci di trascurarlo proprio nel momento culmen et fons di tutta la vita cristiana che è la liturgia secondo il Concilio Vaticano II (SC 10).

Il vitello d’oro (Es 32)

Ratzinger fa notare come in questo evento non si esprima propriamente un rivolgersi a un dio pagano perché l’intenzione del popolo guidato dal sacerdote Aronne è sempre quella di glorificare colui che lo ha liberato dall’Egitto. La vera idolatria che vi si nasconde è piuttosto il desiderio irresistibile di fuggire da quel Dio che rimane troppo velato, misterioso, invisibile, lontano; il desiderio di rendere Dio a propria immagine, tangibile, utilizzabile, di farlo entrare nella propria dimensione; un ergersi al di sopra di lui per piegarlo al proprio piacere e affermare così il proprio potere. La cosa sconvolgente è che Dio è davvero entrato nella dimensione dell’uomo ma a modo suo, non come vorremmo noi, anzi, Egli vi è entrato in modo così vero e radicale da suscitare lo scandalo di coloro che vorrebbero un Dio più vicino, a patto però che non sia così vicino da incarnarsi! Mosè rimane assente troppo a lungo quindi anche Dio è sempre più inaccessibile, ma ecco che invece di approfondirne la conoscenza nella fede, Dio viene portato al proprio livello e il culto diventa una festa che la comunità si dona da sé. Le danze descritte dal testo rappresentano plasticamente proprio il ruotare attorno a se stessi (v. 19). Ma questo è l’esatto opposto della liturgia che è per definizione adorazione cioè rivolgere totalmente se stessi a Dio. La festa allora non è più lodare Dio ma uno stornarsi da lui, si riduce a mangiare, bere, divertirsi (v. 6)… Così la liturgia diventa un gioco vuoto, ma il vuoto per l’uomo è causa di frustrazione e cadendovi non si può più fare quell’esperienza di liberazione che si verifica dovunque avviene un incontro con il Dio vivente. Il rischio è quello di non amare tanto la persona che ho davanti ma l’immagine che mi sono fatta di lei. Chi è Dio lo dobbiamo imparare e lo dobbiamo accettare com’è, attraverso anche i misteri della liturgia e dei sacramenti; per raggiungerlo è richiesta una certa disciplina. Un dio che ci costruiamo noi può inizialmente divertirci ma non può durare.

Una libertà che voglia sorpassare le regole del gioco scivola inesorabilmente verso l’individualismo, fosse anche dell’assemblea la quale invece è sempre cattolica in virtù dell’unico soggetto che in essa agisce: Cristo (cfr SC 7). Il suo unico attore non può che essere Gesù stesso perché per definizione la liturgia è “memoriale” cioè la vera ripresentazione degli eventi salvifici; non è un semplice ricordo e nemmeno avviene un nuovo Calvario, siamo piuttosto noi che veniamo resi presenti a quell’unico e definitivo evento di salvezza. Io sono sottratto al mio oggi per essere messo dentro all’oggi di Dio e questo per una forza che viene dall’alto, non certo per la mia energia con cui ricordo. Per esempio, le teorie di santi dell’arte bizantina sono rappresentate con una prospettiva falsata non perché gli artisti dell’epoca non fossero ne conoscessero le regole ma perché quando si entra in chiesa si entra in un’altra dimensione, un’altra prospettiva, un altro tempo. Il memoriale è possibile perché il sacrificio d’amore di Gesù è stato perfetto e un atto perfetto non passa più, così si rende presente quell’unico sacrificio. Dice l’orazione sulle offerte della II Domenica del Tempo Ordinario: “ogni volta che celebriamo questo memoriale del sacrificio del tuo Figlio, si compie l’opera della nostra redenzione”. Non va perso di vista che nessuna liturgia è ad uso e consumo proprio, di una persona come di una comunità, ma è sempre preghiera della Chiesa universale tanto che nessuno dovrebbe mai capitare nel mezzo di una liturgia e sentirsi del tutto estraneo. Questo è ciò che si intende per cattolicità della Chiesa. Questa coscienza è espressa, per esempio, dalla spersonalizazione del celebrante arrecatagli dalle vesti liturgiche che lo coprono interamente e ne nascondono anche le forme corporee. Quando il sacerdote conclude le orazioni dicendo “Per Cristo nostro Signore” usa un’espressione fondamentale della liturgia perché esprime che tutto facciamo nell’unico soggetto di essa, Cristo Signore. Chi vive l’universalità della Chiesa che si esprime nella liturgia non si permetterà di arrivare in ritardo, oppure di andare in Chiesa solo per le messe celebrate peri “suoi” defunti, oppure di perdersi in devozioni personali durante le celebrazioni comunitarie perché sa che non esiste la “mia” messa ma solo la preghiera di tutta la Chiesa. Come il grande attore si identifica con il personaggio così nella messa il Signore si vuole identificare con me per arrivare a dire come san Paolo “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).

Se allora ciò che conta è la mia identificazione personale sorge una domanda: non sarebbe meglio una maggiore essenzialità nei riti? Ma ciò che rende davvero essenziale la liturgia sono proprio le sue regole mentre il sentimento che ci porta a pensarlo è per sua natura esuberante e individuale. Oppure un’altra: non sarebbe meglio una maggiore comprensione della liturgia? Ma proprio le norme che Dio ha suggerito alla Chiesa nella sua secolare esperienza permettono di conservare il giusto grado di mistero: se si capisce tutto non è liturgia perché non c’è più simbolo ma se non si capisce nulla non serve nemmeno a nulla. La questione della comprensione ci fa pensare immediatamente ai commenti che a volte vengono letti durante la liturgia. Essi rischiano di oscurare il senso delle parole e dei gesti che sono costruiti secondo un codice simbolico e distruggerlo volendolo spiegare a parole li fa diventare incomprensibili, come se si volesse leggere secondo la pronuncia italiana un testo scritto in lingua inglese. I riti hanno una potenza espressiva enorme, parlano cioè alle corde più profonde del cuore e della mente coinvolgendo tutti i sensi, la parola invece, anche se ci può sembrare il contrario, è molto riduttiva da questo punto di vista. Quando va bene, i commenti sono delle catechesi, ma se anche fossero delle bellissime catechesi resta il fatto che non è liturgia. Sarebbe come voler sostituire un rapporto sessuale con un manuale di anatomia. Il fatto che ci sia sull’altare un libro grande e ben visibile, il messale, non è solo funzionale ma è a sua volta un segno, è il simbolo della nostra dipendenza da un Mistero che ci supera. Chiunque è chiamato a svolgere un  ministero nella liturgia è tenuto a rispondere alla vocazione di essere ministro che significa servo.

Al termine del commento ai brani di Mosè e il faraone abbiamo scoperto che il segreto della liturgia è lo stesso di tutta la vita cristiana: perdersi per trovarsi, lasciare la schiavitù di se stessi per la libertà dell’amore. Ora possiamo dire più concretamente che, se questo è il cammino della santità e la definizione più semplice, e per questo più vera, della santità è esattamente rispondere alla propria vocazione, la liturgia ci da la possibilità di fare una vera e propria palestra (sull’immagine dell’atleta cfr 1Cor 9) di vita cristiana insegnandoci a rispondere alla vocazione di essere ministri.

Conclusione

Vorrei concludere dicendo qualcosa su un tema che mi sta molto a cuore: il rapporto tra liturgia e virilità. Anzitutto va chiarito che non c’è nulla di misogino in questo, il concetto di virilità riguarda la grandezza dell’uomo, sia maschio sia femmina (e solo maschio e femmina, viste le istanze più politiche che antropologiche portate avanti in questo periodo che vorrebbero individuare fino a sette generi diversi!). La grande Santa Teresa d’Avila diceva alle sue suore: “siate uomini!”. E quella che per me, ma questa è una considerazione del tutto personale, è l’immagine della virilità è Maria che “sta” sotto la croce (cfr Gv 19, 25). Con la liturgia si compie uno sconvolgimento universale che squarcia i cieli e rinnova la terra. Dunque non vi è posto per debolezze, frivolezze, cedimenti, incertezze o l’individualismo. È un’impresa da eroi forti e virili. In una parola l’eroe, l’uomo virile, è equilibrato, non si barcamena tra le passioni ma le conosce e le domina raggiungendo così un a notevole apertura mentale. La liturgia è una scuola di equilibrio e apertura mentale che può illuminare tutta la vita. Non tutte le sue regole sono scritte in modo obbligante, ci sono molti testi e gesti lasciati alla discrezione di chi celebra e molte rubriche (che letteralmente significa “scritto in rosso”, infatti le descrizioni dei riti che accompagnano i testi scritti in nero nei libri liturgici sono stampate in rosso) che sono dei semplici consigli. Ma anche dove è scritto soltanto “è lodevole”, come il fatto che si stia in ginocchio per tutto il canone, non significa che sia da evitare accuratamente. Dunque, frequentandola con cuore sincero si può acquisire uno stile e una vastità di orizzonti che permette di viverla pienamente, assaporarla fino in fondo e trarne tutti i vantaggi spirituali che essa può offrire. La regola è fondamentale ma è uno strumento, non il fine! Il fine è l’unione con Cristo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. La liturgia celebra la fede, la storia della salvezza, la vita; ebbene, noi sappiamo che tutta la storia della salvezza è una guerra contro il male che si riflette e che è fatta dall’unione dei nostri personali combattimenti spirituali all’unico grande combattimento salvifico di Gesù. Per questo la liturgia è una cosa virile come la guerra. Abbiamo visto la volta scorsa che la simbologia dei paramenti sacerdotali è tutta improntata su questa idea e anche noi possiamo salire i gradini dell’altare con quel buon equipaggiamento di armi e combattere a fianco di Cristo. L’uomo virile è sicuro di sé, padrone delle sue azioni e domina le sue passioni, è consapevole di quale sia il fondamento di ciò che fa non agisce per istinti o per interesse. La liturgia non è quindi il luogo dell’improvvisazione, delle rivendicazioni personali e nemmeno degli atti troppo sentimentali.  Eppure l’eroe non è rozzo ma veramente e profondamente cavaliere. E il cavaliere sa anche inginocchiarsi davanti all’amata. Nella liturgia si squarcia il cielo, si combatte, viene ripresentato l’evento determinante della storia, quello che ha sconvolto la storia: solo un uomo forte e virile può sopportarlo e trasmetterne la vera portata. Non esistono nella liturgia i concetti di “mi piace – non mi piace” né tantomeno quello di “comodo”. Sono categorie non all’altezza del cristiano che fa liturgia. Inoltre, abbiamo visto che a proprio agio ci si sente quando le cose che si fanno corrispondono al loro senso, alla loro natura, alla loro vocazione.

Abbiamo oggi una grandissima responsabilità nell’adeguare il nostro modo di espletare i riti alla fede che esprimono perché per la maggior parte delle persone la liturgia è l’unica possibilità concreta di trasmissione della fede!

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