Il discorso di Ratisbona

(Sacerdos, edizione italiana, Anno XI n. 58, Novembre-Dicembre 2006)
don Pietro Cantoni

Benedetto XVI ha recentemente visitato la Germania, “la sua terra” dove ha visitato anche in modo quanto mai significativo “il suo ambiente”, cioè l’università. È lì infatti che – prima di essere nominato arcivescovo di Monaco di Baviera nel 1977 – ha svolto il suo ministero, vivendo per lunghi anni e con tanto frutto la sua vocazione di teologo, cioè – insieme – di uomo di scienza e di uomo di fede. Con il discorso tenuto nell’aula magna dell’università di Ratisbona, davanti a tutto il corpo accademico, il Santo Padre ci ha donato quella che è stata giustamente chiamata “l’altra enciclica”, perché quello che lì ha detto e insegnato riveste oggettivamente un valore paragonabile soltanto alla sua prima e finora unica enciclica: Deus caritas est. Questa importanza è stata avvertita dagli ascoltatori più attenti del magistero papale, ma poi – a causa della violenta reazione di tutto il mondo islamico – è diventata patrimonio di tutti… Tutti hanno capito che si trattava di qualcosa di importante, anche se è stato un fraintendimento – almeno parziale – a procurarle un’audience fuori dal comune. Ci si lamenta – a ragione – che il magistero non è ascoltato e che la sua recezione, cioè la sua accoglienza intelligente e meditata, anche all’interno della Chiesa lascia troppo a desiderare. Mi sembra di poter indovinare in questo caso un’astuzia della Provvidenza per sottolineare ed evidenziare qualcosa che altrimenti sarebbe scivolato via tra l’abituale e superficiale indifferenza dei più…

Intendiamoci bene: tutti ne hanno ormai percepito l’importanza, non tutti ne hanno percepito il vero significato. “Altra enciclica” ma anche “discorso frainteso”. La maggioranza di quelli che ne hanno sentito parlare non l’hanno letto (come la quasi totalità di quelli che l’hanno frainteso e hanno gridato allo scandalo, quando non si sono abbandonati a feroci violenze). Anche chi lo ha letto non è detto che l’abbia capito, perché è un discorso profondo. Qui, più che altrove, ci vuole una lettura attenta e meditata. Lettura che queste poche righe non intendono affatto sostituire, ma solo provocare e facilitare.

Il tema centrale è tutto racchiuso in una frase che Benedetto XVI raccoglie dalla penna di un imperatore bizantino medioevale, Manuele II Paleologo: ” non agire secondo ragione, “sýn lógô“, è contrario alla natura di Dio “. L’occasione per questa decisiva affermazione del Paleologo è costituita dal dialogo da lui tenuto ad Ankara con un dotto mussulmano: parlando delle tre “vie” di Mosè, Gesù e Maometto, davanti al tentativo del suo interlocutore di presentare l’Islam come il “giusto mezzo” tra le durezze dell’Antico Testamento e le “esagerazioni” del Cristianesimo (verginità, povertà, amore verso i nemici, ecc.), ribatte in un modo “sorprendentemente brusco che ci stupisce” “in modo così pesante” (sono espressioni del Papa): “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. […] Dio non si compiace del sangue, non agire secondo ragione, “sýn lógô“, è contrario alla natura di Dio”. È evidente da tutto il contesto e dal modo stesso con cui introduce la frase che Benedetto XVI non intendeva assolutamente farla sua in tutta la sua portata, ma semplicemente quanto alle parole decisive: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. È interessante a questo proposito leggere tutta l’argomentazione dell’imperatore, riportata dal papa solo parzialmente: “la fede è frutto dell’anima e non del corpo. Chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno di una lingua abile e di un pensiero corretto, non della violenza, né della minaccia e neppure di qualche strumento di offesa o di terrore. Perché, come quando si deve forzare una natura irrazionale non avrebbe senso ricorrere alla persuasione, così per persuadere un’anima razionale non ha senso ricorrere alla forza del braccio, né alla frusta, né ad alcun’altra minaccia di morte”. Se il pontefice non è d’accordo con il giudizio drastico e indifferenziato su tutta quanta l’opera del fondatore dell’Islam (“soltanto […] cose cattive e disumane”), che forse va al di là anche di quello che lo stesso Manuele intendeva veramente dire… tuttavia è d’accordo su un punto: la guerra è vista dall’Islam come uno strumento voluto da Dio per la sua espansione e questo pone seriamente il problema del rapporto violenza-religione e – soprattutto – del rapporto tra Dio e l’uso di ragione. Molti giornalisti di casa nostra – improvvisatisi islamologi – si sono permessi di insegnare al Papa che il termine jihad, tradotto correntemente con “guerra santa”, il realtà vuol solo dire “sforzo spirituale”, “guerra interiore”, ed indica perciò qualcosa di assolutamente pacifico… Basterebbe però consultare anche soltanto un qualunque vocabolario di arabo, per non parlare della letteratura specialistica (ad es. la prestigiosa Encyclopaedia of Islam) per rendersi conto di quanto questo tentativo di trasformare i propri desideri in realtà sia patetico e dannoso ai fini di un dialogo autentico. Uno studioso americano, David Cook (Understanding Jihad, University of California Press 2005), ha recentemente riesaminato a fondo il concetto e la sua storia, dimostrando che – nell’amplissima raccolta di fonti antiche e moderne da lui esaminate – jihad ha il senso di “guerra esteriore” nella stragrande maggioranza dei casi. La reazione stessa di gran parte del mondo islamico ne è stata la più impressionante ed evidente conferma, tanto che uno dei più diffusi settimanali marocchini (Perspectives du Maghreb) è uscito con questo titolo: “E se il Papa avesse ragione?”.

L’obiettivo primario di Benedetto XVI non era però quello di mettere in guardia l’Occidente contro i pericoli del jihad islamico, ma di fargli prendere coscienza di un rischio ancora più grave, che viene dal suo stesso interno: quello di smarrire la stretta relazione che la ragione intrattiene con la sua storia e in particolare con la sua storia religiosa, che è storia cristiana. Oggi nel mondo cosiddetto laico (meglio sarebbe dire: laicista) la ragione, quando è applicata ai grandi problemi dell’uomo, quando si interroga sul senso della vita e dell’essere stesso, cioè quando diventa “metafisica”, è vista con sospetto e decisa ostilità. La ragione trova ormai il suo ambito proprio e riconosciuto solo nel campo del “fattibile”, cioè nel dominio della tecnica. L’ambito del senso della vita e dell’essere e quello della morale è relegato nella sfera privata delle scelte soggettive dove un autentico confronto razionale che voglia pervenire a verità da tutti riconoscibili non ha più senso. Questa mentalità è penetrata però anche nella sfera religiosa, dove la ragione è percepita come un ostacolo alla fede: la fede da sola, senza bisogno di interrogarsi e verificarsi con l’aiuto della ragione metafisica, è più che sufficiente per fondare la vita del singolo credente e della comunità in cui vive. La ragione in Occidente sembra ridursi solo all’arte di costruire automobili sempre più potenti e Computer sempre più efficienti e non teme ormai di avventurarsi – senza nessuna remora etica – nel campo del controllo e manipolazione della vita umana. Un’abilità crescente nel costruire mezzi va di pari passo alla rinuncia pregiudiziale ad indagare sui fini, cioè sul “perché” e sul “come” usarli. A questa rinuncia spesso dà man forte il teologo che si compiace di sottolineare ad ogni pié sospinto quanto la fede si contrapponga al pensiero metafisico ed ontologico e vice-versa.

Il pensiero occidentale, ammirato per le sue prestazioni tecniche, spaventa i popoli dell’Asia e dell’Africa – aveva detto il Papa a Monaco qualche giorno prima – perché “esclude totalmente Dio dalla visione dell’uomo” e non è certamente convincente al fine di ricondurre l’Islam ad un rinnovato matrimonio con la ragione.

Il Papa traccia magistralmente le grandi linee del processo che ha condotto l’Occidente ad allontanarsi dalla ragione metafisica. Esso si produce attraverso un movimento di “deellenizzazione” del Cristianesimo che il pontefice scandisce in tre tappe: tre “onde”. La prima è costituita dal pensiero della Riforma protestante che vede nel metodo scolastico della tradizione medioevale una sovrapposizione della filosofia alla purezza della parola di Dio, una “determinazione dall’esterno” estranea alla fede e che le impedisce di essere autenticamente sé stessa. Kant asseconda questo indirizzo e lo estremizza con una critica radicale alla metafisica mediante la quale si ripropone di “accantonare il pensare per far spazio alla fede”. La seconda ondata è costituita dalla teologia liberale del XIX e XX secolo il cui rappresentante tipico è Adolf von Harnack, che, accostandosi a Gesù Cristo con una ragione ormai divenuta refrattaria all’invisibile e al trascendente, ce lo riconsegna spogliato della sua divinità (e quindi dalla fede nella Trinità) e ridotto a maestro di morale. La terza, quella che stiamo vivendo oggi, insiste nel vedere la sintesi tra cristianesimo ed ellenismo verificatasi nella Chiesa antica come una prima inculturazione della fede “che non dovrebbe vincolare le altre culture”. Con questa lettura “grossolana ed imprecisa” lo stretto rapporto della fede con la ragione avvenuto attraverso l’incontro con la filosofia greca diventa un evento casuale, un approccio culturale che si allinea accanto ad altri senza che sia possibile nessun giudizio di valore su di essi… Una specie di optional che tale deve rimanere, rinchiuso cioè nel suo stato di scelta non vincolante.

Ma – ci dice con forza il Papa e questo è il cuore del suo messaggio – non è così: “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio” e quindi anche contrario al Cristianesimo, la religione del Logos fatto carne. “L’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo, davanti al quale si erano chiuse le vie dell’Asia e che, in sogno, vide un Macedone e sentì la sua supplica: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (cfr At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una “condensazione” della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la fede biblica e l’interrogarsi greco”.

È la Bibbia stessa, se letta in profondità, a parlarci di un intimo rapporto tra fede e ragione. Giovanni apre il suo Vangelo riprendendo – e modificando – le prime parole della Genesi: “In principio era il Logos“. Questo Logos (parola, ragione, significato, senso…) è luce ” la luce vera, quella che illumina ogni uomo ” (Gv 1,9). Il nome che Dio rivela a Mosè come il suo nome proprio (Es 3,14) non è un nome “locale”, cioè legato ad una determinata cultura o regione, né un nome ripreso da un determinato attributo di Dio (come per es. Baal, Signore o Moloch, re) ma fa riferimento a qualcosa di universale, che trascende e comprende tutti i luoghi, include tutti gli attributi di perfezione ed è quindi in grado di raggiungere tutte le culture: “Io sono”. È a partire da questa parola, dall’apparenza insignificante e persino banale, che si sviluppa tutta quanta la metafisica cristiana dell’essere. Dio è certamente misterioso e quindi trascendente la ragione dell’uomo, ma il mistero di Dio non nasce da una sua estraneità alla ragione, alla “luce che illumina ogni uomo”, ma è piuttosto conseguenza del suo essere troppo luminoso per i deboli occhi della creatura, come gli occhi della nottola a contatto della luce del sole, secondo il noto esempio di Aristotele…

Il Cristiano non può rassegnarsi a vivere la sua fede nel privato come se fosse una cosa sua a cui gli altri sono estranei all’insegna del “ciascuno ha la sua verità e quindi la sua religione”, perché la missione gli compete strutturalmente: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20).

D’altra parte se il Cristianesimo è per sua natura missionario, come concepire l’evangelizzazione di chi non condivide la fede? L’unica alternativa alla testimonianza e alla persuasione, le forme originarie della prima evangelizzazione che si esprimono emblematicamente nelle figure del martire e dell’apologeta, è solo la violenza… Voler però convincere con la violenza un essere ragionevole è contrario alla ragione e “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”.

(Filetto, 20 ottobre 2006)

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