Il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI e l’ermeneutica della continuità

di Don Pietro Cantoni
tratto da Sacerdos, novembre 2007

Il 7 luglio 2007 è stata pubblicato il Motu Proprio che estende la facoltà di celebrare nella forma precedente la riforma liturgica del 1970. Le reazioni al documento papale possono apparire sproporzionate se ci si ostina a ridurlo alle modestissime proporzioni di un documento di dialogo ecumenico nei confronti di una esigua minoranza. Se così fosse non si capirebbe davvero l’ostilità con cui è stato accolto in molti ambienti ed anche – purtroppo – da parte di qualche vescovo.

In realtà il documento va ben oltre il fatto specifico della celebrazione della Messa secondo il Missale Romanum del 1962. Per comprendere l’effettiva portata di questo documento, conviene partire da che cosa esso non è.

Non è la sconfessione del concilio ecumenico Vaticano II e neppure della riforma liturgica che ne è conseguita. È cosa talmente ovvia che può apparire persino inutilmente ridondante il ripeterlo, se non fosse per l’insistenza con cui il pericolo viene denunciato. Come sempre, davanti a reazioni così insistenti e ad affermazioni così frequentemente ripetute, dobbiamo aver la saggezza di riconoscere un nucleo di verità. Quando c’è tanto fumo, ci deve pur essere un po’ di arrosto…

Una sconfessione infatti c’è: non però del Concilio, ma dell’interpretazione del Concilio all’insegna della rottura.

Nell’ormai famoso e difficilmente sopravvalutabile discorso di Benedetto XVI alla curia romana del 22 dicembre 2005, il papa poneva alla radice della situazione di crisi in cui versa il mondo cattolico, lo scontro tra due interpretazioni dell’ultimo concilio ecumenico: “due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro“. Due e non tre… Con quel discorso siamo finalmente usciti dal modello ternario conservatori-progressisti- moderati che rifletteva di fatto una lettura ideologica della vita della Chiesa. Il modello binario di Benedetto XVI è – come deve essere – puramente teologico.

Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l'”ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare“.

Trattandosi di uno schema binario e non ternario, l'”ermeneutica della rottura” è double face: una volta ammessa una insanabile spaccatura tra la Chiesa pre-conciliare e la Chiesa postconciliare (terminologia che ha solo un valore cronologico e non teologico), si apre la strada ad una scelta. C’è chi sceglie il postconcilio ed è infastidito da tutto quello che succedeva “prima” e c’è chi sceglie il preconcilio e “sopporta” – spesso applicando con larghezza la restrizione mentale – tutto quello che è successo dopo. Entrambe queste posizioni si ritrovano unite in un atteggiamento sostanzialmente soggettivista e in una conseguente ricezione del Magistero – conciliare e non – puramente formale. In conformità con questo approccio esso è accettabile solo se se si muove in conformità con “lo spirito del Concilio” oppure solo nella misura in cui riafferma cose già dette prima del Concilio. Non credo sia inutile ricordare che il termine greco hairesis – da cui l’italiano “eresia” – significa “scelta”, “preferenza”, “elezione”, “partito”, implicando sempre una fondamentale affermazione della soggettività. Entrambi questi atteggiamenti, nella esteriore differenza delle forme, esprimono un comune sentire postmoderno e relativista.

L'”ermeneutica della riforma”, del “rinnovamento nella continuità” è invece espressione della fede tradizionale della Chiesa cattolica.

Noi cattolici infatti siamo stati spesso accusati dai nostri fratelli protestanti e– prima ancora – dagli ortodossi, di avere “aggiunto” qualcosa al deposito della fede affidato agli apostoli. È nota la polemica riguardo al Frühkatholizismus per cui alcuni esegeti protestanti hanno ravvisato già nel canone delle Sacre Scritture elementi di quel cattolicesimo che doveva poi essere rifiutato da Lutero in nome di un radicale “ritorno alle origini”. La scoperta della categoria dello sviluppo, come indispensabile strumento per comprendere la tradizione patristica e quindi la fede stessa, fu proprio ciò che determinò il passaggio di John Henri Newman dall’anglicanesimo alla Chiesa cattolica. Nella logica dello sviluppo forme anteriori della fede, quando sono accolte e trasmesse per secoli nella Chiesa non possono essere abolite, ma possono e devono essere interpretate per cui, in una fondamentale identità di senso, vengono colte in modo più pieno e profondo.

Nel Motu Proprio infatti e nella lettera di accompagnamento, il papa insiste nell’affermare che il rito romano precedente la riforma (ma lo stesso – per le stesse ragioni – può essere affermato anche del rito ambrosiano) non è mai stato abrogato. “Quanto all’uso del Messale del 1962, come forma extraordinaria della Liturgia della Messa, vorrei attirare l’attenzione sul fatto che questo Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso” (Lettera di accompagnamento).

Infatti: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” (Ibidem).

Quando fu fatta la riforma liturgica non si pensò di dover abrogare la liturgia precedente. Si era infatti convinti che la cosa sarebbe andata da sé: la nuova liturgia avrebbe insensibilmente ed inesorabilmente sostituito l’antica, come era successo spesso nella lunga storia della Chiesa. Gli eventi presero invece decisamente un’altra direzione. Non si era tenuto conto del fatto che la riforma era avvenuta – o, perlomeno, era stata percepita – come qualcosa di “fatto a tavolino” da un gruppo di esperti e non come il frutto maturo di una impercettibile evoluzione storica. Inoltre si era sottovalutato che si trattava della più imponente riforma liturgica di tutta quanta la storia del cristianesimo. Verso la metà del seicento il patriarca di Mosca Nikita Minic Nikon (1605-1681) attuò una riforma del rito bizantino slavo celebrato dalla chiesa russa. La riforma consistette sostanzialmente nel conformare i libri liturgici russi ai libri liturgici greci utilizzati allora a Costantinopoli. In concreto la portata dei cambiamenti era veramente minima: il più significativo è il segno di croce e le benedizioni con tre dita anziché con due. Il risultato fu uno scisma di terribili proporzioni (frantumatosi ben presto in diverse branche) che conta ancora ai nostri giorni milioni di aderenti. Toccare la liturgia è sempre molto rischioso! Così la riforma liturgica non si affermò affatto in modo “indolore”. Da una parte essa fornì l’occasione ad una serie di scandalosi abusi, dove l’abuso principale – quello strisciante – era l’idea che la liturgia fosse qualcosa di continuamente da inventare, da “fare” e non piuttosto l’accoglienza e la celebrazione del dono e dell’azione di Dio in mezzo agli uomini: “Tutte le volte che celebriamo questi santi misteri si compie l’opera della nostra redenzione” (Preghiera sulle offerte della II Domenica durante l’anno). Dall’altra suscitò una reazione a volte violenta e a volte nascosta, ma comunque reale e fastidiosa, tale da generare un clima di disagio che finì per rendere problematici i suoi innegabili effetti positivi là dove essa era applicata e vissuta in ossequio alle norme e – soprattutto – in conformità con la teologia liturgica che la costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium aveva così profondamente delineato. Questa reazione critica era arrivata – in qualche caso – addirittura a mettere in discussione l’ortodossia della riforma. Cosa assurda e teologicamente inconsistente, soprattutto se esaminata dal punto di vista di una corretta ecclesiologia, ma che era resa molto credibile dai tanti abusi liturgici che finivano per addolorare e spazientire i fedeli. Ad un certo punto, vista l’inattesa reazione alla riforma, il presidente del Pontificio Consiglio per l’esecuzione della riforma liturgica Mons. Annibale Bugnini si adoperò per ottenere l’abrogazione dell’antico rito, ma senza successo. Ci si rese infatti subito conto che si trattava di un atto assai problematico. I canonisti avevano ipotizzato la possibilità di una abrogatio, cioè di una eliminazione di fatto dovuta al totale riordino della materia: si sarebbe comunque trattato di qualcosa di inaudito, cioè dell’abolizione mediante un atto giuridico di un rito liturgico ortodosso e immemoriale. Ci si doveva allora obbligatoriamente riferire al can 21 del Codice di Diritto Canonico: “Nel dubbio la revoca della legge preesistente non si presume, ma le leggi posteriori devono essere ricondotte alle precedenti e con queste conciliate, per quanto è possibile “.

Il Motu Proprio non fa dunque che sanzionare questa situazione di fatto: la Chiesa, davanti al rito antico, si trova a riconoscere, come in altri casi analoghi (per es. l’ordinazione delle donne al ministero presbiterale, cfr. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, nn. 2 e 4), di non avere la facoltà di procedere. Questo non significa affatto una limitazione indebita del potere della Chiesa, ma solo il riconoscimento che la consuetudine liturgica, ortodossa ed immemoriale, costituisce una delle espressioni della sua stessa sacra potestas.

Due forme rituali che – all’interno di uno stesso rito, il Rito Romano – coesistono pacificamente come forma ordinaria (il rito romano frutto della riforma liturgica del 1970) e straordinaria (il rito precedente la riforma) appaiono così come l’icona vivente del modo corretto di interpretare qualunque riforma nella Chiesa e quindi anche l’ultimo concilio ecumenico.

Ecco perché, anche se apparentemente circoscritto quanto alla sua materia propria, questo Motu Proprio è così importante e suscita tanto clamore. Qualcuno lo ha visto polemicamente come una specie di Apocalisse (la fine del “fermento” innovativo del Concilio…).

In un certo senso lo è. Apocalisse vuol dire infatti “rivelazione” e questo documento sta rivelando il pensiero nascosto di molti cuori (cfr. Lc 2,34)…

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