Articolo di don Giovanni Poggiali

Pubblichiamo un articolo di Don Giovanni Poggiali apparso sul numero 414 (marzo-aprile 2022) della rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica.
L’articolo affronta la pagina neotestamentaria dell’Inno alla Carità di san Paolo nella prima Lettera ai Corinzi pensata in rapporto alle categorie del “mondo che muore” e del “mondo che nasce” dello scrittore cattolico svizzero Gonzague de Reynolds (1880-1970).
Il mondo che muore è la Cristianità Occidentale erosa da un lungo percorso storico di secolarizzazione e di perdita dei criteri essenziali della fede come impostazione della vita personale e sociale; il mondo che nasce è tutto da costruire ma certamente nascerà: dopo ogni morte, infatti, c’è la risurrezione, a cominciare dalla primizia che è Gesù Cristo. Buona lettura!

 

L’Inno alla Carità e l’apostolato di Alleanza Cattolica
tra un mondo che muore e un mondo che nasce

Un mondo che muore, un mondo che nasce

La storia della civiltà occidentale, in particolar modo la storia europea, si può descrivere come le cime di una cordigliera con vette e depressioni profonde, epoche fiorenti e periodi vuoti (1). Una civiltà ha momenti simili di nascita, sviluppo, declino e morte. A mano a mano che essa cresce, si concentra sempre di più sugli aspetti secondari piuttosto che sostanziali: è il peccato dell’uomo, il suo egoismo che decentra dal vero obiettivo e dal vero centro su cui quella civiltà è fondata. Oggi noi ci troviamo in fondo alla depressione brusca e profonda che ha caratterizzato la Cristianità Occidentale, in pratica un mondo che muore, arrivata al suo apogeo nel Medioevo e caduta progressivamente attraverso le tappe rivoluzionarie delineate dal pensiero della scuola cattolica contro-rivoluzionaria (2). La speranza di un mondo che nasce è quella di riorientare la vita degli uomini verso la relazione con Dio, verso un rapporto con il prossimo secondo il Vangelo, verso le cose sostanziali per rinnovare il fervore della fede. Papa Francesco, nell’ultima solennità dell’Epifania, ha parlato di rinnovare il desiderio: «La crisi della fede, nella nostra vita e nelle nostre società, ha anche a che fare con la scomparsa del desiderio di Dio» e ha aggiunto: «Solo se recuperiamo il gusto dell’adorazione, si rinnova il desiderio. Il desiderio ti porta all’adorazione e l’adorazione ti fa rinnovare il desiderio» (3).

Gonzague de Reynold, nel saggio citato, scrive che i periodi di transizione, che possono essere anche molto lunghi, «non si compiono mai nella pace e nell’ordine; si compiono sempre nel disordine, e li caratterizza la violenza. Sempre vi è una flessione della moralità, della stessa civiltà. I progressi che si preparano, che verranno riconosciuti, che verranno adottati dopo, iniziano sempre con eccessi, con esagerazioni» (4). Questo ci aiuta forse a comprendere la confusione e la divisione che viviamo quotidianamente a tutti i livelli. Lo studioso svizzero afferma anche, però, la necessità di accettare il tempo presente che stiamo vivendo, come tempo provvidenziale che ci è stato donato: «Signori, piaccia o non piaccia, dobbiamo accettare il nostro tempo, perché non abbiamo il potere di non esservi e perché la Provvidenza ci ha posto qui per compiervi la sua opera» (5).

Oggi, il mondo che muore ci lascia come eredità l’ateismo teorico e pratico, l’emarginazione di Dio da tutti gli ambiti della vita, la dittatura del relativismo, il pensiero unico, la sfida della cultura di morte, l’inverno demografico ma non può morire la speranza del mondo che nasce, perché un mondo nuovo sta nascendo, come sempre avviene nella storia, maestra di vita, dopo una decadenza. Questo concetto va inserito anche nel quadro ancora più grande della lotta simboleggiata da sant’Ignazio di Loyola (1491-1556) negli Esercizi Spirituali con la contemplazione dei Due Stendardi o Bandiere (6): la lotta di Satana contro l’Uomo-Dio Gesù Cristo, stirpe della Donna, che è la Beata Vergine Maria. Secondo una certa interpretazione di teologia della storia, Satana sarebbe sciolto dalle catene (cfr. Ap 20,1-7) e avrebbe sferrato il suo più feroce attacco all’umanità per impadronirsi delle anime. Le apparizioni di Medjugorje, in Bosnia-Erzegovina (7), sarebbero direttamente legate a questa lotta essendo la Vergine Maria apparsa per contrastare quest’azione demoniaca che, soprattutto in questi ultimi quarant’anni (durata attuale delle apparizioni), ha causato un decadimento impressionante della fede in Occidente fino alla profonda crisi religiosa in gran parte della popolazione occidentale, anche a causa della pandemia del virus Covid-19.

Come vivere bene il tempo “vuoto” tra il mondo che muore e il mondo che nasce?

La «via più sublime» (8)

Se diventa necessario riorientare la nostra vita verso valori assoluti, verso Dio con la conversione, non può mancare il volgersi verso il centro del messaggio evangelico, la carità, la capacità di amare e di donarsi. L’amore evangelico, per utilizzare un linguaggio prettamente ignaziano, è come il Principio e fondamento di tutta la nostra azione per il bene della Chiesa. Senza amore di Dio non c’è vita, non c’è vera fede, non c’è vero apostolato. I doni spirituali ricevuti da Dio, i carismi di cui parla san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 12), prima del famoso capitolo 13 dell’Inno alla carità, non servono per edificare noi stessi. Spesso mettiamo in contrapposizione il dono personale ricevuto da Dio all’utilità comune. Certamente il singolo carisma è importante, grazie ai doni dello Spirito Santo ciascuno di noi diventa nella propria epoca memoria vivente di Cristo, alter Christus, secondo le proprie capacità e i carismi ricevuti. Le membra sono tutte necessarie nel corpo ecclesiale. Le originalità dei singoli cristiani sono una ricchezza, pensiamo alla diversità e peculiarità dei santi. Ma per consentire agli uomini di ogni epoca d’incontrare Cristo risorto, che è l’unico vero fondamento della Chiesa, sono indispensabili tutte le membra del suo organismo ecclesiale animate dalla carità che è la «via più sublime» da percorrere, come indicata da san Paolo (cfr. 1 Cor 12,31). Le membra sono indispensabili tutte insieme, come una squadra sportiva che ha bisogno di tutti i suoi elementi e non solo del singolo campione.

Ecco un primo importante insegnamento: il dono serve l’unità, non il contrario e l’unità non si può sacrificare al singolo dono. Nell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco afferma: «Il Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa e città che brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte» (9).

Quindi, la sinfonia è più importante del singolo strumento. Noi spesso possiamo dire e fare le cose giuste senza la logica dell’insieme, senza essere parte di un tutto. Diamo cioè troppa importanza a ciò che facciamo e non consideriamo che è parte del tutto. Non ha senso avere dei doni e non avere l’orientamento dell’unità e dell’insieme. In una parola, forse oggi troppo abusata, la comunione. Agire in comunione tra di noi è la prima pietra per edificare il mondo nuovo.

Il carisma è un dono anche associativo. Sono le qualità della Provvidenza affidate a ciascuna persona o a un gruppo in particolare. San Paolo dice che «a ciascuno è data una manifestazione dello Spirito per il bene comune» (1 Cor 12,7). Ma il vero carisma, il più grande di tutti, è l’amore (Cfr. 1 Cor 13,13). Noi stiamo costruendo il Corpo di Cristo nella storia e per risolvere le nostre emergenze occorre l’amore. Se però io non sono stato amato non sarò capace di amare, se nessuno mi ha usato pazienza io non la potrò conoscere. Se non credo all’amore di Dio per me non sperimenterò ciò che significa vero amore.

Comunione e individualismo

Uno dei più grandi nemici dell’uomo è l’individualismo che minaccia la comunione. Ne parla Gonzague de Reynold in uno dei suoi saggi: «La rivoluzione moderna è, al suo punto di partenza, individualista, al suo punto d’arrivo collettivista e comunista» (10). Possiamo, cioè, avere dei doni ma viverli individualmente e non avere la carità. Ciò che conta veramente non è avere o non avere capacità ma se amiamo davvero. Il nostro avversario è il delirio autonomo, il sogno di essere autosufficienti. Fare le cose per le cose senza entrare veramente in relazione con gli altri. Se siamo noi stessi la fine e l’inizio di ciò che facciamo, senza il fine, siamo perduti. Il fine, lo scopo dell’amore, infatti, è l’altro da me. Occorre passare dal nostro isolamento alla comunione, alla relazione. Essa è necessaria per vivere, perché «Dio è amore» (1 Gv 4,16); senza amore non si può crescere e perfezionarsi. Se ho dei doni meravigliosi ma la carità si spegne nel mio cuore perdo i doni di Dio. L’efficienza senza amore, diventa vuota, inconsistente. È l’esperienza che facciamo, a volte, di aver trascorso una giornata nell’agitazione e nell’efficientismo e avere la sensazione di giungere a sera completamente svuotati. Abbiamo necessità di stare nell’amore perché non si vive senza la prospettiva della carità. Non si può vivere senza relazioni e senza il volto dell’altro. Così è infatti la Trinità, una relazione d’amore.

Esso non è soltanto uno stato di spontaneismo, di sentimento. L’amore è una relazione. L’altro è il fine del mio atto e quindi l’amore non può ridursi al mio stato d’animo che vuole determinare l’azione. L’amore implica il sentimento ma non deve avere la propria fonte nel sentimento. Due genitori stanchi che non dormono di notte da giorni perché il loro bambino piccolo si sveglia non hanno nessuna voglia, nessun sentimento, nessun desiderio di spontaneismo. L’amore coinvolge la volontà di voler amare; ma non è soltanto un atto di volontà, è un atto che implica volontà, sentimento, desiderio, fedeltà, libertà, tutto. La carità è frutto dello Spirito, è un tesoro di cui uno si svuota per arricchire l’altro, è centrata sull’altro. L’amore è un tesoro da dare perché l’abbiamo ricevuto per primi da Dio. Oggi la parola “amore” è sulla bocca di tutti ma il suo vero significato lo può indicare solo la fonte divina da cui proviene. Chi non ha percepito, riconosciuto l’amore di Dio, non può comprenderlo. L’amore parte da Dio e ha relazione con lo Spirito che ci dà la gioia, la pienezza e il riconoscimento della comprensione che noi siamo amati per primi.

L’elogio della carità

Dopo questa premessa sui carismi, sulla comunione che contrasta l’individualismo, e sul concetto e significato dell’amore, entriamo più direttamente nella Prima Lettera ai Corinzi. San Paolo, per estirpare dalla comunità cristiana greca ogni complesso d’inferiorità che produceva scoraggiamento, individualismo e disimpegno ma soprattutto ogni complesso di superiorità che portava alla superbia e al disprezzo degli altri, rammenta con fermezza che la vita nella Chiesa deve essere animata dalla carità. I doni concessi dallo Spirito Santo a ogni cristiano non produrrebbero frutti di salvezza se non fossero alimentati come i tralci della vite dalla linfa, anch’essa spirituale, dell’amore. 

La carità, per san Paolo, non è primariamente l’amore dei cristiani per Cristo o il loro amore per il prossimo. Originariamente è l’amore generoso e incondizionato di Cristo per gli uomini, che diventa la sorgente del loro amore per il prossimo. Infatti, nelle lettere paoline il sostantivo ἀγάπη (agape), e quindi il verbo ἀγαπἀω (agapào), non indica mai l’amore dei cristiani per Cristo. Nel cuore dell’elogio al capitolo 13, Paolo fa una specie di identikit della carità. Ne descrive i pregi con quindici tratti essenziali, sette in positivo e otto in negativo, partendo da ciò che suscita nelle persone in relazione con gli altri.

a. magnanima e benevola

Anzitutto è «magnanima» e «benevola» (1 Cor 13,4). Magnanima (μακροθυμεῖ, macrotiméi) era tradotta con “paziente” nella versione biblica del 1974 ad opera della CEI (Conferenza Episcopale Italiana. L’attuale traduzione, utilizzata nella liturgia, è del 2008). È la grandezza d’animo, lo spazio interiore che va ampliato, dilatato, accresciuto. Avere carità implica il non reagire con velocità e non essere tendenti a prendere la prima reazione che ci sorge da dentro. Il contrario di magnanimo è “pusillanime”, animo piccolo. Non ci si perde nelle cose piccole, si guarda alle cose grandi. La carità è paziente, cioè ha qualcosa di più alto a cuore rispetto alle cose piccole e banali. È centrata sugli scopi nobili della vita. Il termine “magnanimo”, nell’Antico Testamento (AT), è analogo alle parole «lento all’ira» utilizzate per esempio nel Salmo 86,15: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». Dio guarda la salvezza dell’uomo, non perde mai di vista le cose veramente importanti. La grandezza di cui parliamo è lo scopo donato da Dio, è il contrario della presunzione e della pusillanimità. La magnanimità è il non perdersi in cose piccole ma volgersi alla grandezza di Dio. Quindi, il primo attributo dell’amore è la grandezza d’animo, alzare lo sguardo verso ciò che è grande, ciò che davvero conta. 

Il secondo attributo della carità è l’essere benevola (χρηστεύεται, krestéuetai). La parola greca ha la radice nel termine “utile”, “valido”, “adatto”. È distinta da ἀγαθὸς (agathòs), “buono”. L’amore è rendere abile la situazione al bene. Trova il modo di valorizzare tutto, è l’iniziativa di prendere una cosa e condurla alla sua realtà più bella. È imparare l’arte di trarre fuori il bene da ogni cosa, l’arte di crescere in tutto e trovare ciò che è buono: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rom 8,28). Il benevolo trova il modo di far stare bene in tutte le cose. Alcuni non stanno bene da nessuna parte: insoddisfazione, rabbia, infelicità, lamentela. Ci sono dei formatori che non sanno valorizzare gli allievi e sono costantemente insoddisfatti. Educatori che non sanno trarre fuori (educere) il meglio dai ragazzi loro affidati. I santi invece, non si scoraggiano mai, non si fanno smontare dalle difficoltà, trovano il bene in tutte le cose sempre e comunque. Tutto questo non è certamente una capacità umana ma è dono dello Spirito. L’amore valorizza, costruisce sempre, non si scoraggia. Edifica costantemente qualcosa di positivo e anche se così non fosse inizia almeno a costruire una relazione con Cristo. Il benevolo mira al risultato accettando qualunque punto di partenza. Non smette di credere al bene. Non dice mai: «per te è finita». L’onnipotenza di Dio ci dà altre intuizioni e anche se sembra che sia tutto finito Dio sa trarre un bene più grande. Egli è benevolenza, misericordia, provvidenza. Il benevolo ha saputo lasciarsi cambiare, ha scoperto che il proprio punto di vista non è l’unico. Il benevolo è colui che di fronte alla vita è sempre positivo. Di fronte all’errore più grande delle persone il magnanimo dice: c’è molto di più in te di questo tuo errore, e di fronte alle situazioni di crisi che sembrano insormontabili, il benevolo dice che si può trovare il bene su questa strada, è sempre costruttivo e mira a ciò che veramente conta.

b. senza invidia, senza vanità e senza orgoglio

Ci sono anche attributi in negativo della carità: «non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Cor 13,4). Anzitutto ζηλοῖ (zeloi, tradotto dalla CEI con «invidia») non è interpretabile con il nostro «zelo». Il senso è l’orientamento verso qualcosa o qualcuno, una spinta che indica un tipo di rapporto rispetto ad un altro, in latino «non aemulator», quindi la carità non emula, non cerca di uguagliare o superare qualcuno, non è invidiosa. Quando ci si orienta verso una persona, nell’ambito delle relazioni, il confronto può diventare pericoloso perché potrebbe avere una piega possessiva che tende a vedere l’altro in funzione di se stessi, quindi può scattare l’invidia, la rivalità, l’emulazione, la voglia che l’altro sia dentro il nostro schema e non sia più di noi. Si diventa competitivi, fino ad odiare le differenze e le grazie altrui. Non si ama il prossimo in quanto se stesso, piuttosto l’altro diventa funzionale al nostro bisogno e al nostro desiderio di primeggiare e prevaricare affinché non ci venga tolta la nostra centralità. L’invidia ha una direzione sbagliata verso la crescita nel bene. Si parte dall’ammirazione dell’altro fino a volerlo possedere, catturare per superarlo, fino alla dinamica di dominio. Dopo l’ammirazione scatta la competizione, quindi sfocia in un’alterità negativa. C’è una tristezza di fronte alla gioia altrui e una gioia di fronte alla tristezza altrui. Non si riesce a trovare gioia nelle cose che facciamo perché non siamo contenti di noi stessi, cerchiamo nell’altro un compimento che diventa una frustrazione di possesso secondo la logica che il nostro prossimo ha sempre più di noi mentre la realtà dice l’opposto. Il prossimo diventa oggetto del nostro desiderio perché non siamo contenti di noi stessi. Si vive così frustrati avendo rabbia contro il nostro prossimo. Tutto questo è incompatibile con l’amore perché la carità valorizza l’altro, non è invidiosa, non fa confronti per diminuire o denigrare il prossimo ma per crescere nel bene ricavando i frutti da tutti gli aspetti in gioco.

La seconda caratteristica in negativo della carità è Περπερεύεται (perperèutai) tradotto con «(non) si vanta». Essa fa riferimento alla vanagloria, alla vanteria, alla ricerca della propria immagine, fare impressione a qualcuno. Ci poniamo di fronte al prossimo sbattendogli in faccia il nostro ego. Il vanitoso prende il vuoto e gli dà corpo. È l’arroganza, per cui ci si attribuisce un dono di Dio. Il bene è fatto per la propria immagine e non per il bene comune. L’uomo, in tal modo, coltiva progressivamente il proprio ego in tutto ciò che fa diventando vanagloria personificata. Ciò che conta, invece, è l’intenzione del cuore con cui noi scegliamo di fare o non fare una determinata cosa. Chi si vanta non si vanta di una cosa brutta ma si vanta del bene, soltanto che questo è collegato al proprio io, alla propria persona, vanificando così lo stesso bene compiuto. Invece, l’amore non si vanta, non ha bisogno del prezzo ma è gratuito. L’amore autentico remunera di suo. Quando uno ha bisogno di una remunerazione significa che pensa a sé stesso e non si è ancora staccato dalla propria immagine.

Infine, la terza caratteristica espressa con φυσιοῦται (fisioùtai), cioè «(non) si gonfia d’orgoglio». La parola orgoglio è aggiunta in traduzione, nell’originale è «non si gonfia». La carità non fa diventare le cose più grandi di quello che sono, non le gonfia, non le ingrandisce, soprattutto non accresce il proprio io. L’amore non si sovradimensiona, non è una esagerata concezione di sé. Dio crea col soffio della sua bocca e l’uomo diventa un essere vivente (cfr. Gen 2,7), mentre in questa circostanza soffia un altro spirito, ben interpretato con il termine arroganza, ad rogare, chiedere qualcosa per sé, pretendere accaparramento ed espansione, esigere “aria” per gonfiarsi (“darsi delle arie”). L’uomo, in tal modo, si attribuisce qualcosa che non gli spetta. San Paolo esprime bene questo concetto: «la conoscenza riempie d’orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Nella versione biblica del 1974 si leggeva: «la scienza gonfia, mentre l’amore edifica». È il vuoto che diventa apparenza, ci si gonfia d’aria e non di Spirito Santo, ci si arroga ciò che è nulla, il vuoto, e si falsifica la realtà.

Abbiamo esaminato, quindi, queste tre caratteristiche: la carità non è invidiosa, cioè non compete, non si confronta con l’altro [«non stimatevi sapienti da voi stessi» (Rom 12,16)]; non si vanta cioè non cerca la propria immagine [«valutatevi in modo saggio e giusto» (Rom 12,3)]; non si gonfia cioè non aumenta la propria dimensione [«non valutatevi più di quanto conviene» (ibid.)]. C’è qualcosa di inconsistente, di infelice dentro la persona: l’essere ansiosi per la propria grandezza, essere contenti quando si è più di qualcuno, apparire più sapienti degli altri. Tutto questo allontana dal nostro cuore e dal nostro vero io. Essere stimati e diventare grandi. Non: “essere” ma “essere qualcuno”, gonfiati, vanagloriosi, vuoti, inconsistenti, tutta apparenza per essere importanti. In fondo si perde di vista chi si è veramente cioè la verità di noi stessi. È l’ansia di arrivare a possedere qualcosa, l’essere schiavi della superficialità, della epidermide delle cose, delle idealizzazioni, manca però la relazione vera e autentica con l’altro. Il vero sé, invece, si radica nella realtà, sfrutta i ridimensionamenti, accetta i propri limiti. Il vero sé non ha bisogno di essere più dell’altro ma si accontenta di essere piccolo, prende le cose semplici per ciò che sono. Non ha bisogno di essere diverso da quello che è, di avere ciò che non gli spetta. Questa dinamica spirituale può essere tradotta con l’evangelico: «beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei Cieli» (Mt 5,3).

c. non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse

Proseguendo nell’inno di san Paolo, incontriamo altre due peculiarità in negativo: la carità «non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse» (1 Cor 13,5). Anzitutto, la parola ἀσχημονεῖ (askemonéi), collegata con il verbo ἔχω (eko) “avere”: indica le prerogative, gli attributi della realtà, l’insieme di proprietà che costituiscono una persona. L’altro da me è fatto in una ben precisa maniera e chi non ama è colui che non tiene conto delle caratteristiche dell’altro non rispettandolo. Invece, l’amore non manca di rispetto. Esso tiene conto dell’altro e ne considera le prerogative. Purtroppo esistono anche relazioni senza rispetto, infatti non è amore. La mancanza di carità è violenza alle cose: infatti, a volte, in nome dell’amore si fa violenza sull’altro. L’amore accetta anche i dinieghi, non priva l’altro della propria dignità e non lo disonora, non lo disprezza. L’amore non è rude, è una dolce premura, si dona con tenerezza e anche con fermezza ma senza violenza. Esso non agisce impropriamente. Come l’amore di Gesù, che ci ha amato peccatori per il nostro bene concreto e non ci ha amato imponendo le sue categorie ma secondo le nostre necessità.

Una seconda caratteristica è che la carità «non cerca il proprio interesse». Nel testo originale la parola “interesse” non è presente. Il testo recita: non cerca il suo. Significa che la carità non cerca il proprio scopo con una strategia ben precisa per giungervi. Sembra qualcosa di generoso, di oblativo ma è la ricerca di un vantaggio per sé. In fondo è l’arte di manipolare, di chi cerca obiettivi autoreferenziali. È amare ma avendo a cuore il proprio vantaggio, un farsi tornare i conti. Nella spiritualità orientale potrebbe tradursi con ϕιλαυτία (philautìa), l’amor proprio. Pur facendo servizi, ministeri di carità, organizzazioni di gesti caritativi, alla fine il proprio ego deve essere foraggiato. C’è un sano rispetto per sé stessi ma succede che l’eccessivo amor proprio prenda il sopravvento. Esso va per gradi: il grado del piacere, cioè stare nelle cose per la gradevolezza, per appagamento, per la passione verso il corpo, un amor proprio che ha bisogno di essere soddisfatto. Il secondo grado è quello della propria volontà, un modo di occuparsi dell’altro ma senza rinunciare al proprio progetto, al proprio volere, ai propri desideri. Il terzo grado è la giustizia, cioè il tipo di amore che cerca sé stesso con più raffinatezza: viene fatta la carità ma per cercare il senso della propria giustizia, per apparire retti, moralmente ineccepibili, per sentirsi giusti e a posto con la coscienza. 

Manca in questi vari passaggi l’abnegazione, il distacco dal proprio ego. Chi è schiavo del proprio ego è incatenato a un risultato che sia il piacere, sia un progetto o sia la sua immagine morale ed etica è qualcuno che non può volare verso l’alto perché è legato ad una catena e deve avere un proprio tornaconto. In fondo, se vogliamo tradurre con una parola, la più adatta è solitudine. L’egocentrico è una persona sola, autoreferenziale. L’amore, il distacco da sé stessi, ti rende libero e autentico in tutte le relazioni che sono aperte e gioiose (11).

La carità è l’unica realtà che non viene mai meno, cioè non cade nel nulla [questo è il significato del verbo πίπτει (pìptei) in 1 Cor 13,8]. La carità sarà con noi risorti e trasfigurati in corpi spirituali, e tornerà alla sua fonte divina. Purificata da ogni scoria dal fuoco dell’amore divino, la carità rimarrà per sempre con Cristo in Dio. Se questo è il destino glorioso dell’amore umano è chiaro perché fin d’ora è la virtù più grande (cfr. 1 Cor 13,13). Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni di grazia, profuma fin d’ora d’eternità soltanto nella misura in cui è impregnata di carità. 

Benedetto XVI: punti fermi e motivi di speranza

L’inno alla carità non termina con le caratteristiche enunciate ma introduce altre prerogative dell’amore che non trattiamo in questa sede («non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,5-7). Vorrei però declinare le parole dell’Apostolo delle Genti e ricondurle per noi al momento storico che stiamo vivendo di fine di un mondo e di nascita di un mondo nuovo che è già in atto e che noi forse non vedremo nel suo sorgere e nel suo sviluppo (12).

In un recente testo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, vi sono affermazioni che possono essere prese come manifesto del “mondo che nasce”, parole semplici, senza grandi proclami programmatici ma che toccano il cuore e la mente, e ci offrono una prospettiva di apostolato su cui impegnarci (13).

Il Papa emerito afferma che i sistemi atei e materialistici dei due secoli precedenti al nostro hanno lasciato una catastrofe non tanto di natura economica ma che essa consiste nell’inaridimento delle anime e nella distruzione della coscienza morale. I sistemi comunisti e ideologici, terza tappa della Rivoluzione nel pensiero cattolico controrivoluzionario, sono naufragati soprattutto per il loro disprezzo dei diritti umani, per la subordinazione della morale alle esigenze del sistema e alle sue promesse di futuro: «La problematica lasciata dietro di sé dal marxismo continua a esistere anche oggi: il dissolversi delle certezze primordiali dell’uomo su Dio, su sé stessi e sull’universo – la dissoluzione della coscienza dei valori morali intangibili, è ancora e proprio adesso nuovamente il nostro problema e può condurre all’autodistruzione della coscienza europea» (14). Papa Benedetto si chiede dunque: a che punto siamo oggi? e delinea, dopo la dissoluzione della Cristianità e dell’Occidente che si è auto demolito, alcuni criteri valoriali con cui ripartire e rifondare il mondo che nasce:

– anzitutto afferma l’incondizionatezza con cui la dignità umana e i diritti umani devono essere presentati come valori che precedono qualsiasi giurisdizione statale. Questa validità della dignità umana previa ad ogni agire politico rinvia ultimamente al Creatore, solo Lui può stabilire valori che si fondano sull’essenza dell’uomo e sono intangibili (15).

– un secondo criterio è il matrimonio e la famiglia: l’Europa non sarebbe più tale se questa cellula fondamentale del suo edificio sociale scomparisse o venisse essenzialmente cambiata: «Se da una parte il loro (uomo e donna) stare assieme si distacca sempre più da forme giuridiche, se dall’altra l’unione omosessuale viene vista sempre più come dello stesso rango del matrimonio, siamo allora davanti ad una dissoluzione dell’immagine dell’uomo, le cui conseguenze possono solo essere estremamente gravi» (16). Persiste, anche attraverso queste attestazioni, un odio di sé dell’Occidente che è misterioso e che si può considerare solo come qualcosa di patologico (17).

L’Europa, dunque, per sopravvivere ha bisogno di una nuova accettazione di sé. In pratica, non ama più sé stessa. Il mondo che muore, e probabilmente è già morto, implica che un nuovo mondo debba nascere. La dinamica per il cristiano è sempre di morte e resurrezione. Per qualcosa che muore non c’è mai la fine di tutto ma la possibilità di un nuovo inizio. È la stessa dinamica della croce: sembra la fine di ogni cosa, il Messia appare sconfitto nel combattimento contro le forze del male e invece è l’inizio della nuova creazione in Cristo risorto. Questo nuovo mondo lo possiamo agognare anche attraverso i motivi di fiducia e di speranza indicati dallo stesso Papa emerito: «Il primo motivo di speranza consiste nel fatto che il desiderio di Dio, la ricerca di Dio è profondamente scritta in ogni anima umana e non può scomparire. Certamente, per un certo tempo, si può dimenticare Dio, accantonarlo, occuparsi di altre cose, ma Dio non scompare mai […]. È la speranza che l’uomo sempre di nuovo, anche oggi, si ponga in cammino verso questo Dio» (18).

Il secondo motivo di speranza consiste nel fatto che «il Vangelo di Gesù Cristo, la fede in Cristo è semplicemente vera. E la verità non invecchia. Anch’essa si può dimenticare per un certo tempo, si possono trovare altre cose, la si può accantonare, ma la verità come tale non scompare. Le ideologie hanno un tempo contato. Sembrano forti, irresistibili, ma dopo un certo periodo si consumano, non hanno più forza in loro, perché manca loro una verità profonda […]. Invece il Vangelo è vero, e perciò non si consuma mai […] sono convinto che ci sia anche una nuova primavera del cristianesimo» (19).

Un terzo motivo di speranza, il Papa lo riscontra nei giovani. Il vuoto, l’inquietudine che lavora dentro di loro, li conduce a cogliere l’insufficienza di senso e l’inconsistenza delle proposte mondane: «I giovani hanno visto tante cose – le offerte delle ideologie e del consumismo –, ma colgono il vuoto in tutto questo, la sua insufficienza. L’uomo è creato per l’infinito […]. Quindi, mi sembra che l’antropologia come tale ci indichi che ci saranno sempre nuovi risvegli del cristianesimo e i fatti lo confermano con una parola: fondamento profondo. È il cristianesimo. È vero, e la verità ha sempre un futuro» (20).

Conclusione

La verità della fede cristiana va continuamente desiderata e diffusa perché rimane il fondamento reale e intrinseco della vita di ogni uomo, anche se lontano da Dio. La verità di Cristo è inseparabile dal suo amore (21). Questo amore è il fondamento dell’azione di evangelizzazione nel mondo, opera che avrà un ruolo decisivo per l’edificazione della Cristianità futura. Per questo, il mondo che nasce, sarà un mondo bello, a misura d’uomo e secondo il piano di Dio, perché la promessa della Madonna a Fatima è nel tempo del suo compimento: «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà» (22).

 

 

Note:

1) Cfr.: Ignazio Cantoni, Fra un mondo che muore e un mondo che nasce, in Cristianità, anno XLIX, n. 408, marzo-aprile 2021, pp. 57-73 (63). Cantoni, richiama un’immagine dello scrittore svizzero Gonzague de Reynold (1880-1970) che descrive i processi di ascesa e declino della civiltà in una determinata epoca storica: «Utilizzerò un’immagine per rendere concreto quanto vi è di astratto, e animare quanto vi è di schematico in questa descrizione. Confronterò lo sviluppo per epoche e periodi vuoti della storia europea con una catena di montagne, una catena intervallata da depressioni brusche e profonde. Ogni segmento di questa cordigliera si inserisce tra due di queste depressioni. Risale lentamente da una per cadere rapidamente nell’altra. Una vetta la domina, abbagliante come un ghiacciaio al sole. Rappresenta l’apogeo di un’epoca e della sua civiltà; ma vi è poco spazio sulla vetta, e non vi si può rimanere a lungo»: Gonzague de Reynold, L’Europa impossibile e necessaria, in Id., La Casa Europa. Costruzione, unità, dramma e necessità, trad.it. presentazione e cura di Giovanni Cantoni (1938-2020), D’Ettoris Editori, Crotone 2015, pp. 257-258.
2) Cfr. Plinio Correa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione. Edizione del cinquantenario (1959-2009) con materiali della «fabbrica» del testo e documenti integrativi, trad. it. a cura di Giovanni Cantoni, Sugarco, Milano 2009.

3) Francesco, Omelia della Santa Messa nella solennità dell’Epifania del Signore, del 6-1-2022.

4) Gonzague de Reynold, Dove siamo; il mondo che muore, il mondo che nasce, in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 173.

5) Ibid., p. 172.

6) Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, nn. 137-147, in ID., Gli scritti, a cura dei gesuiti della Provincia d’Italia, Edizioni AdP, Roma 2007, pp. 238-242.

7) Sulle apparizioni della Madonna a Medjugorje cfr. il mio: Medjugorje, il «fenomeno» mariano contemporaneo, in Cristianità, anno XLVI, n. 394, novembre-dicembre 2018, pp. 49-58; vedi anche la recensione a: Dossier Medjugorje, con introduzione e commento di Saverio Gaeta, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2020, pp. 174, in Cristianità, anno XLVIII, n. 402, marzo-aprile 2020, pp. 67-72.

8) Sono debitore, per questa parte dell’articolo, ad un sacerdote della Diocesi di Roma e alla sua catechesi sull’Inno alla carità nella Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo Apostolo, cfr.: Don Fabio Rosini, L’amore senza fine, reperibile nel sito web: https://www.youtube.com/watch?v=XxbWwchw5tc, visitato il 28-2-2022.

9) Francesco, Esortazione apostolica «Evangelii Gaudium» sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, del 24-11-2013, n. 237.

10) Gonzague de Reynold, L’Europa tragica. «Fra il mondo che muore e il mondo che nasce», in Id., La Casa Europa, op.cit., p. 236.

11) Per un confronto fruttuoso con tutti questi temi è molto utile il lavoro di: Giovanni Cucci, Il fascino del male. I vizi capitali, AdP, Roma 2008.

12) Occorre precisare che in altre zone del mondo, aldilà dell’Occidente, la Cristianità è viva: pensiamo alle chiese giovani dell’Africa o anche ad alcune parti dell’Asia.

13) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa. Identità e missione, Introduzione di Sua Santità Papa Francesco, Cantagalli, Siena 2021.

14) Ibid., pp. 230-231.

15) Ibid., p. 231.

16) Ibid., p. 233.

17) Cfr. Papa Francesco, Discorso ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, del 10-1-2022: «Non di rado il baricentro d’interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive […] con l’esito di agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali dell’umanità e le radici culturali che costituiscono l’identità di molti popoli. Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche. In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un’idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità. Si va elaborando un pensiero unico – pericoloso – costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l’ermeneutica dell’epoca, non l’ermeneutica di oggi». Cfr.: eugenio Capozzi, L’autodistruzione dell’Occidente. Dall’umanesimo cristiano alla dittatura del relativismo, Historica / Giubilei Regnani, Roma-Cesena 2021.

18) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 257.

19) Ibid., pp. 257-258. Nel mondo, infatti, il cristianesimo è in crescita: alla fine del 2019, secondo l’Annuario Pontificio 2021, la popolazione cattolica era 1.345.000.000 di persone, circa il 18% della popolazione mondiale, con 16.000.000 di cattolici in più rispetto al 2017, cfr.: Tiziana Campisi, Crescono nel mondo i cattolici: sono 1 miliardo e 345 milioni, reperibile nel sito web: https://www.vaticannews.va/it/vaticano/news/2021-03/aumentano-cattolici-statistiche-chiesa-annuario-pontificio.html, visitato il 5-3-2022. D’altro canto, il Rapporto sulla libertà religiosa 2021 dell’associazione pontificia Aiuto alla Chiesa che soffre, segnala numerose discriminazioni e persecuzioni religiose in diverse parti del mondo, in particolare tra i cristiani, cfr.: Aiuto alla Chiesa che soffre, Rapporto sulla libertà religiosa 2021, reperibile nel sito web: https://acs-italia.org/rapportolr, visitato il 5-3-2022.

20) Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, La vera Europa, op.cit., p. 258.

21) Cfr. Benedetto XVI, Lettera Enciclica «Caritas in Veritate» sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità, del 29-6-2009, n.9: «L’amore nella verità — caritas in veritate — è una grande sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse, da cui proviene l’autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà».

22) Antonio Augusto Borelli Machado, Le apparizioni e il messaggio di Fatima, in Cristianità anno IV, nn. 17-18, maggio-agosto 1976, pp. 15-25; cfr. anche: Congregazione per la Dottrina della Fede, Il messaggio di Fatima, reperibile nel sito web: https://alleanzacattolica.org/il-messaggio-di-fatima/, visitato il 5-3-2022.

 

 

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