La liturgia nell’anno della fede

Catechesi liturgica 3 marzo 2013

“La preghiera è fede in atto” (lettera della CDF Orationis formas).

La liturgia nell’anno della fede

 

 di Emanuele Borserini

Introduzione

La conclusione dello scorso incontro verteva sulla constatazione che oggi abbiamo una grandissima responsabilità nell’adeguare il nostro modo di espletare i riti alla fede che esprimono perché nei confronti della maggior parte delle persone la liturgia è l’unica possibilità concreta di trasmissione della fede. Se già la frequenza alla messa è una percentuale bassa, ancora più piccolo è il numero di coloro che partecipano ad altre attività formative cristiane. Ecco perché è determinante sfruttare al massimo le possibilità di evangelizzazione della liturgia. Questo avviene però con stile e linguaggio che le sono propri. La liturgia stessa offre i suoi strumenti di evangelizzazione senza bisogno che la rendiamo una cornice per conferenze. L’argomento di questa catechesi è forse il più difficile tra tutti quelli che abbiamo proposto, non perché non ci sia molto da dire ma, al contrario, perché c’è troppo da dire. Di conseguenza, cercherò soltanto di condividere alcune riflessioni che mi ha suscitato l’argomento senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività. E per farlo mi affiderò allo schema con cui il secondo capitolo degli Atti degli Apostoli descrive la prima comunità cristiana.

Ma come sempre, incominciamo a dire qualcosa sul titolo. L’affermazione bella e lapidaria “la preghiera è fede in atto” si trova nell’introduzione che Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, scrisse al documento Orationis formas pubblicato dalla stessa Congregazione nel 1989 sul rapporto tra la preghiera cristiana e le forme di meditazione delle religioni e filosofie orientali. Nella prima catechesi avevamo definito la liturgia nei termini della comunicazione. Se la preghiera è l’incontro con Dio, un dialogo tra amici, non può che essere in strettissima connessione con la forma di tale dialogo. Parlando ci rendiamo conto che non vi è mai un contenuto passato senza forma. Il linguaggio è quasi sostanziale. Certamente, c’è una gerarchia nelle verità, ma il nostro modo di raggiungerle spesso segue un ordine inverso. Come l’amore di Dio che pure non vediamo è più improntate di qualsiasi altra cosa ma passa necessariamente attraverso l’amore ai fratelli che vediamo (1Gv 4, 20-21), così il rapporto personale con Dio è più importante di tutte le cerimonie ma, poiché noi non siamo puri spiriti, passa anche attraverso l’uso corretto del linguaggio per comunicare con Dio. Non volerlo riconoscere è in qualche modo una mancanza verso Dio, anzitutto perché è lui che ci ha creato e voluto così e poi perché falsa la comunicazione con lui: chi fa male la genuflessione perche “le cose importanti sono altre” non può dire di amare davvero Dio.

Proviamo a vedere anche storicamente come si configura il rapporto tra la preghiera, quindi la liturgia che è la preghiera della Chiesa, e la fede. Sin dall’Antico Testamento possiamo cogliere come ciò che sancisce il diverso significato di alcuni riti in sé identici tra pagani e popolo di Israele è soltanto la fede. Dell’abito del sommo sacerdote faceva parte l’efod, un pettorale con dodici pietre che rappresentavano le dodici tribù di Israele che era anche una tasca contenente alcuni oggetti, detti urim e tumim (cfr Es 28, 15-30), di cui oggi non si conosce più la fattezza e l’utilizzo preciso ma che servivano per gettare la sorte e prendere le decisioni importanti. Dalla lettura di quei testi si coglie come la coscienza dell’autore sacro non sia la superstizione ma l’affidamento a Dio. È questa la coscienza che accompagna tutta la storia della Chiesa che, anche quando affida ad atti umani le sue scelte, pensiamo alle votazioni di un concilio o del conclave, sa che il vero protagonista del suo agire è lo Spirito Santo. Per i pagani ciò che contava era eseguire correttamente una serie di riti per soddisfare la divinità e averne un profitto, tanto che “ateo” per i romani non era chi non credeva in un dio ma semplicemente chi non compiva i riti e anche i cristiani erano accusati di ateismo perché non sacrificavano all’imperatore. La grande novità del cristianesimo è la certezza che per il fedele cristiano conta anche la verità del rito cioè la fede che attraverso di esso egli esprime. Di conseguenza, vi è una partecipazione intima e attenta alla verità espressa. Il rito allora non è più fine a se stesso o all’utilità momentanea, ma un’espressione vera e sincera della fede. Anche l’ordine di procedere del Concilio Vaticano II è espressione di questa coscienza: “Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. Operi Dei nihil praeponatur: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr 43,3) appare così come la suprema regola del Concilio … In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di Provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione” (Benedetto XVI, Discorso al clero romano, 14 febbraio 2013). Particolarmente significativo diventa per il nostro argomento questo intervento se messo in relazione con la definizione che Cristo stesso da dell’opera di Dio nel discorso alla sinagoga di Cafarnao: “Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». Gesù rispose: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato»” (Gv 6, 28-29). E a dare ancora più legame tra fede e liturgia, l’opera di Dio che è credere nel suo Figlio e l’opera di Dio che è l’adorazione, sta il fatto che questa parola del Signore si trova nel contesto del discorso sul “pane disceso dal cielo” (Gv 6, 41), cioè l’Eucarestia.

Fatta questa premessa storica, non si può non fare immediatamente riferimento a un principio giustamente famoso: lex orandi, lex credendi, che traduco liberamente in “modo di pregare, modo di credere”. A cui bisogna aggiungere lex vivendi, “modo di vivere”; lo ha dichiarato Benedetto XVI dicendo che “la Chiesa dalla liturgia attinge la forza per la vita” (Discorso al Pontificio Istituto Sant’Anselmo, 6 maggio 2011) e citando Giovanni Paolo II che definì la liturgia “cuore pulsante di ogni attività ecclesiale” (cfr Lettera apostolica Vicesimus quintus annus) e Paolo VI  dove diceva che “dalla lex credendi passiamo alla lex orandi e questa ci conduce alla lex operandi et vivendi” (Discorso nella cerimonia dell’offerta dei ceri, 2 febbraio 1970). C’è veramente una penetrazione fortissima tra questi tre aspetti, quasi una pericoresi mi piacerebbe osare dire utilizzando il termine con cui si indica il rapporto tra le persone divine della Trinità. Il contesto in cui per la prima volta Prospero di Aquitania (390-463 ca.), teologo vicino a papa Leone Magno, enuncia il venerando principio è la piccola antologia sulla grazia contro i pelagiani Indiculus de gratia Dei e suona così: legem credendi lex statuat supplicandi (affinché la regola del pregare stabilisca la maniera del credere). La formulazione del Catechismo della Chiesa Cattolica del detto è: “La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega” (CCC 1124). La precisazione sul soggetto di chi crede, la Chiesa, cioè il popolo di Dio convocato nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, indica chiaramente che il modo di credere e di pregare della Chiesa è identico, fede e liturgia sono e devono essere identiche.

La liturgia non è altro dalla fede come non è altro dalla vita, anzi è il luogo privilegiato, insieme alla carità, in cui la fede si esprime e si autoverifica. Lex credendi, orandi, vivendi, un circolo tra credere, celebrare, servire che richiama alla mente la descrizione della Chiesa primitiva che troviamo nel libro degli Atti degli Apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2, 42-47). Una fede creduta, celebrata e testimoniata: questi sono i tre atti fondamentali della fede e ora diremo qualcosa su ognuno.

La fede creduta

Iniziamo a vedere alcuni aspetti della fede attraverso le categorie liturgiche, anzitutto perché la a Chiesa ritiene la liturgia un luogo teologico, cioè una fonte di strumenti per comprendere e spiegare la fede. Il primo e più eloquente esempio che incontriamo è il fatto che il canone stesso della Sacra Scrittura sia stato composto dalla liturgia, cioè per scegliere quali fossero tra i tanti a disposizione i libri che dobbiamo ritenere fonte della Rivelazione di Dio agli uomini la Chiesa ha anzitutto verificato quali venissero proclamati durante la liturgia. ma pensiamo anche a una dottrina per noi fondamentale come la Trinità la quale è stata compresa storicamente a partire dalle formule battesimali nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo perché in ogni momento della storia della Chiesa il confronto con la liturgia è stato determinante per discernere le soluzioni teologiche non pertinenti (le eresie). E ancor oggi il più bel trattato di teologia trinitaria resta il Prefazio della festa della Santissima Trinità. Oppure si può pensare ad alcune acquisizioni che sembrano modernissime in teologia ma che nella liturgia ci sono da sempre; per esempio, la coscienza liturgica ha custodito pere secoli la dottrina della Divina Misericordia anche se in modo chiaro essa è stata approfondita solo nel ‘900 in seguito alle rivelazioni private di Santa Faustina Kowalska. Basta leggere la seconda colletta a scelta della messa per le esequie fuori del tempo pasquale: Deus cui proprium est misereri semper et parcere te supplices exoramus … (tradotta impropriamente come “O Dio, tu sei l’amore che perdona …”). O meglio quella della XXVI Domenica del Tempo Ordinario: “O Dio che manifesti l’onnipotenza soprattutto con il perdono e la misericordia …”. Del resto, le rivelazioni private non aggiungono nulla alla Rivelazione, tuttavia il Signore le suscita proprio per ricordarci qualche aspetto della fede che dovremmo già sapere e di cui ci siamo dimenticati.

La fede è “vedere l’invisibile cogliendone i segni nel visibile” (Benedetto XVI, Udienza generale, 6 febbraio 2013) e questo è esattamente la struttura fondamentale della liturgia che è totalmente simbolica cioè veicola realtà invisibili attraverso strumenti visibili. Un’altra caratteristica simile: dove c’è fede significa che non c’è ancora visione completa. Questo comporta che il mistero sia strutturale per la fede proprio come lo è per la liturgia. A volte ci può sembrare troppo oscuro e incerto questo mistero ma dobbiamo considerare che quel poco che riusciamo a vedere è esattamente quel poco che possiamo sopportare perché la visione diretta di Dio ci schiaccerebbe e comporterebbe necessariamente la morte (cfr Es 33, 18-23). Per credere ci vuole davvero coraggio: non è da sciocchi credere nel Dio di Gesù Cristo ma, al contrario, è quanto di più sensato e virile ci sia; nella liturgia abbiamo già visto quanto sia presente l’aspetto bellico. Tornando alla definizione di dialogo, possiamo dire che la fede è anche incontro con Dio come lo è la liturgia. Nelle chiese ci sono spesso decorazioni floreali perché il luogo dove si svolge la liturgia è il vero giardino dell’Eden in cui si incontra Dio, si può parlare con lui ed egli si rivela, si può tornare in qualche modo a passeggiare in compagnia di Dio (cfr Gen 1 e 2). Infine, due immagini ricorrenti in molti autori spirituali per descrivere la fede sono “luce” e “profumo”, ebbene questi due elementi naturali li ritroviamo fortemente presenti nella liturgia come candele e incenso.

Il motu prpoprio di indizione dell’anno della fede, Porta Fidei, al numero 11 dice: “Nella sua stessa struttura, il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa. Alla professione di fede, infatti, segue la spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, operante e continua a costruire la sua Chiesa. Senza la liturgia e i Sacramenti, la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Alla stessa stregua, l’insegnamento del Catechismo sulla vita morale acquista tutto il suo significato se posto in relazione con la fede, la liturgia e la preghiera”. L’uomo maturo è colui che, pur avendo grandi ideali che lo guidano nella vita, non vive “dai tetti in su” ma è concreto e realista e conosce ed apprezza anche le piccole cose, anzi, sa che la vita è fatta di piccole cose per questo porta i suoi alti ideali anche nei piccoli gesti quotidiani trasfigurandoli come fa la liturgia che prende azioni semplici e le trasfigura rendendole adatte alla comunicazione con Dio. Dai sacramenti, che sono la liturgia in senso stretto, abbiamo la forza per vivere la fede perché sono l’operare concreto di Cristo vivo in mezzo a noi. Poiché la fede informa tutta la vita e non rimane “dai tetti in su”, ci fornisce anche una precisa visione di tutte le dimensioni in cui viviamo che la liturgia a sua volta esprime oppure assume come suoi presupposti. Per esempio, la visione antropologica: per il cristianesimo l’uomo è creato da Dio (cfr Gen 1 e 2), è libero (cfr Gen 3), Dio stesso gli ha dato un corpo (cfr Eb 10, 5) in cui si riflette la sua immagine ed è chiamato a dialogare con Dio e a seguire il suo progetto di felicità. E la liturgia esiste proprio come dialogo tra creatore e creatura il cui linguaggio è anch’esso dono del creatore. Oppure la concezione del tempo: sine dominico non possumus dicevano i martiri di Abitene (303-304). E davvero sul tempo si gioca una sfida importante riguardo la concezione cristiana della vita a cui si oppone l’ammaliante teoria neognostica del New age. Il tempo cristiano è lineare e ha due appuntamenti ben precisi: la creazione e la parusia. Il fatto che all’inizio della storia ci sia l’atto creatore e alla fine di essa ancora colui che ne ha già anticipato la fine e il fine nella sua resurrezione dà alla vita cristiana una precisa impostazione. Dice Ratzinger che la parusia è la pienezza della liturgia perché, essendo la liturgia l’evento pasquale in mezzo a noi, è naturalmente ordinata a compiersi nel ritorno glorioso del Signore risorto; l’Eucarestia è l’“escatologia realizzata” (cfr Joseph Ratzinger, “Escatologia. Morte e vita eterna”, Cittadella editrice 2008). Noi concludiamo l’anno liturgico nell’attesa e lo apriamo nell’attesa, solo la parte finale dell’Avvento è natalizia perché colui che aspettiamo è anche colui che è già venuto. Si celebra e si guarda avanti: questo è un elemento che potrà essere di grande incisività in un mondo sempre meno speranzoso e più cinico perché la gente ha in mente la morte di Dio (secondo il famoso asserto della filosofia di Nietzsche) ed è triste. L’anno liturgico celebra e dona quel fondamento esistenziale di cui molti sono in ricerca. La domenica è il centro della vita cristiana e identifica anche socialmente il cristiano. In questo giorno, giorno della risurrezione di Cristo, sin dall’antichità i cristiani celebrano l’Eucarestia perché la Chiesa facendo l’Eucarestia sa che è l’Eucarestia a fare la Chiesa stessa.

La fede celebrata

Poiché la fede celebrata è l’argomento generale del saggio, qui mi soffermerò solo su alcuni aspetti a partire da quello più intuitivo dalla proclamazione della professione di fede nella Messa. Prima dei miracoli, Gesù chiede sempre di manifestare la propria fede (cfr a titolo di esempio Gv 9, 35; Gv 11, 26; Mt 9, 28) ed ecco che noi professiamo il Credo proprio poco prima del grande miracolo dell’Eucarestia. Il Credo nella liturgia non ha un carattere didascalico ma cultuale: è l’offerta gioiosa di quell’obbedienza di fede che costituisce la natura intima del sacrificio (cfr Eb 5, 8). Sappiamo, infatti, che non fu tanto la quantità della sofferenza di Cristo che ci ha salvato quanto piuttosto il modo in cui egli l’ha vissuta offrendola perfettamente al Padre. Quella fede che ci è stata donata da Dio viene dunque con questo rito riconsegnata come oblazione santa e gradita a Dio. La liturgia esprime così la verità che all’inizio della fede non c’è una nostra azione volontaria, quindi il primato della grazia, ma allo stesso tempo esprime anche quanto sia determinante il nostro assenso al dono gratuito di Dio, egli infatti rispetta sempre la nostra libertà anche nel caso in cui essa lo rifiutasse. La recita del Simbolo esprime dunque più che il movimento discendente di Dio che istruisce il suo popolo, il movimento ascendente dell’assemblea che loda Dio e gli offre il suo stesso dono: non è un atto informativo ma performativo, cioè un vero e proprio rito. Per questo si colloca tra la liturgia della Parola e l’offertorio, addirittura la liturgia ambrosiana e alcune liturgie orientali lo collocano nei riti di offertorio e tra i riti dell’iniziazione cristiana degli adulti c’è proprio un rito chiamato della redditio Symboli in cui anche fisicamente il testo del Credo viene dal catecumeno riconsegnato al Vescovo dopo che lo ha ricevuto all’inizio del percorso di catecumenato insieme al Pater. Non ha dunque senso dire che bisogna recitarlo sempre in italiano perché dobbiamo essere consapevoli di ciò che diciamo, anzitutto perché sfido chiunque a spiegarlo esaustivamente ma soprattutto perché non è un momento catechetico quanto piuttosto cultuale, anzi a volte sarebbe opportuno cantarlo in latino per renderlo il più possibile solenne e affascinante.

Un altro breve accenno: nella liturgia non si dice mai “Grazie”. Il ringraziamento per aver ricevuto un oggetto è l’inchino che, senza alcuna parola, esprime al meglio il riconoscimento della dignità dell’altro, mentre il ringraziamento per aver ricevuto l’Eucarestia è la parola “Amen” che non significa in alcun modo “grazie” bensì “credo”. Ebbene sì, perché esprime la verità che l’unico atteggiamento con cui possiamo ringraziare per questo incommensurabile dono non è che la nostra fede; ringraziare per un dono non accolto, accolto nella fede in questo caso, non avrebbe senso.

La liturgia, essendo per definizione preghiera della Chiesa, ci porta a scoprire anche l’aspetto comunitario e dialogico della fede. Ecco perché nella liturgia solo dopo che è stata annunciata la parola di Dio si può proclamare il Simbolo della fede. Non si crede mai da soli ma sempre in e con la Chiesa, anche la processione della comunione non è semplicemente funzionale ma è il popolo di Dio in cammino. Sempre Porta Fidei al numero 10 cita san Paolo “Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede” (Rm 10, 10) e dice: “Il cuore indica che il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo … La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede”. Anzitutto, perché il Signore stesso, tra il raggiungere la verità su Dio in modo individuale immediato e il raggiungerla attraverso l’incontro, la consegna e l’affidamento alla testimonianza di altri, ha scelto al seconda strada: “e come potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10, 14). L’incontro con Cristo chiede l’umiltà della consegna alla testimonianza di altri. Poi perché “il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito santo, insieme con tutti i santi per il bene della chiesa” (Institutio generalis de Liturgia horarum 9). L’altra volta si è parlato di virilità, ebbene, l’uomo virile è quello tanto maturo individualmente che può prendere parte attiva alla comunità ed edificarla e al contempo tanto maturo comunitariamente che non ha paura di lasciarsi edificare sempre più dalla comunità stessa in un circolo virtuoso che non è un circolo chiuso ma è una spirale che sale verso Dio. Al contrario, chi rinuncia a uno dei due aspetti che sono coessenziali delegando la sua santificazione alla comunità (chi dice “ci penseranno i preti e le suore o quelli del primo banco”) oppure vuole costruirsi come singolo in contrapposizione ad essa (con affermazioni tipo “Cristo si, Chiesa no”) è incompleto, immaturo, gli manca una delle due ali e di conseguenza non può volare verso Dio ma è destinato a precipitare nel baratro. La preghiera personale e quella liturgica, allora, non sono mai contrapposte, al contrario l’una è strettamente necessaria all’altra; l’una senza l’altra si esaurisce ben presto. L’uomo è un animale sociale per natura; se ne rendeva conto già Plinio il Vecchio spiegando che il pulcino appena uscito dall’uovo è già capace di beccare mentre il piccolo d’uomo appena nato è capace di fare una cosa sola, piangere, e se qualcuno non si occupa immediatamente di lui muore. Con la fede possiamo comprenderne la ragione profonda: siamo creati a immagine e somiglianza di Dio che è uno e trino, è in sé stesso comunità di persone.

Dice il Signore al cieco di Gerico (Mc 10, 46-52 e Lc 18, 35-43) e al lebbroso dei dieci risanati che tornò a ringraziarlo (Lc 17, 11-19): “La tua fede ti ha salvato”. La fede allora non è un vago sentire ma coinvolge profondamente la persona perché da la salvezza. La liturgia è celebrazione della fede quindi è per sé coinvolgente ed esige la propria personale partecipazione. Anche se non si svolge alcun ministero visibile c’è il coinvolgimento della fede. Per esempio, il dialogo del Prefazio a cui spesso rispondiamo meccanicamente è una profondissima domanda di fede. Nella liturgia della Pasqua ebraica il bambino più piccolo deve chiedere il motivo di quella strana ricorrenza e il padre spiegandola compie il gesto liturgico di lodare Dio per l’opera della salvezza. Così nel dialogo del Prefazio il popolo chiede al sacerdote che ne è come il padre il motivo per cui rendere grazie a Dio ed elevare a lui i cuori, poi nel corpo del prefazio il sacerdote-padre spiega poeticamente i motivi della festa lodando Dio per le sue opere. In questo dialogo c’è una vera partecipazione, quella che il Concilio Vaticano II chiama actuosa participatio (SC 14), non è la ripetizione di un botta e risposta vuoto. Messo lì, il prefazio aiuta anche ad entrare nel mondo del memoriale come era concepito dalla Pasqua ebraica e a capire, di conseguenza, che quello che sta per essere celebrato è davvero la ripresentazione del sacrificio di Cristo.

La fede vissuta

Pensiamo all’episodio dell’emorroissa (Lc 8, 40-56, Mc 5, 21-43 e Mt 9, 18-26): non serve che Gesù la prenda in considerazione, le basta vedere e toccare. E queste sono le azioni tipiche della liturgia: la trasmissione e l’esperienza della fede attraverso i sensi. Anche nel famoso episodio dell’apostolo Tommaso (Gv 20, 24-29) si coglie come per credere c’è necessità di vedere e toccare perché la nostra non è una fede in una serie di proposizioni astratte ma una persona tanto speciale quanto reale: “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona” (Benedetto XVI, Deus charitas est 1). Diventa così evidente come il principio dell’Incarnazione stia a fondamento della liturgia. Ne è fondamento perché anch’essa è umano-divina e perché, come in Gesù, in essa il Dio invisibile è reso percepibile, come si sollevasse un velo. Infatti, si fa l’inchino (o la genuflessione la notte e il giorno di Natale) al passaggio del Credo Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est perché riconosciamo che a fondamento della nostra possibilità di emettere una professione di fede tanto certa e solenne c’è l’Incarnazione di quel Verbo che è la rivelazione di Dio. Inoltre questo gesto è particolarmente eloquente del significato profondo di quelle parole perché rappresenta anche plasticamente in cosa l’Incarnazione è veramente consistita: la kenosi si dice nel linguaggio tecnico, l’abbassamento del Dio infinito alla condizione dell’uomo finito, l’assunzione della mortalità da parte dell’immortalità, del peccato da parte di colui che è il “tre volte santo”, il farsi piccolo e vulnerabile di colui che nessun luogo può contenere e che vince le potenze del mondo, la discesa di colui che abbassa ed esalta. Come nell’Incarnazione così è nella Messa: l’onnipotente diventa tanto poco potente da essere addirittura mangiabile. Ma, come in tutta la storia della salvezza, in quella che a noi appare debolezza si manifesta la potenza di Dio. Così è la vita cristiana: “quando sono debole è allora che sono forte” (2Cor 12, 10).

Abbiamo visto che alla liturgia è strettamente connesso il ministero, letteralmente l’essere servi, qui sta anche la strettissima connessione con la carità che non è in alcun modo in contrapposizione con la liturgia come la demagogia di certi ecclesiastici ci ha voluto far credere per anni. Al contrario! Basta leggere la colletta del mercoledì della II settimana di Pasqua che chiede la grazia per il passaggio all’attuazione dell’amore che celebriamo: “O Padre, che nella Pasqua del tuo Figlio hai ristabilito l’uomo nella dignità perduta e gli hai dato la speranza della risurrezione, fa’ che accogliamo e viviamo nell’amore il mistero celebrato ogni anno nella fede”. La liturgia non sottrae nulla alla carità perché: “solo l’aver tempo per Dio ci dà tempo per l’uomo” (Joseph Ratzinger, “Dogma e predicazione”, Queriniana 1973). Molto eloquente è anche l’episodio della lavanda dei piedi (cfr Gv 13, 1-20): si tratta si un atto certamente simbolico compiuto da Gesù, è evidente dalle sue stesse parole e dal contesto, tuttavia, è anche un vero atto di carità verso i suoi apostoli per mostrare con un’icona forte che chi vuol essere il primo sia il servo di tutti (cfr Mc 9, 35 e 10, 44). Anche la presidenza della liturgia è un servizio al popolo di Dio e sempre l’esercizio della potestà nella Chiesa è intrinsecamente servizio. Qualcuno vive male l’esistenza della gerarchia e del Magistero a cui si deve obbedienza e rispetto perché vi vede una struttura di imposizione che limita la libertà ma, al contrario, tutto ciò è un servizio alla nostra fede, la garanzia della presenza viva e operante di Cristo-capo, una garanzia di libertà (secondo il concetto di libertà che abbiamo visto la volta scorsa). Il principio gerarchico della Chiesa dettato da Gesù stesso con la consegna delle chiavi a Pietro si fonda proprio sulla sua professione di fede (cfr Mt 16, 13-20). Nella liturgia si celebra la carità, l’amore di Dio. Un amore che anzitutto ci ama per come siamo:  il rito dell’imposizione del nome nel Battesimo è importantissimo perché attesta che davanti a Dio siamo persone, ognuna amata come è. E la persona umana è creata maschio o femmina e anche quando non ci sarà più l’esigenza di procreare perché vivremo eternamente con Dio (cfr Mt 22, 30), resteremo sempre maschi e femmine. In secondo luogo è un amore ci che spinge a fare quello che ha fatto lui: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34) che è appunto l’antifona che tradizionalmente accompagna il rito della lavanda dei piedi nella Messa In Coena Domini del Giovedì Santo. Questo amore ci spinge e contemporaneamente ci da la grazia senza la quale non sarebbe possibile realizzarlo perché “senza di me non potete far nulla” (Gv 15, 5). Sì, ci sono i buoni sentimenti, che però non durano. Comunione, unità, giustizia, un uomo nuovo sono valori che si realizzano nel cuore attraverso la preghiera cioè il dialogo con Dio. E il luogo privilegiato di tale dialogo è la liturgia. Pensare di poterli dare dall’esterno è l’errore dei regimi di cui nel ‘900 si è fatta dolorosa esperienza che per fare l’uomo nuovo ammazzavano gli uomini reali.

Riprendiamo il riferimento alla Chiesa primitiva di At 2. Sappiamo che i primi secoli dell’era cristiana sono strettamente caratterizzati dall’esperienza del martirio che del resto è la conferma che da subito la fede in Gesù Cristo non è un fatto puramente intellettuale ma che cambia sensibilmente la vita. Il martirio è la manifestazione più vera e chiara della fede ed è un vero atto di culto perché con esso si offre a Dio tutto ciò che abbiamo, la vita, come ha fatto Gesù. Abbiamo la descrizione del martirio di sant’Ignazio d’Antiochia come un’Eucarestia: “sono frumento di Dio e sarò macinato dai denti delle fiere per divenire pane puro di Cristo. Supplicate Cristo per me, perché per opera di queste belve io divenga ostia per il Signore” (Sant’Ignazio di Antiochia, vescovo e martire, “Lettera ai Romani”, capp. 4, 1-2; 6, 1 – 8, 3; Funk, 1, 217-223). Martirio deriva dal greco e significa testimonianza. Dunque, è cosa veramente seria la testimonianza della fede! Testimoniare Cristo davanti al mondo significa “cristificare” la realtà che è un’operazione maieutica, consiste cioè nel tirar fuori l’immagine di Cristo che già c’è nelle persone e nelle cose in quanto “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La nostra testimonianza si espleta nell’evangelizzazione, la “nuova evangelizzazione”, che non è soltanto annunciare a parole ma testimoniare con tutto noi stessi di aver incontrato il Signore come gli apostoli. Per esempio Andrea di cui dice il Vangelo che “incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: Abbiamo trovato il Messia che significa il Cristo e lo condusse da Gesù” (Gv 11, 41, 42) . Per San Paolo il vero culto della nuova alleanza è l’annuncio stesso del Vangelo per questo parla di loghikè latreia (Rm 12, 1) e si presenta anzitutto come ministro della parola facendone il suo vanto (cfr Rm 15, 16-17). Del resto, è chiaro dai vangeli che il ministero di Gesù è l’annuncio del Regno di Dio, in parole e in opere. Pensiamo alla struttura dell’ambone delle antiche basiliche come San Clemente a Roma in cui il Vangelo viene proclamato a sud dove il sole-Cristo è al suo apice e verso nord dove non è ancora giunto e sono le tenebre. La nostra fede è rapporto d’amore con una Persona e bonum diffudivum sui, si vuole espandere, a noi non resta che seguire questo moto dello Spirito santo. La vita di Gesù raccontata nei Vangeli è tutta organizzata come il viaggio dalla Galilea a Gerusalemme cioè un viaggio dall’annuncio al sacrificio. È da notare però che lo stesso annuncio è più volte un’anticipazione della passione-sacrificio. Per questo annuncio e liturgia non si possono separare come non sono separati nella vita di Cristo l’annuncio del Vangelo del Regno e il suo compimento nel sacrificio della croce. Peraltro, in questa lettura della vita di Gesù si può scorgere anche la struttura della Messa che è divisa in liturgia della Parola e liturgia del sacrificio. L’anima di ogni cristiano è dunque un’anima sacrificale, ma ne parleremo nel prossimo incontro.

La liturgia esprime perfettamente l’essenza della Chiesa che è una comunità “escatologica” cioè che vive nei tempi ultimi, ultimi in senso qualitativo. L’acclamazione Maranathà tipica dell’Avvento è un compendio di liturgia perché tutto in essa chiede “vieni Signore”. La liturgia ha senso che sia celebrata perché la Chiesa attende il ritorno del Signore. Nell’antichità tutte le chiese erano costruite in modo che l’abside, e di conseguenza l’altare, fossero rivolti verso Oriente da cui sorge il sole e da cui secondo la Scrittura verrà il Signore, il nostro sole, il nostro orizzonte di senso. Per questo nella risposta al “Mistero della fede” esprimiamo la consapevolezza che celebriamo i divini misteri donec venias, finché tornerà il Signore. Questa tensione strutturale della liturgia dev’essere anche la tensione di tutta la vita del cristiano e il cristiano non può aspettare il Signore come si aspetta il tram! Nella liturgia e nella vita di tutti i giorni dobbiamo esprimere una fervida, gioiosa e attiva attesa. Soprattutto i laici sono chiamati a portare questa ventata di senso in tutti gli aspetti della vita anche civile e così possono veramente partecipare allo spirito della liturgia. Ecco perché partecipazione non significa clericalizzare i laici ma fare in modo che acquisiscano questa linfa da riversare nel “secolo” a cui appartengono (cfr LG 31).

 

Conclusione: la presenza di Maria nella liturgia

Vorrei ora mettere in luce un aspetto particolare della nostra fede che è la presenza amorevole di una Madre che in essa ci guida e ci sostiene. Notiamo, infatti, come Maria sia costantemente presente nella liturgia. Provocato da alcuni che ritengono questa presenza eccessiva e invadente ho cercato di approfondirla brevemente. Anzitutto, dobbiamo constatare che lodare Maria è la risposta a una precisa parola di Dio rivelata: il Magnificat (Lc 1, 46-55) in cui ella profetizza “d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata” perché “grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente” e il dono della maternità spirituale con cui Gesù ha affidato sua madre ad ogni suo discepolo (Gv 19, 26-27). C’è dunque un rapporto strettissimo di Maria con la sua celebrazione ma anche con la struttura profonda della liturgia che è lodare Dio per le sue grandi opere di salvezza.

Una bella definizione di fede che ho trovato è la seguente: “contatto col mistero di Dio” (Giovanni Paolo II, Redemptoris mater 17). Ebbene, Maria è sempre stata in contatto con Gesù nel corso della sua vita. Anzi, è l’unica persona che può dire di essere stata presente a tutti i momenti della sua vita, dalla nascita sino al mistero pasquale, passando anche per gli anni nascosti di Nazareth. La presenza di Maria è unica e incomparabile nel mistero di Cristo per questo lo deve essere anche nella celebrazione sacramentale di tale mistero. Soprattutto era presente all’evento ripresentato dalla liturgia, il sacrificio della croce. Maria è la madre di Gesù in senso biologico ma in lei il legame di sangue coincide con quello della fede perché ha accolto la parola di Dio, vi ha creduto e fu obbediente a Dio serbando e meditando la sua parola nel cuore (cfr Redemptoris Mater 20). Inoltre, nella Scrittura e nella storia della Chiesa possiamo constatare che dove c’è Maria c’è sempre anche Gesù e mai ella lo nasconde ma, al contrario, ne esalta ancor di più la centralità (LG 60). Sin dalle profezie più antiche (un esempio paradigmatico per tutti è il “protovangelo” di Gen 3, 15), dove è adombrata Maria ciò avviene sempre in funzione del mistero di Cristo e dove è annunciato il Messia c’è sempre un qualche riferimento alla madre. Anche la storia dei dogmi mariani lo dimostra: la loro ragione più profonda risiede sempre nella difesa di qualche verità cristologica messa in pericolo ed ecco che la fede di Maria corre in soccorso della nostra retta fede nel suo Figlio. Già nel III sec Maria era invocata come “Madre di Dio” nella preghiera Sub tuum praesidium e proprio lì il concilio di Efeso nel 431 cerca la formulazione del suo dogma. Maria è la debellatrice di ogni eresia: con la sua preghiera, la sua vita, la sua stessa silenziosa presenza ci preserva dall’errore. Ella “sta” (Gv 19, 25) e con questa statuaria virilità combatte contro il male accanto a Gesù.

Il culto riservato a Maria, pur nel suo posto speciale superiore a tutti gli altri santi, è sempre inferiore all’adorazione che si deve solo a Dio. Maria è stata definita in modo poco poetico ma molto eloquente “la tutta relativa a Cristo” e questo è ciò che anche noi possiamo sperimentare nell’adorazione che è l’essenza della liturgia. L’Oriente cristiano la definisce anche “teatro dell’azione di Dio”. Ella ha poi un rapporto speciale con la liturgia in virtù della sua collaborazione allo Spirito Santo che è anche colui che fa la liturgia. Come la prima venuta del Signore nel mondo, la venuta storica nella carne, si concretizzò per opera dello Spirito Santo, così anche in ogni venuta sacramentale si invoca lo stesso Spirito con la preghiera presente in tutti i sacramenti che si chiama “epiclesi”. E come Maria ha collaborato attivamente con lo Spirito Santo dando il suo assenso libero e perfetto all’Incarnazione, così collabora in modo non secondario anche alla celebrazione di tale evento in ogni liturgia. Peraltro, quello suscitato da Maria a Cana (Gv 2, 1-10) è l’unico miracolo per il quale Gesù non chiede la professione della fede perché la fede di Maria è in qualche modo scontata e vissuta pienamente. Questo però non ci inganni: non si tratta di un modello lontano che non ha niente a che vedere con le nostre difficoltà quotidiane a credere. Anche Maria ha vissuto un cammino di fede che va dalla naturale e realistica domanda dell’annunciazione “come è possibile?” (Lc 1, 34) fino al suo stare sotto la croce del Figlio. Se la Chiesa è la comunità dei credenti, sotto la croce Maria è la Chiesa stessa, inoltre per la Chiesa ella rappresenta un’icona importantissima a cui guardare. Lo spiega con un linguaggio squisitamente liturgico il concilio Vaticano II: “Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr Ef 5, 27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella santità per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a tutta la comunità degli eletti. La Chiesa, raccogliendosi con pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce del Verbo fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nel supremo mistero dell’incarnazione e si va ognor più conformando col suo sposo. Maria infatti, la quale, per la sua intima partecipazione alla storia della salvezza, riunisce per così dire e riverbera le esigenze supreme della fede, quando è fatta oggetto della predicazione e della venerazione chiama i credenti al Figlio suo, al suo sacrificio e all’amore del Padre” (LG 65).

Nella liturgia Maria è sempre celebrata come vergine e come madre, la Chiesa benedice così in lei le due vocazioni fondamentali della vita cristiana: verginità per il Regno dei cieli e matrimonio, i due aspetti dell’unica vera fecondità che è quella della fede (cfr Redemptoris Mater 43). Ecco perché celebrarla e averla come compagna di fede è una ricchezza, un dono inestimabile di Dio per cui e attraverso cui lodarlo.

 

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