Il Pastore-Re

Il Timone, n. 73, maggio 2008
don Pietro Cantoni


“”In verità, in verità vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore per la porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra per la porta, è il pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore una per una e le conduce fuori. E quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”.
Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono che cosa significava ciò che diceva loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità vi dico: io sono la porta delle pecore”” (Gv10,1-7).
“Allora Gesù disse loro: “Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge, ma dopo la mia risurrezione, vi precederò in Galilea”” (Mt 26,31-32).
“”Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme simile al lamento di Adad-Rimmòn nella pianura di Meghìddo. Farà il lutto il paese, famiglia per famiglia: la famiglia della casa di Davide a parte e le loro donne a parte; la famiglia della casa di Natàn a parte e le loro donne a parte; la famiglia della casa di levi a parte e le loro donne a parte; la famiglia della casa di Simeì a parte e le loro donne a parte; così tutte le altre famiglie a parte e le loro donne a parte”. In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità” (Zc 12,10 -13,1).
“Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv19,37)

Nell’Iliade i re sono detti “pastori di popoli”. Questo non succedeva solo nella Grecia arcaica, perché anche presso i Sumeri e gli Assiro-Babilonesi i re si definivano pastori. “Si potrebbe dunque dire che l’immagine di Cristo buon pastore è, secondo le origini di essa, un Vangelo di Cristo re che fa risplendere la regalità di Cristo” (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2007, p. 316). Si tratta ovviamente di un re che “pasce” i suoi sudditi, che si prende cura in modo particolare dei deboli, che esercita la sua regalità non come un mercenario, per trarre il maggior vantaggio possibile, ma come qualcuno che tratta le pecore come qualcosa di suo e quindi da esse è riamato e seguito. Se qualcuna di esse si perde la va a cercare, se si ferisce la cura, se viene il lupo non le abbandona.

Il “pastore” Gesù prende però dei tratti misteriosi quando leggiamo che viene ucciso. “Insorgi, spada, contro il mio pastore, contro colui che è mio compagno. Oracolo del Signore degli eserciti. Percuoti il pastore e sia disperso il gregge […]” (Zc 13,7).
Nel profeta Zaccaria leggiamo di questo evento tragico: il pastore viene ucciso. La sua morte getta Gerusalemme nel dolore. Un dolore profondo e lancinante. L’esempio di questo dolore è ancora più sorprendente: “In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme simile al lamento di Adad-Rimmòn nella pianura di Meghìddo”. Chi è Adad-Rimmòn? È un dio degli Aramei, una divinità appartenente ai culti di fertilità, a proposito del quale si dice che muore e che risorge. I riti che si compiono attorno alla sua figura prevedono lamentazioni rituali prolungate, chiassose e sfrenate. È un mito, legato al ciclo della vegetazione: il chicco di grano deve morire per donare la vita e tutto nella natura obbedisce a questa legge. Gli ebrei hanno nei confronti di queste divinità, e soprattutto dei riti orgiastici che le accompagnano, un fiero disprezzo. Sono divinità vane, sono racconti fantastici, sono riti osceni. Qui però il mito viene evocato come immagine di qualcosa che deve realmente succedere. La conversione di Clive Staples Lewis, che divenne un famoso apologista della fede cristiana, si costruì tutta attorno a questa intuizione (che gli fu suggerita da John Ronald Reuel Tolkien): in Cristo “il mito è diventato storia”. Quello che i miti immaginavano – in modo certamente non corrispondente al reale – ma neppure sganciato da ogni razionalità e coerenza è divenuto vero – di una verità storica, fattuale – nel Verbo fatto carne. Così, se la lamentazione rituale su Adad-Rimmòn è tragica e – per così dire – l’emblema del dolore e della disperazione, essa però sfocia nella gioia. Se nel rito questo può apparire artefatto e troppo spesso accompagnato da pratiche perverse, verrà un giorno in cui tutto ciò sarà purificato e diventerà realtà: “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. […] In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità”. L’esito del dramma è una “eu-catastrofe”, secondo la bella terminologia di Tolkien, un capovolgimento radicale operato dalla potenza salvifica di Dio, in cui Dio – con tutta la sua potenza – mediante la resurrezione di Cristo salva e divinizza l’uomo. Giovanni, il discepolo che Gesù ama, vede nella trafittura del costato di Cristo, da cui escono sangue e acqua e attraverso la quale si intravvede il suo cuore, la realizzazione di questo racconto: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37). Volgere lo sguardo verso qualcuno vuoi dire aspettarsi, nella fede e nella speranza, tutto da questo qualcuno. Chi è infatti costui? Ad infittire il mistero sta il fatto che il testo ebraico di

Zaccaria (a differenza del testo greco – quello della traduzione dei Settanta – citato da Giovanni) ha letteralmente: “guarderanno a me che hanno trafitto”. Dio parla di se stesso come di colui che ha ricevuto la trafittura. Certamente il pastore è qualcuno a lui legato: “colui che è mio compagno”, ma qui il legame si fa strettissimo, si fa identità.
Il Re-Pastore muore per le sue pecore e proprio così le “pasce”, le conduce cioè al pascolo di salvezza e consolazione. Il Pastore è “la porta delle pecore”, nessuno cioè può pensare di pascere le pecore, come lui ha fatto, passando da qualche altra parte, vivendo cioè in un modo diverso.

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